Qual duro freno o qual ferrigno nodo,
qual, s’esser può, catena di diamante
farà che l’ira servi ordine e modo,
che non trascorra oltre al prescritto inante,
quando persona che con saldo chiodo
t’abbia già fissa Amor nel cor costante,
tu vegga o per violenza o per inganno
patire o disonore o mortal danno?
E s’a crudel, s’ad inumano effetto
quell’impeto talor l’animo svia,
merita escusa, perché allor del petto
non ha ragione imperio né balìa.
Achille, poi che sotto il falso elmetto
vide Patròclo insanguinar la via,
d’uccider chi l’uccise non fu sazio,
se nol traea, se non ne facea strazio.
Invitto Alfonso, simile ira accese
la vostra gente il dì che vi percosse
la fronte il grave sasso, e sì v’offese,
ch’ognun pensò che l’alma gita fosse:
l’accese in tal furor, che non difese
vostri inimici argini o mura o fosse,
che non fossino insieme tutti morti,
senza lasciar chi la novella porti.
Il vedervi cader causò il dolore
che i vostri a furor mosse e a crudeltade.
S’eravate in piè voi, forse minore
licenza avriano avute le lor spade.
Eravi assai, che la Bastia in manche ore
v’aveste ritornata in potestade,
che tolta in giorni a voi non era stata
da gente cordovese e di Granata.
Forse fu da Dio vindice permesso
che vi trovaste a quel caso impedito,
acciò che ’l crudo e scelerato eccesso
che dianzi fatto avean, fosse punito:
che, poi ch’in lor man vinto si fu messo
il miser Vestidel, lasso e ferito,
senz’arme fu tra cento spade ucciso
dal popul la più parte circonciso.
Ma perch’io vo’ concludere, vi dico
che nessun’altra quell’ira pareggia,
quando signor, parente, o sozio antico
dinanzi agli occhi ingiuriar ti veggia.
Dunque è ben dritto per sì caro amico,
che subit’ira il cor d’Orlando feggia;
che de l’orribil colpo che gli diede
il re Gradasso, morto in terra il vede.
Quel nomade pastor che vedut’abbia
fuggir strisciando l’orrido serpente
che il figliuol che giocava ne la sabbia,
ucciso gli ha col venenoso dente,
stringe il baston con colera e con rabbia;
tal la spada d’ogni altra più tagliente
stringe con ira il cavallier d’Anglante:
il primo che trovò, fu ’l re Agramante;
che sanguinoso e de la spada privo,
con mezzo scudo e con l’elmo disciolto,
e ferito in più parti ch’io non scrivo,
s’era di man di Brandimarte tolto,
come di piè all’astor sparvier mal vivo,
a cui lasciò alla coda invido o stolto.
Orlando giunse, e messe il colpo giusto
ove il capo si termina col busto.
Sciolto era l’elmo e disarmato il collo,
sì che lo tagliò netto come un giunco.
Cadde, e diè nel sabbion l’ultimo crollo
del regnator di Libia il grave trunco.
Corse lo spirto all’acque, onde tirollo
Caron nel legno suo col graffio adunco.
Orlando sopra lui non si ritarda,
ma trova il Serican con Balisarda.
Come vide Gradasso d’Agramante
cadere il busto dal capo diviso;
quel ch’accaduto mai non gli era inante,
tremò nel core e si smarrì nel viso;
e all’arrivar del cavallier d’Anglante,
presago del suo mal, parve conquiso.
Per schermo suo partito alcun non prese,
quando il colpo mortal sopra gli scese.
Orlando lo ferì nel destro fianco
sotto l’ultima costa; e il ferro, immerso
nel ventre, un palmo uscì dal lato manco,
di sangue sin all’elsa tutto asperso.
Mostrò ben che di man fu del più franco
e del meglior guerrier de l’universo
il colpo ch’un signor condusse a morte,
di cui non era in Pagania il più forte.
Di tal vittoria non troppo gioioso,
presto di sella il paladin si getta;
e col viso turbato e lacrimoso
a Brandimarte suo corre a gran fretta.
Gli vede intorno il campo sanguinoso:
l’elmo che par ch’aperto abbia una accetta,
se fosse stato fral più che di scorza,
difeso non l’avria con minor forza.
Orlando l’elmo gli levò dal viso,
e ritrovò che ’l capo sino al naso
fra l’uno e l’altro ciglio era diviso:
ma pur gli è tanto spirto anco rimaso,
che de’ suoi falli al Re del paradiso
può domandar perdono anzi l’occaso;
e confortare il conte, che le gote
sparge di pianto, a pazienza puote;
e dirgli: — Orlando, fa che ti raccordi
di me ne l’orazion tue grate a Dio;
né men ti raccomando la mia Fiordi... —
ma dir non poté: — ... ligi —, e qui finio.
E voci e suoni d’angeli concordi
tosto in aria s’udir, che l’alma uscìo;
la qual disciolta dal corporeo velo
fra dolce melodia salì nel cielo.
Orlando, ancor che far dovea allegrezza
di sì devoto fine, e sapea certo
che Brandimarte alla suprema altezza
salito era (che ’l ciel gli vide aperto);
pur da la umana volontade, avezza
coi fragil sensi, male era sofferto
ch’un tal più che fratel gli fosse tolto,
e non aver di pianto umido il volto.
Sobrin che molto sangue avea perduto,
che gli piovea sul fianco e su le gote,
riverso già gran pezzo era caduto,
e aver ne dovea ormai le vene vote.
Ancor giacea Olivier, né riavuto
il piede avea, né riaver lo puote
se non ismosso, e de lo star che tanto
gli fece il destrier sopra, mezzo infranto:
e se ’l cognato non venìa ad aitarlo
(sì come lacrimoso era e dolente),
per sé medesmo non potea ritrarlo;
e tanta doglia e tal martìr ne sente,
che ritratto che l’ebbe, né a mutarlo
né a fermarvisi sopra era possente;
e n’ha insieme la gamba sì stordita,
che muover non si può, se non si aita.
De la vittoria poco rallegrosse
Orlando; e troppo gli era acerbo e duro
veder che morto Brandimarte fosse,
né del cognato molto esser sicuro.
Sobrin, che vivea ancora, ritrovosse,
ma poco chiaro avea con molto oscuro;
che la sua vita per l’uscito sangue
era vicina a rimanere esangue.
Lo fece tor, che tutto era sanguigno,
il conte, e medicar discretamente;
e confortollo con parlar benigno,
come se stato gli fosse parente;
che dopo il fatto nulla di maligno
in sé tenea, ma tutto era clemente.
Fece dei morti arme e cavalli torre;
del resto a’ servi lor lasciò disporre.
Qui de la istoria mia, che non sia vera,
Federigo Fulgoso è in dubbio alquanto;
che con l’armata avendo la riviera
di Barberia trascorsa in ogni canto,
capitò quivi, e l’isola sì fiera,
montuosa e inegual ritrovò tanto,
che non è, dice, in tutto il luogo strano,
ove un sol piè si possa metter piano:
né verisimil tien che ne l’alpestre
scoglio sei cavallieri, il fior del mondo,
potesson far quella battaglia equestre.
Alla quale obiezion così rispondo:
ch’a quel tempo una piazza de le destre,
che sieno a questo, avea lo scoglio al fondo;
ma poi, ch’un sasso che ’l tremuoto aperse,
le cadde sopra, e tutta la coperse.
Sì che, o chiaro fulgor de la Fulgosa
stirpe, o serena, o sempre viva luce,
se mai mi riprendeste in questa cosa,
e forse inanti a quello invitto duce
per cui la vostra patria or si riposa,
lascia ogni odio, e in amor tutta s’induce;
vi priego che non siate a dirgli tardo,
ch’esser può che né in questo io sia bugiardo.
In questo tempo, alzando gli occhi al mare,
vide Orlando venire a vela in fretta
un navilio leggier, che di calare
facea sembiante sopra l’isoletta.
Di chi si fosse, io non voglio or contare,
perc’ho più d’uno altrove che m’aspetta.
Veggiamo in Francia, poi che spinto n’hanno
i Saracin, se mesti o lieti stanno.
Veggiàn che fa quella fedele amante
che vede il suo contento ir sì lontano;
dico la travagliata Bradamante,
poi che ritrova il giuramento vano,
ch’avea fatto Ruggier pochi dì inante,
udendo il nostro e l’altro stuol pagano.
Poi ch’in questo ancor manca, non le avanza
in ch’ella debba più metter speranza.
E ripetendo i pianti e le querele
che pur troppo domestiche le furo,
tornò a sua usanza a nominar crudele
Ruggiero, e ’l suo destin spietato e duro.
Indi sciogliendo al gran dolor le vele,
il ciel, che consentia tanto pergiuro,
né fatto n’avea ancor segno evidente,
ingiusto chiama, debole e impotente.
Ad accusar Melissa si converse,
e maledir l’oracol de la grotta;
ch’a lor mendace suasion s’immerse
nel mar d’amore, ov’è a morir condotta.
Poi con Marfisa ritornò a dolerse
del suo fratel che le ha la fede rotta:
con lei grida e si sfoga, e le domanda,
piangendo, aiuto, e se le raccomanda.
Marfisa si ristringe ne le spalle,
e, quel sol che pò far, le dà conforto;
né crede che Ruggier mai così falle,
ch’a lei non debba ritornar di corto.
E se non torna pur, sua fede dalle,
ch’ella non patirà sì grave torto;
o che battaglia piglierà con esso,
o gli farà osservar ciò c’ha promesso.
Così fa ch’ella un poco il duol raffrena;
ch’avendo ove sfogarlo, è meno acerbo.
Or ch’abbiam vista Bradamante in pena,
chiamar Ruggier pergiuro, empio e superbo;
veggiamo ancor, se miglior vita mena
il fratel suo che non ha polso o nerbo,
osso o medolla che non senta caldo
de le fiamme d’amor; dico Rinaldo.
dico Rinaldo, il qual, come sapete,
Angelica la bella amava tanto;
né l’avea tratto all’amorosa rete
sì la beltà di lei, come l’incanto.
Aveano gli altri paladin quiete,
essendo ai Mori ogni vigore affranto:
tra i vincitori era rimaso solo
egli captivo in amoroso duolo.
Cento messi a cercar che di lei fusse
avea mandato, e cerconne egli stesso.
Al fine a Malagigi si ridusse,
che nei bisogni suoi l’aiutò spesso.
A narrar il suo amor se gli condusse
col viso rosso e col ciglio demesso;
indi lo priega che gli insegni dove
la desiata Angelica si trove.
Gran maraviglia di sì strano caso
va rivolgendo a Malagigi il petto.
Sa che sol per Rinaldo era rimaso
d’averla cento volte e più nel letto:
ed egli stesso, acciò che persuaso
fosse di questo, avea assai fatto e detto
con prieghi e con minacce per piegarlo;
né mai avuto avea poter di farlo:
e tanto più, ch’allor Rinaldo avrebbe
tratto fuor Malagigi di prigione.
Fare or spontaneamente lo vorrebbe,
che nulla giova, e n’ha minor cagione.
Poi priega lui che ricordar si debbe
pur quanto ha offeso in questo oltr’a ragione;
che per negargli già, vi mancò poco
di non farlo morire in scuro loco.
Ma quanto a Malagigi le domande
di Rinaldo importune più pareano,
tanto, che l’amor suo fosse più grande,
indizio manifesto gli faceano.
I prieghi che con lui vani non spande,
fan che subito immerge ne l’oceano
ogni memoria de la ingiuria vecchia,
e che a dargli soccorso s’apparecchia.
Termine tolse alla risposta, e spene
gli diè, che favorevol gli saria,
e che gli saprà dir la via che tiene
Angelica, o sia in Francia o dove sia.
E quindi Malagigi al luogo viene
ove i demoni scongiurar solia,
ch’era fra monti inaccessibil grotta:
apre il libro, e li spirti chiama in frotta.
Poi ne sceglie un che de’ casi d’amore
avea notizia, e da lui saper volle,
come sia che Rinaldo ch’avea il core
dianzi sì duro, or l’abbia tanto molle:
e di quelle due fonti ode il tenore,
di che l’una dà il fuoco, e l’altra il tolle;
e al mal che l’una fa, nulla soccorre,
se non l’altra acqua che contraria corre.
Ed ode come avendo già di quella
che l’amor caccia, beuto Rinaldo,
ai lunghi prieghi d’Angelica bella
si dimostrò così ostinato e saldo;
e che poi giunto per sua iniqua stella
a ber ne l’altra l’amoroso caldo,
tornò ad amar, per forza di quelle acque,
lei che pur dianzi oltr’al dover gli spiacque.
Da iniqua stella e fier destin fu giunto
a ber la fiamma in quel ghiacciato rivo;
perché Angelica venne quasi a un punto
a ber ne l’altro di dolcezza privo,
che d’ogni amor le lasciò il cor sì emunto,
ch’indi ebbe lui più che le serpi a schivo:
egli amò lei, e l’amor giunse al segno
in ch’era già di lei l’odio e lo sdegno.
Del caso strano di Rinaldo a pieno
fu Malagigi dal demonio istrutto,
che gli narrò d’Angelica non meno,
ch’a un giovine african si donò in tutto;
e come poi lasciato avea il terreno
tutto d’Europa, e per l’instabil flutto
verso India sciolto avea dai liti ispani
su l’audaci galee de’ Catallani.
Poi che venne il cugin per la risposta,
molto gli disuase Malagigi
di più Angelica amar, che s’era posta
d’un vilissimo barbaro ai servigi;
ed ora sì da Francia si discosta,
che mal seguir se ne potria i vestigi:
ch’era oggimai più là ch’a mezza strada,
per andar con Medoro in sua contrada.
La partita d’Angelica non molto
sarebbe grave all’animoso amante;
né pur gli avria turbato il sonno, o tolto
il pensier di tornarsene in Levante:
ma sentendo ch’avea del suo amor colto
un Saracino le primizie inante,
tal passione e tal cordoglio sente,
che non fu in vita sua, mai, più dolente.
Non ha poter d’una risposta sola;
triema il cor dentro, e trieman fuor le labbia;
non può la lingua disnodar parola;
la bocca ha amara, e par che tosco v’abbia.
Da Malagigi subito s’invola;
e come il caccia la gelosa rabbia,
dopo gran pianto e gran ramaricarsi,
verso Levante fa pensier tornarsi.
Chiede licenza al figlio di Pipino:
e trova scusa che ’l destrier Baiardo,
che ne mena Gradasso saracino
contra il dover di cavallier gagliardo,
lo muove per suo onore a quel camino,
acciò che vieti al Serican bugiardo
di mai vantarsi che con spada o lancia
l’abbia levato a un paladin di Francia.
Lasciollo andar con sua licenza Carlo,
ben che ne fu con tutta Francia mesto;
ma finalmente non seppe negarlo,
tanto gli parve il desiderio onesto.
Vuol Dudon, vuol Guidone accompagnarlo;
ma lo niega Rinaldo a quello e a questo.
Lascia Parigi, e se ne va via solo,
pien di sospiri e d’amoroso duolo.
Sempre ha in memoria, e mai non se gli tolle,
ch’averla mille volte avea potuto,
e mille volte avea ostinato e folle
di sì rara beltà fatto rifiuto;
e di tanto piacer ch’aver non volle,
sì bello e sì buon tempo era perduto:
ed ora eleggerebbe un giorno corto
averne solo, e rimaner poi morto.
Ha sempre in mente, e mai non se ne parte,
come esser puote ch’un povero fante
abbia del cor di lei spinto da parte
merito e amor d’ogni altro primo amante.
Con tal pensier che ’l cor gli straccia e parte,
Rinaldo se ne va verso Levante;
e dritto al Reno e a Basilea si tiene,
fin che d’Ardenna alla gran selva viene.
Poi che fu dentro a molte miglia andato
il paladin pel bosco aventuroso,
da ville e da castella allontanato,
ove aspro era più il luogo e periglioso,
tutto in un tratto vide il ciel turbato,
sparito il sol tra nuvoli nascoso,
ed uscir fuor d’una caverna oscura
un strano mostro in feminil figura.
Mill’occhi in capo avea senza palpèbre;
non può serrarli, e non credo che dorma:
non men che gli occhi, avea l’orecchie crebre;
avea in loco de crin serpi a gran torma.
Fuor de le diaboliche tenèbre
nel mondo uscì la spaventevol forma.
Un fiero e maggior serpe ha per la coda,
che pel petto si gira e che l’annoda.
Quel ch’a Rinaldo in mille e mille imprese
più non avvenne mai, quivi gli avviene;
che come vede il mostro ch’all’offese
se gli apparecchia, e ch’a trovar lo viene,
tanta paura, quanta mai non scese
in altri forse, gli entra ne le vene:
ma pur l’usato ardir simula e finge,
e con trepida man la spada stringe.
S’acconcia il mostro in guisa al fiero assalto,
che si può dir che sia mastro di guerra:
vibra il serpente venenoso in alto,
e poi contra Rinaldo si disserra;
di qua di là gli vien sopra a gran salto.
Rinaldo contra lui vaneggia ed erra:
colpi a dritto e a riverso tira assai,
ma non ne tira alcun che fera mai.
Il mostro al petto il serpe ora gli appicca,
che sotto l’arme e sin nel cor l’agghiaccia;
ora per la visiera gliele ficca,
e fa ch’erra pel collo e per la faccia.
Rinaldo da l’impresa si dispicca,
e quanto può con sproni il destrier caccia:
ma la Furia infernal già non par zoppa,
che spicca un salto, e gli è subito in groppa.
Vada al traverso, al dritto, ove si voglia,
sempre ha con lui la maledetta peste;
né sa modo trovar, che se ne scioglia,
ben che ’l destrier di calcitrar non reste.
Triema a Rinaldo il cor come una foglia:
non ch’altrimente il serpe lo moleste;
ma tanto orror ne sente e tanto schivo,
che stride e geme, e duolsi ch’egli è vivo.
Nel più tristo sentier, nel peggior calle
scorrendo va, nel più intricato bosco,
ove ha più asprezza il balzo, ove la valle
è più spinosa, ov’è l’aer più fosco,
così sperando torsi da le spalle
quel brutto, abominoso, orrido tosco;
e ne saria mal capitato forse,
se tosto non giungea chi lo soccorse.
Ma lo soccorse a tempo un cavalliero
di bello armato e lucido metallo,
che porta un giogo rotto per cimiero,
di rosse fiamme ha pien lo scudo giallo;
così trapunto il suo vestire altiero,
così la sopravesta del cavallo:
la lancia ha in pugno, e la spada al suo loco,
e la mazza all’arcion, che getta foco.
Piena d’un foco eterno è quella mazza,
che senza consumarsi ognora avampa:
né per buon scudo o tempra di corazza
o per grossezza d’elmo se ne scampa.
Dunque si debbe il cavallier far piazza,
giri ove vuol l’inestinguibil lampa:
né manco bisognava al guerrier nostro,
per levarlo di man del crudel mostro.
E come cavallier d’animo saldo,
ove ha udito il rumor, corre e galoppa,
tanto che vede il mostro che Rinaldo
col brutto serpe in mille nodi agroppa,
e sentir fagli a un tempo freddo e caldo;
che non ha via di torlosi di groppa.
Va il cavalliero, e fere il mostro al fianco,
e lo fa trabboccar dal lato manco.
Ma quello è a pena in terra che si rizza,
e il lungo serpe intorno aggira e vibra.
Quest’altro più con l’asta non l’attizza;
ma di farla col fuoco si delibra.
La mazza impugna, e dove il serpe guizza,
spessi come tempesta i colpi libra;
né lascia tempo a quel brutto animale,
che possa farne un solo o bene o male:
e mentre a dietro il caccia o tiene a bada,
e lo percuote, e vendica mille onte,
consiglia il paladin che se ne vada
per quella via che s’alza verso il monte.
Quel s’appiglia al consiglio ed alla strada;
e senza dietro mai volger la fronte,
non cessa, che di vista se gli tolle,
ben che molto aspro era a salir quel colle.
Il cavallier, poi ch’alla scura buca
fece tornare il mostro da l’inferno,
ove rode se stesso e si manuca,
e da mille occhi versa il pianto eterno;
per esser di Rinaldo guida e duca
gli salì dietro, e sul giogo superno
gli fu alle spalle, e si mise con lui
per trarlo fuor de’ luoghi oscuri e bui.
Come Rinaldo il vide ritornato,
gli disse che gli avea grazia infinita,
e ch’era debitore in ogni lato
di porre a beneficio suo la vita.
Poi lo domanda come sia nomato,
acciò dir sappia chi gli ha dato aita,
e tra guerrieri possa e inanzi a Carlo
de l’alta sua bontà sempre esaltarlo.
Rispose il cavallier: — Non ti rincresca
se ’l nome mio scoprir non ti vogli’ora:
ben tel dirò prima ch’un passo cresca
l’ombra; che ci sarà poca dimora. —
Trovaro, andando insieme, un’acqua fresca
che col suo mormorio facea talora
pastori e viandanti al chiaro rio
venire, e berne l’amoroso oblio.
Signor, queste eran quelle gelide acque,
quelle che spengon l’amoroso caldo;
di cui bevendo, ad Angelica nacque
l’odio ch’ebbe di poi sempre a Rinaldo.
E s’ella un tempo a lui prima dispiacque,
e se ne l’odio il ritrovò sì saldo,
non derivò, Signor, la causa altronde,
se non d’aver beuto di queste onde.
Il cavallier che con Rinaldo viene,
come si vede inanzi al chiaro rivo,
caldo per la fatica il destrier tiene,
e dice: — Il posar qui non fia nocivo. —
— Non fia (disse Rinaldo) se non bene;
ch’oltre che prema il mezzogiorno estivo,
m’ha così il brutto mostro travagliato,
che ’l riposar mi fia commodo e grato. —
L’un e l’altro smontò del suo cavallo,
e pascer lo lasciò per la foresta;
e nel fiorito verde a rosso e a giallo
ambi si trasson l’elmo de la testa.
Corse Rinaldo al liquido cristallo,
spinto da caldo e da sete molesta,
e cacciò, a un sorso del freddo liquore,
dal petto ardente e la sete e l’amore.
Quando lo vide l’altro cavalliero
la bocca sollevar de l’acqua molle,
e ritrarne pentito ogni pensiero
di quel desir ch’ebbe d’amor sì folle;
si levò ritto, e con sembiante altiero
gli disse quel che dianzi dir non volle:
— Sappi, Rinaldo, il nome mio è lo Sdegno,
venuto sol per sciorti il giogo indegno. —
Così dicendo, subito gli sparve,
e sparve insieme il suo destrier con lui.
Questo a Rinaldo un gran miracol parve;
s’aggirò intorno, e disse: — Ove è costui? —
Stimar non sa se sian magiche larve,
che Malagigi un de’ ministri sui
gli abbia mandato a romper la catena
che lungamente l’ha tenuto in pena:
o pur che Dio da l’alta ierarchia
gli abbia per ineffabil sua bontade
mandato, come già mandò a Tobia,
un angelo a levar di cecitade.
Ma buono o rio demonio, o quel che sia,
che gli ha renduta la sua libertade,
ringrazia e loda; e da lui sol conosce
che sano ha il cor da l’amorose angosce.
Gli fu nel primier odio ritornata
Angelica; e gli parve troppo indegna
d’esser, non che sì lungi seguitata,
ma che per lei pur mezza lega vegna.
Per Baiardo riaver tutta fiata
verso India in Sericana andar disegna,
sì perché l’onor suo lo stringe a farlo,
sì per averne già parlato a Carlo.
Giunse il giorno seguente a Basilea,
ove la nuova era venuta inante,
che ’l conte Orlando aver pugna dovea
contra Gradasso e contro il re Agramante.
Né questo per aviso si sapea,
ch’avesse dato il cavallier d’Anglante;
ma di Sicilia in fretta venut’era
chi la novella v’apportò per vera.
Rinaldo vuol trovarsi con Orlando
alla battaglia, e se ne vede lunge.
Di dieci in dieci miglia va mutando
cavalli e guide, e corre e sferza e punge.
Passa il Reno a Costanza, e in su volando,
traversa l’Alpe, ed in Italia giunge.
Verona a dietro, a dietro Mantua lassa;
sul Po si trova, e con gran fretta il passa.
Già s’inchinava il sol molto alla sera,
e già apparia nel ciel la prima stella,
quando Rinaldo in ripa alla riviera
stando in pensier s’avea da mutar sella,
o tanto soggiornar, che l’aria nera
fuggisse inanzi all’altra aurora bella,
venir si vede un cavalliero inanti
cortese ne l’aspetto e nei sembianti.
Costui, dopo il saluto, con bel modo
gli domandò s’aggiunto a moglie fosse.
Disse Rinaldo: — Io son nel giugal nodo: —
ma di tal domandar maravigliosse.
Soggiunse quel: — Che sia così, ne godo. —
Poi, per chiarir perché tal detto mosse,
disse: — Io ti priego che tu sia contento
ch’io ti dia questa sera alloggiamento;
che ti farò veder cosa che debbe
ben volentieri veder chi ha moglie a lato. —
Rinaldo, sì perché posar vorrebbe,
ormai di correr tanto affaticato;
sì perché di vedere e d’udire ebbe
sempre aventure un desiderio innato;
accettò l’offerir del cavalliero,
e dietro gli pigliò nuovo sentiero.
Un tratto d’arco fuor di strada usciro,
e inanzi un gran palazzo si trovaro,
onde scudieri in gran frotta veniro
con torchi accesi, e fero intorno chiaro.
Entrò Rinaldo, e voltò gli occhi in giro,
e vide loco il qual si vede raro,
di gran fabrica e bella e bene intesa;
né a privato uom convenia tanta spesa.
Di serpentin, di porfido le dure
pietre fan de la porta il ricco volto.
Quel che chiude è di bronzo, con figure
che sembrano spirar, muovere il volto.
Sotto un arco poi s’entra, ove misture
di bel musaico ingannan l’occhio molto.
Quindi si va in un quadro ch’ogni faccia
de le sue logge ha lunga cento braccia.
La sua porta ha per sé ciascuna loggia,
e tra la porta e sé ciascuna ha un arco:
d’ampiezza pari son, ma varia foggia
fe’ d’ornamenti il mastro lor non parco.
Da ciascuno arco s’entra, ove si poggia
sì facil, ch’un somier vi può gir carco.
Un altro arco di su trova ogni scala;
e s’entra per ogni arco in una sala.
Gli archi di sopra escono fuor del segno
tanto, che fan coperchio alle gran porte;
e ciascun due colonne ha per sostegno,
altre di bronzo, altre di pietra forte.
Lungo sarà, se tutti vi disegno
gli ornati alloggiamenti de la corte;
e oltr’a quel ch’appar, quanti agi sotto
la cava terra il mastro avea ridotto.
L’alte colonne e i capitelli d’oro,
da che i gemmati palchi eran suffulti,
i peregrini marmi che vi foro
da dotta mano in varie forme sculti,
pitture e getti, e tant’altro lavoro
(ben che la notte agli occhi il più ne occulti),
mostran che non bastaro a tanta mole
di duo re insieme le ricchezze sole.
Sopra gli altri ornamenti ricchi e belli,
ch’erano assai ne la gioconda stanza,
v’era una fonte che per più ruscelli
spargea freschissime acque in abondanza.
Poste le mense avean quivi i donzelli;
ch’era nel mezzo per ugual distanza:
vedeva, e parimente veduta era
da quattro porte de la casa altiera.
Fatta da mastro diligente e dotto
la fonte era con molta e suttil opra,
di loggia a guisa, o padiglion ch’in otto
facce distinto, intorno adombri e cuopra.
Un ciel d’oro, che tutto era di sotto
colorito di smalto, le sta sopra;
ed otto statue son di marmo bianco,
che sostengon quel ciel col braccio manco.
Ne la man destra il corno d’Amaltea
sculto aveva lor l’ingenioso mastro,
onde con grato murmure cadea
l’acqua di fuore in vaso d’alabastro;
ed a sembianza di gran donna avea
ridutto con grande arte ogni pilastro.
Son d’abito e di faccia differente,
ma grazia hanno e beltà tutte ugualmente.
Fermava il piè ciascuno di questi segni
sopra due belle imagini più basse,
che con la bocca aperta facean segni
che ’l canto e l’armonia lor dilettasse;
e quell’atto in che son, par che disegni
che l’opra e studio lor tutto lodasse
le belle donne che sugli omeri hanno,
se fosser quei di cu’ in sembianza stanno.
I simulacri inferiori in mano
avean lunghe ed amplissime scritture,
ove facean con molta laude piano
i nomi de le più degne figure;
e mostravano ancor poco lontano
i propri loro in note non oscure.
Mirò Rinaldo a lume di doppieri
le donne ad una ad una e i cavallieri.
La prima iscrizion ch’agli occhi occorre,
con lungo onor Lucrezia Borgia noma,
la cui bellezza ed onestà preporre
debbe all’antiqua la sua patria Roma.
I duo che voluto han sopra sé torre
tanto eccellente ed onorata soma,
noma lo scritto, Antonio Tebaldeo,
Ercole Strozza: un Lino ed uno Orfeo.
Non men gioconda statua né men bella
si vede appresso, e la scrittura dice:
— Ecco la figlia d’Ercole, Issabella,
per cui Ferrara si terrà felice
via più, perché in lei nata sarà quella,
che d’altro ben che prospera e fautrice
e benigna Fortuna dar le deve,
volgendo gli anni nel suo corso lieve. —
I duo che mostran disiosi affetti
che la gloria di lei sempre risuone,
Gian Iacobi ugualmente erano detti,
l’uno Calandra, e l’altro Bardelone.
Nel terzo e quarto loco ove per stretti
rivi l’acqua esce fuor del padiglione,
due donne son, che patria, stirpe, onore
hanno di par, di par beltà e valore.
Elissabetta l’una e Leonora
nominata era l’altra: e fia, per quanto
narrava il marmo sculto, d’esse ancora
sì gloriosa la terra di Manto,
che di Vergilio, che tanto l’onora,
più che di queste, non si darà vanto.
Avea la prima a piè del sacro lembo
Iacobo Sadoletto e Pietro Bembo.
Uno elegante Castiglione, e un culto
Muzio Arelio de l’altra eran sostegni.
Di questi nomi era il bel marmo sculto,
ignoti allora, or sì famosi e degni.
Veggon poi quella a cui dal cielo indulto
tanta virtù sarà, quanta ne regni,
o mai regnata in alcun tempo sia,
versata da Fortuna or buona or ria.
Lo scritto d’oro esser costei dichiara
Lucrezia Bentivoglia; e fra le lode
pone di lei, che ’l duca di Ferrara
d’esserle padre si rallegra e gode.
Di costei canta con soave e chiara
voce un Camil che ’l Reno e Felsina ode
con tanta attenzion, tanto stupore,
con quanta Anfriso udì già il suo pastore;
ed un per cui la terra, ove l’Isauro
le sue dolci acque insala in maggior vase,
nominata sarà da l’Indo al Mauro,
e da l’austrine all’iperboree case,
via più che per pesare il romano auro,
di che perpetuo nome le rimase;
Guido Postumo, a cui doppia corona
Pallade quinci, e quindi Febo dona.
L’altra che segue in ordine, è Diana.
— Non guardar (dice il marmo scritto) ch’ella
sia altiera in vista; che nel core umana
non sarà però men ch’in viso bella. —
Il dotto Celio Calcagnin lontana
farà la gloria e ’l bel nome di quella
nel regno di Monese, in quel di Iuba,
in India e Spagna udir con chiara tuba:
ed un Marco Cavallo, che tal fonte
farà di poesia nascer d’Ancona,
qual fe’ il cavallo alato uscir del monte,
non so se di Parnasso o d’Elicona.
Beatrice appresso a questo alza la fronte,
di cui lo scritto suo così ragiona:
— Beatrice bea, vivendo, il suo consorte,
e lo lascia infelice alla sua morte;
anzi tutta l’Italia, che con lei
fia triunfante, e senza lei, captiva. —
Un signor di Coreggio di costei
con alto stil par che cantando scriva,
e Timoteo, l’onor de’ Bendedei:
ambi faran tra l’una e l’altra riva
fermare al suon de’ lor soavi plettri
il fiume ove sudar gli antiqui elettri.
Tra questo loco e quel de la colonna
che fu sculpita in Borgia, com’è detto,
formata in alabastro una gran donna
era di tanto e sì sublime aspetto,
che sotto puro velo, in nera gonna,
senza oro e gemme, in un vestire schietto,
tra le più adorne non parea men bella,
che sia tra l’altre la ciprigna stella.
Non si potea, ben contemplando fiso,
conoscer se più grazia o più beltade,
o maggior maestà fosse nel viso,
o più indizio d’ingegno o d’onestade.
— Chi vorrà di costei (dicea l’inciso
marmo) parlar, quanto parlar n’accade,
ben torrà impresa più d’ogn’altra degna;
ma non però ch’a fin mai se ne vegna. —
Dolce quantunque e pien di grazia tanto
fosse il suo bello e ben formato segno,
parea sdegnarsi che con umil canto
ardisse lei lodar sì rozzo ingegno,
com’era quel che sol, senz’altri a canto
(non so perché), le fu fatto sostegno.
Di tutto ’l resto erano i nomi sculti;
sol questi due l’artefice avea occulti.
Fanno le statue in mezzo un luogo tondo,
che ’l pavimento asciutto ha di corallo,
di freddo soavissimo giocondo,
che rendea il puro e liquido cristallo,
che di fuor cade in un canal fecondo,
che ’l prato verde, azzurro, bianco e giallo
rigando, scorre per vari ruscelli,
grato alle morbide erbe e agli arbuscelli.
Col cortese oste ragionando stava
il paladino a mensa; e spesso spesso,
senza più differir, gli ricordava
che gli attenesse quanto avea promesso:
e ad or ad or mirandolo, osservava
ch’avea di grande affanno il core oppresso;
che non può star momento che non abbia
un cocente sospiro in su le labbia.
Spesso la voce dal disio cacciata
viene a Rinaldo sin presso alla bocca
per domandarlo; e quivi, raffrenata
di cortese modestia, fuor non scocca.
Ora essendo la cena terminata,
ecco un donzello a chi l’ufficio tocca,
pon su la mensa un bel nappo d’or fino,
di fuor di gemme, e dentro pien di vino.
Il signor de la casa allora alquanto
sorridendo, a Rinaldo levò il viso;
ma chi ben lo notava, più di pianto
parea ch’avesse voglia che di riso.
Disse: — Ora a quel che mi ricordi tanto,
che tempo sia di sodisfar m’è aviso;
mostrarti un paragon ch’esser de’ grato
di vedere a ciascun c’ha moglie allato.
Ciascun marito, a mio giudizio, deve
sempre spiar se la sua donna l’ama;
saper s’onore o biasmo ne riceve,
se per lei bestia, o se pur uom si chiama.
L’incarco de le corna è lo più lieve
ch’al mondo sia, se ben l’uom tanto infama:
lo vede quasi tutta l’altra gente;
e chi l’ha in capo, mai non se lo sente.
Se tu sai che fedel la moglie sia,
hai di più amarla e d’onorar ragione,
che non ha quel che la conosce ria,
o quel che ne sta in dubbio e in passione.
Di molte n’hanno a torto gelosia
i lor mariti, che son caste e buone:
molti di molte anco sicuri stanno,
che con le corna in capo se ne vanno.
Se vuoi saper se la tua sia pudica
(come io credo che credi, e creder déi;
ch’altrimente far credere è fatica,
se chiaro già per prova non ne sei),
tu per te stesso, senza ch’altri il dica,
te n’avvedrai, s’in questo vaso bei;
che per altra cagion non è qui messo,
che per mostrarti quanto io t’ho promesso.
Se béi con questo, vedrai grande effetto;
che se porti il cimier di Cornovaglia,
il vin ti spargerai tutto sul petto,
né gocciola sarà ch’in bocca saglia:
ma s’hai moglie fedel, tu berai netto.
Or di veder tua sorte ti travaglia. —
Così dicendo, per mirar tien gli occhi,
ch’in seno il vin Rinaldo si trabbocchi.
Quasi Rinaldo di cercar suaso
quel che poi ritrovar non vorria forse,
messa la mano inanzi, e preso il vaso,
fu presso di volere in prova porse:
poi, quanto fosse periglioso il caso
a porvi i labri, col pensier discorse.
Ma lasciate, Signor, ch’io mi ripose;
poi dirò quel che ’l paladin rispose.