L’odor ch’è sparso in ben notrita e bella
o chioma o barba o delicata vesta
di giovene leggiadro o di donzella,
ch’Amor sovente lacrimando desta,
se spira e fa sentir di sé novella,
e dopo molti giorni ancora resta;
mostra con chiaro ed evidente effetto,
come a principio buono era e perfetto.
L’almo liquor che ai meditori suoi
fece Icaro gustar con suo gran danno,
e che si dice che già Celte e Boi
fe’ passar l’Alpe e non sentir l’affanno;
mostra che dolce era a principio, poi
che si serva ancor dolce al fin de l’anno.
L’arbor ch’al tempo rio foglia non perde,
mostra ch’a primavera era ancor verde.
L’inclita stirpe che per tanti lustri
mostrò di cortesia sempre gran lume,
e par ch’ognor più ne risplenda e lustri,
fa che con chiaro indizio si presume,
che chi progenerò gli Estensi illustri,
dovea d’ogni laudabile costume
che sublimar al ciel gli uomini suole,
splender non men che fra le stelle il sole.
Ruggier, come in ciascun suo degno gesto,
d’alto valor, di cortesia solea
dimostrar chiaro segno e manifesto,
e sempre più magnanimo apparea;
così verso Dudon lo mostrò in questo,
col qual (come di sopra io vi dicea)
dissimulato avea quanto era forte,
per pietà che gli avea di porlo a morte.
Avea Dudon ben conosciuto certo,
ch’ucciderlo Ruggier non l’ha voluto;
perch’or s’ha ritrovato allo scoperto,
or stanco sì, che più non ha potuto.
Poi che chiaro comprende, e vede aperto
che gli ha rispetto, e che va ritenuto;
quando di forza e di vigor val meno,
di cortesia non vuol cedergli almeno.
— Per Dio (dice), signor, pace facciamo;
ch’esser non può più la vittoria mia:
esser non può più mia; che già mi chiamo
vinto e prigion de la tua cortesia. —
Ruggier rispose: — Ed io la pace bramo
non men di te; ma che con patto sia,
che questi sette re c’hai qui legati,
lasci ch’in libertà mi sieno dati. —
E gli mostrò quei sette re ch’io dissi
che stavano legati a capo chino;
e gli soggiunse che non gli impedissi
pigliar con essi in Africa il camino.
E così furo in libertà remissi
quei re; che gliel concesse il paladino;
e gli concesse ancor ch’un legno tolse,
quel ch’a lui parve, e verso Africa sciolse.
Il legno sciolse, e fe’ scioglier la vela,
e se diè al vento perfido in possanza,
che da principio la gonfiata tela
drizzò a camino, e diè al nocchier baldanza.
Il lito fugge, e in tal modo si cela,
che par che ne sia il mar rimaso sanza.
Ne l’oscurar del giorno fece il vento
chiara la sua perfidia e ’l tradimento.
Mutossi da la poppa ne le sponde,
indi alla prora, e qui non rimase anco:
ruota la nave, ed i nocchier confonde;
ch’or di dietro or dinanzi or loro è al fianco.
Surgono altiere e minacciose l’onde:
mugliando sopra il mar va il gregge bianco.
Di tante morti in dubbio e in pena stanno,
quanto son l’acque ch’a ferir li vanno.
Or da fronte or da tergo il vento spira;
e questo inanzi, e quello a dietro caccia:
un altro da traverso il legno aggira;
e ciascun pur naufragio gli minaccia.
Quel che siede al governo, alto sospira
pallido e sbigottito ne la faccia;
e grida invano, e invan con mano accenna
or di voltare, or di calar l’antenna.
Ma poco il cenno, e ’l gridar poco vale:
tolto è ’l veder da la piovosa notte.
La voce, senza udirsi, in aria sale,
in aria che ferìa con maggior botte
de’ naviganti il grido universale,
e ’l fremito de l’onde insieme rotte:
e in prora e in poppa e in amendue le bande
non si può cosa udir, che si commande.
Da la rabbia del vento che si fende
ne le ritorte, escono orribil suoni:
di spessi lampi l’aria si raccende,
risuona ’l ciel di spaventosi tuoni.
V’è chi corre al timon, chi i remi prende;
van per uso agli uffici a che son buoni:
chi s’affatica a sciorre e chi a legare;
vota altri l’acqua, e torna il mar nel mare.
Ecco stridendo l’orribil procella
che ’l repentin furor di borea spinge,
la vela contra l’arbore flagella:
il mar si leva, e quasi il cielo attinge.
Frangonsi i remi; e di fortuna fella
tanto la rabbia impetuosa stringe,
che la prora si volta, e verso l’onda
fa rimaner la disarmata sponda.
Tutta sotto acqua va la destra banda,
e sta per riversar di sopra il fondo.
Ognun, gridando, a Dio si raccomanda;
che più che certi son gire al profondo.
D’uno in un altro mal fortuna manda:
il primo scorre, e vien dietro il secondo.
Il legno vinto in più parti si lassa,
e dentro l’inimica onda vi passa.
Muove crudele e spaventoso assalto
da tutti i lati il tempestoso verno.
Veggon talvolta il mar venir tant’alto,
che par ch’arrivi insin al ciel superno.
Talor fan sopra l’onde in su tal salto,
ch’a mirar giù par lor veder lo ’nferno.
O nulla o poca speme è che conforte;
e sta presente inevitabil morte.
Tutta la notte per diverso mare
scorsero errando ove cacciolli il vento;
il fiero vento che dovea cessare
nascendo il giorno, e ripigliò augumento.
Ecco dinanzi un nudo scoglio appare:
voglion schivarlo, e non v’hanno argumento.
Li porta, lor mal grado, a quella via
il crudo vento e la tempesta ria.
Tre volte e quattro il pallido nocchiero
mette vigor perché ’l timon sia volto
e trovi più sicuro altro sentiero;
ma quel si rompe, e poi dal mar gli è tolto.
Ha sì la vela piena il vento fiero,
che non si può calar poco né molto:
né tempo han di riparo o di consiglio;
che troppo appresso è quel mortal periglio.
Poi che senza rimedio si comprende
la irreparabil rotta de la nave,
ciascuno al suo privato utile attende,
ciascun salvar la vita sua cura have.
Chi può più presto al palischermo scende;
ma quello è fatto subito sì grave
per tanta gente che sopra v’abbonda,
che poco avanza a gir sotto la sponda.
Ruggier che vide il comite e ’l padrone
e gli altri abbandonar con fretta il legno,
come senz’arme si trovò in giubbone,
campar su quel battel fece disegno:
ma lo trovò sì carco di persone,
e tante venner poi, che l’acque il segno
passaro in guisa, che per troppo pondo
con tutto il carco andò il legnetto al fondo:
del mare al fondo: e seco trasse quanti
lasciaro a sua speranza il maggior legno.
Allor s’udì con dolorosi pianti
chiamar soccorso dal celeste regno:
ma quelle voci andaro poco inanti,
che venne il mar pien d’ira e di disdegno,
e subito occupò tutta la via
onde il lamento e il flebil grido uscia.
Altri là giù, senza apparir più, resta;
altri risorge e sopra l’onde sbalza;
chi vien nuotando e mostra fuor la testa,
chi mostra un braccio, e chi una gamba scalza.
Ruggier che ’l minacciar de la tempesta
temer non vuol, dal fondo al sommo s’alza,
e vede il nudo scoglio non lontano,
ch’egli e i compagni avean fuggito invano.
Spera, per forza di piedi e di braccia
nuotando, di salir sul lito asciutto.
Soffiando viene, e lungi da la faccia
l’onda respinge e l’importuno flutto.
Il vento intanto e la tempesta caccia
il legno voto, e abbandonato in tutto
da quelli che per lor pessima sorte
il disio di campar trasse alla morte.
Oh fallace degli uomini credenza!
campò la nave che dovea perire;
quando il padrone e i galleotti senza
governo alcun l’avean lasciata gire.
Parve che si mutasse di sentenza
il vento, poi che ogni uom vide fuggire:
fece che ’l legno a miglior via si torse,
né toccò terra, e in sicura onda corse.
E dove col nocchier tenne via incerta,
poi che non l’ebbe, andò in Africa al dritto,
e venne a capitar presso a Biserta
tre miglia o due, dal lato verso Egitto;
e ne l’arena sterile e deserta
restò, mancando il vento e l’acqua, fitto.
Or quivi sopravenne, a spasso andando,
come di sopra io vi narrava, Orlando.
E disioso di saper se fusse
la nave sola, e fusse o vota o carca,
con Brandimarte a quella si condusse
e col cognato, in su una lieve barca.
Poi che sotto coverta s’introdusse,
tutta la ritrovò d’uomini scarca:
vi trovò sol Frontino il buon destriero,
l’armatura e la spada di Ruggiero;
di cui fu per campar tanto la fretta,
ch’a tor la spada non ebbe pur tempo.
Conobbe quella il paladin, che detta
fu Balisarda, e che già sua fu un tempo.
So che tutta l’istoria avete letta,
come la tolse a Falerina, al tempo
che le distrusse anco il giardin sì bello,
e come a lui poi la rubò Brunello;
e come sotto il monte di Carena
Brunel ne fe’ a Ruggier libero dono.
Di che taglio ella fosse e di che schena,
n’avea già fatto esperimento buono;
io dico Orlando: e però n’ebbe piena
letizia, e ringrazionne il sommo Trono;
e si credette (e spesso il disse dopo),
che Dio gliele mandasse a sì grande uopo:
a sì grande uopo, come era, dovendo
condursi col signor di Sericana;
ch’oltre che di valor fosse tremendo,
sapea ch’avea Baiardo e Durindana.
L’altra armatura, non la conoscendo,
non apprezzò per cosa sì soprana,
come chi ne fe’ prova apprezzò quella,
per buona sì, ma per più ricca e bella.
E perché gli facean poco mestiero
l’arme (ch’era inviolabile e affatato),
contento fu che l’avesse Oliviero;
il brando no, che sel pose egli a lato:
a Brandimarte consegnò il destriero.
Così diviso ed ugualmente dato
volse che fosse a ciaschedun compagno
ch’insieme si trovar, di quel guadagno.
Pel dì de la battaglia ogni guerriero
studia aver ricco e nuovo abito indosso.
Orlando riccamar fa nel quartiero
l’alto Babel dal fulmine percosso.
Un can d’argento aver vuole Oliviero,
che giaccia, e che la lassa abbia sul dosso,
con un motto che dica: Fin che vegna:
e vuol d’oro la vesta e di sé degna.
Fece disegno Brandimarte, il giorno
de la battaglia, per amor del padre,
e per suo onor, di non andare adorno
se non di sopraveste oscure ed adre.
Fiordiligi le fe’ con fregio intorno,
quanto più seppe far, belle e leggiadre.
Di ricche gemme il fregio era contesto;
d’un schietto drappo e tutto nero il resto.
Fece la donna di sua man le sopra—
vesti a cui l’arme converrian più fine,
de’ quai l’osbergo il cavallier si cuopra,
e la groppa al cavallo e ’l petto e ’l crine.
Ma da quel dì che cominciò quest’opra,
continuando a quel che le diè fine,
e dopo ancora, mai segno di riso
far non poté, né d’allegrezza in viso.
Sempre ha timor nel cor, sempre tormento
che Brandimarte suo non le sia tolto.
Già l’ha veduto in cento lochi e cento
in gran battaglie e perigliose avvolto;
né mai, come ora, simile spavento
le agghiacciò il sangue e impallidille il volto:
e questa novità d’aver timore
le fa tremar di doppia tema il core.
Poi che son d’arme e d’ogni arnese in punto,
alzano al vento i cavallier le vele.
Astolfo e Sansonetto con l’assunto
riman del grande esercito fedele.
Fiordiligi col cor di timor punto,
empiendo il ciel di voti e di querele,
quanto con vista seguitar le puote,
segue le vele in alto mar remote.
Astolfo a gran fatica e Sansonetto
poté levarla dal mirar ne l’onda
e ritrarla al palagio, ove sul letto
la lasciaro affannata e tremebonda.
Portava intanto il bel numero eletto
dei tre buon cavallier l’aura seconda.
Andò il legno a trovar l’isola al dritto,
ove far si dovea tanto conflitto.
Sceso nel lito il cavallier d’Anglante,
il cognato Oliviero e Brandimarte,
col padiglione il lato di levante
primi occupar; né forse il fer senz’arte.
Giunse quel dì medesimo Agramante,
e s’accampò da la contraria parte;
ma perché molto era inchinata l’ora,
differir la battaglia ne l’aurora.
Di qua e di là sin alla nuova luce
stanno alla guardia i servitori armati.
La sera Brandimarte si conduce
là dove i Saracin sono alloggiati,
e parla, con licenza del suo duce,
al re african; ch’amici erano stati:
e Brandimarte già con la bandiera
del re Agramante in Francia passato era.
Dopo i saluti e ’l giunger mano a mano,
molte ragion, sì come amico, disse
il fedel cavalliero al re pagano,
perché a questa battaglia non venisse:
e di riporgli ogni cittade in mano,
che sia tra ’l Nilo e ’l segno ch’Ercol fisse,
con volontà d’Orlando gli offeria,
se creder volea al Figlio di Maria.
— Perché sempre v’ho amato ed amo molto,
questo consiglio (gli dicea) vi dono;
e quando già, signor, per me l’ho tolto,
creder potete ch’io l’estimo buono.
Cristo conobbi Dio, Maumette stolto;
e bramo voi por ne la via in ch’io sono:
ne la via di salute, signor, bramo
che siate meco, e tutti gli altri ch’amo.
Qui consiste il ben vostro; né consiglio
altro potete prender, che vi vaglia;
e men di tutti gli altri, se col figlio
di Milon vi mettete alla battaglia;
che ’l guadagno del vincere al periglio
de la perdita grande non si agguaglia.
Vincendo voi, poco acquistar potete;
ma non perder già poco, se perdete.
Quando uccidiate Orlando, e noi venuti
qui per morire o vincere con lui,
io non veggo per questo che i perduti
domini a racquistar s’abbian per vui.
Né dovete sperar che sì si muti
lo stato de le cose, morti nui,
ch’uomini a Carlo manchino da porre
quivi a guardar fin all’estrema torre. —
Così parlava Brandimarte, ed era
per suggiungere ancor molte altre cose;
ma fu con voce irata e faccia altiera
dal pagano interrotto, che rispose:
— Temerità per certo e pazzia vera
è la tua, e di qualunque che si pose
a consigliar mai cosa o buona o ria,
ove chiamato a consigliar non sia.
E che ’l consiglio che mi dai, proceda
da ben che m’hai voluto e vuommi ancora,
io non so, a dire il ver, come io tel creda,
quando qui con Orlando ti veggo ora.
Crederò ben, tu che ti vedi in preda
di quel dragon che l’anime devora,
che brami teco nel dolore eterno
tutto ’l mondo poter trarre all’inferno.
Ch’io vinca o perda, o debba nel mio regno
tornare antiquo, o sempre starne in bando,
in mente sua n’ha Dio fatto disegno,
il qual né io, né tu, né vede Orlando.
Sia quel che vuol, non potrà ad atto indegno
di re inchinarmi mai timor nefando.
S’io fossi certo di morir, vo’ morto
prima restar, ch’al sangue mio far torto.
Or ti puoi ritornar; che se migliore
non sei dimani in questo campo armato,
che tu mi sia paruto oggi oratore,
mal troverassi Orlando accompagnato. —
Queste ultime parole usciron fuore
del petto acceso d’Agramante irato.
Ritornò l’uno e l’altro, e ripososse,
fin che del mare il giorno uscito fosse.
Nel biancheggiar de la nuova alba armati,
e in un momento fur tutti a cavallo.
Pochi sermon si son tra loro usati:
non vi fu indugio, non vi fu intervallo,
che i ferri de le lance hanno abbassati.
Ma mi parria, Signor, far troppo fallo,
se, per voler di costor dir, lasciassi
tanto Ruggier nel mar, che v’affogassi.
Il giovinetto con piedi e con braccia
percotendo venìa l’orribil onde.
Il vento e la tempesta gli minaccia;
ma più la coscienza lo confonde.
Teme che Cristo ora vendetta faccia;
che, poi che battezzar ne l’acque monde,
quando ebbe tempo, sì poco gli calse,
or si battezzi in queste amare e salse.
Gli ritornano a mente le promesse
che tante volte alla sua donna fece;
quel che giurato avea quando si messe
contra Rinaldo, e nulla satisfece.
A Dio, ch’ivi punir non lo volesse,
pentito disse quattro volte e diece;
e fece voto di core e di fede
d’esser cristian, se ponea in terra il piede:
e mai più non pigliar spada né lancia
contra ai fedeli in aiuto de’ Mori;
ma che ritorneria subito in Francia,
e a Carlo renderia debiti onori;
né Bradamante più terrebbe a ciancia,
e verria a fine onesto dei suo’ amori.
Miracol fu, che sentì al fin del voto
crescersi forza e agevolarsi il nuoto.
Cresce la forza e l’animo indefesso:
Ruggier percuote l’onde e le respinge,
l’onde che seguon l’una all’altra presso,
di che una il leva, un’altra lo sospinge.
Così montando e discendendo spesso
con gran travaglio, al fin l’arena attinge;
e da la parte onde s’inchina il colle
più verso il mar, esce bagnato e molle.
Fur tutti gli altri che nel mar si diero,
vinti da l’onde, e al fin restar ne l’acque.
Nel solitario scoglio uscì Ruggiero,
come all’alta Bontà divina piacque.
Poi che fu sopra il monte inculto e fiero
sicur dal mar, nuovo timor gli nacque
d’avere esilio in sì strette confine,
e di morirvi di disagio al fine.
Ma pur col core indomito, e costante
di patir quanto è in ciel di lui prescritto,
pei duri sassi l’intrepide piante
mosse, poggiando invêr la cima al dritto.
Non era cento passi andato inante,
che vide d’anni e d’astinenze afflitto
uom ch’avea d’eremita abito e segno,
di molta riverenza e d’onor degno;
che, come gli fu presso: — Saulo, Saulo,
(gridò), perché persegui la mia fede?
(come allor il Signor disse a san Paulo,
che ’l colpo salutifero gli diede).
Passar credesti il mar, né pagar naulo,
e defraudare altrui de la mercede.
Vedi che Dio, c’ha lunga man, ti giunge
quando tu gli pensasti esser più lunge. —
E seguitò il santissimo eremita,
il qual la notte inanzi avuto avea
in vision da Dio, che con sua aita
allo scoglio Ruggier giunger dovea:
e di lui tutta la passata vita,
e la futura, e ancor la morte rea,
figli e nipoti ed ogni discendente
gli avea Dio rivelato interamente.
Seguitò l’eremita riprendendo
prima Ruggiero; e al fin poi confortollo.
Lo riprendea ch’era ito differendo
sotto il soave giogo a porre il collo;
e quel che dovea far, libero essendo,
mentre Cristo pregando a sé chiamollo,
fatto avea poi con poca grazia, quando
venir con sferza il vide minacciando.
Poi confortollo che non niega il cielo
tardi o per tempo Cristo a chi gliel chiede;
e di quelli operarii del Vangelo
narrò, che tutti ebbono ugual mercede.
Con caritade e con devoto zelo
lo venne ammaestrando ne la fede,
verso la cella sua con lento passo,
ch’era cavata a mezzo il duro sasso.
Di sopra siede alla devota cella
una piccola chiesa che risponde
all’oriente, assai commoda e bella:
di sotto un bosco scende sin all’onde,
di lauri e di ginepri e di mortella,
e di palme fruttifere e feconde;
che riga sempre una liquida fonte,
che mormorando cade giù dal monte.
Eran degli anni ormai presso a quaranta
che su lo scoglio il fraticel si messe;
ch’a menar vita solitaria e santa
luogo oportuno il Salvator gli elesse.
Di frutte colte or d’una or d’altra pianta,
e d’acqua pura la sua vita resse,
che valida e robusta e senza affanno
era venuta all’ottantesimo anno.
Dentro la cella il vecchio accese il fuoco,
e la mensa ingombrò di vari frutti,
ove si ricreò Ruggiero un poco,
poscia ch’i panni e i capelli ebbe asciutti.
Imparò poi più ad agio in questo loco
de nostra fede i gran misteri tutti;
ed alla pura fonte ebbe battesmo
il dì seguente dal vecchio medesmo.
Secondo il luogo, assai contento stava
quivi Ruggier; che ’l buon servo di Dio
fra pochi giorni intenzion gli dava
di rimandarlo ove più avea disio.
Di molte cose intanto ragionava
con lui sovente, or al regno di Dio,
or agli propri casi appertinenti,
or del suo sangue alle future genti.
Avea il Signor, che ’l tutto intende e vede,
rivelato al santissimo eremita,
che Ruggier da quel dì ch’ebbe la fede,
dovea sette anni, e non più, stare in vita;
che per la morte che sua donna diede
a Pinabel, ch’a lui fia attribuita,
saria, e per quella ancor di Bertolagi,
morto dai Maganzesi empi e malvagi.
E che quel tradimento andrà sì occulto,
che non se n’udirà di fuor novella;
perché nel proprio loco fia sepulto
ove anco ucciso da la gente fella:
per questo tardi vendicato ed ulto
fia da la moglie e da la sua sorella.
E che col ventre pien per lunga via
da la moglie fedel cercato fia.
Fra l’Adice e la Brenta a piè de’ colli
ch’al troiano Antenòr piacqueno tanto,
con le sulfuree vene e rivi molli,
con lieti solchi e prati ameni a canto,
che con l’alta Ida volentier mutolli,
col sospirato Ascanio e caro Xanto,
a parturir verrà ne le foreste
che son poco lontane al frigio Ateste.
E ch’in bellezza ed in valor cresciuto
il parto suo, che pur Ruggier fia detto,
e del sangue troian riconosciuto
da quei Troiani, in lor signor fia elletto;
e poi da Carlo, a cui sarà in aiuto
incontra i Longobardi giovinetto,
dominio giusto avrà del bel paese,
e titolo onorato di marchese.
E perché dirà Carlo in latino: — Este
signori qui, — quando faragli il dono,
nel secolo futur nominato Este
sarà il bel luogo con augurio buono;
e così lascierà il nome d’Ateste
de le due prime note il vecchio suono.
Avea Dio ancora al servo suo predetta
di Ruggier la futura aspra vendetta:
ch’in visione alla fedel consorte
apparirà dinanzi al giorno un poco;
e le dirà chi l’avrà messo a morte,
e, dove giacerà, mostrerà il loco:
onde ella poi con la cognata forte
distruggerà Pontieri a ferro e a fuoco;
né farà a’ Maganzesi minor danni
il figlio suo Ruggiero, ov’abbia gli anni.
D’Azzi, d’Alberti, d’Obici discorso
fatto gli aveva, e di lor stirpe bella,
insino a Nicolò, Leonello, Borso,
Ercole, Alfonso, Ippolito e Issabella.
Ma il santo vecchio, ch’alla lingua ha il morso,
non di quanto egli sa però favella:
narra a Ruggier quel che narrar conviensi;
e quel ch’in sé de’ ritener, ritiensi.
In questo tempo Orlando e Brandimarte
e ’l marchese Olivier col ferro basso
vanno a trovare il saracino Marte
(che così nominar si può Gradasso)
e gli altri duo che da contraria parte
han mosso i buon destrier più che di passo;
io dico il re Agramante e ’l re Sobrino:
rimbomba al corso il lito e ’l mar vicino.
Quando allo scontro vengono a trovarsi,
e in tronchi vola al ciel rotta ogni lancia,
del gran rumor fu visto il mar gonfiarsi,
del gran rumor che s’udì sino in Francia.
Venne Orlando e Gradasso a riscontrarsi;
e potea stare ugual questa bilancia,
se non era il vantaggio di Baiardo,
che fe’ parer Gradasso più gagliardo.
Percosse egli il destrier di minor forza,
ch’Orlando avea, d’un urto così strano,
che lo fece piegare a poggia e ad orza,
e poi cader, quanto era lungo, al piano.
Orlando di levarlo si risforza
tre volte e quattro, e con sproni e con mano;
e quando al fin nol può levar, ne scende,
lo scudo imbraccia, e Balisarda prende.
Scontrossi col re d’Africa Oliviero;
e fur di quello incontro a paro a paro.
Brandimarte restar senza destriero
fece Sobrin: ma non si seppe chiaro
se v’ebbe il destrier colpa o il cavalliero;
ch’avezzo era cader Sobrin di raro.
O del destriero o suo pur fosse il fallo,
Sobrin si ritrovò giù del cavallo.
Or Brandimarte che vide per terra
il re Sobrin, non l’assalì altrimente,
ma contra il re Gradasso si disserra,
ch’avea abbattuto Orlando parimente.
Tra il marchese e Agramante andò la guerra
come fu cominciata primamente:
poi che si roppon l’aste negli scudi,
s’eran tornati incontra a stocchi ignudi.
Orlando, che Gradasso in atto vede,
che par ch’a lui tornar poco gli caglia;
né tornar Brandimarte gli concede,
tanto lo stringe e tanto lo travaglia;
si volge intorno, e similmente a piede
vede Sobrin che sta senza battaglia.
Vêr lui s’aventa; e al muover de le piante
fa il ciel tremar del suo fiero sembiante.
Sobrin che di tanto uom vede l’assalto,
stretto ne l’arme s’apparecchia tutto:
come nocchiero a cui vegna a gran salto
muggendo incontra il minaccioso flutto,
drizza la prora; e quando il mar tant’alto
vede salire, esser vorria all’asciutto.
Sobrin lo scudo oppone alla ruina
che da la spada vien di Falerina.
Di tal finezza è quella Balisarda,
che l’arme le puon far poco riparo;
in man poi di persona sì gagliarda,
in man d’Orlando, unico al mondo o raro,
taglia lo scudo; e nulla la ritarda,
perché cerchiato sia tutto d’acciaro:
taglia lo scudo e sino al fondo fende,
e sotto a quello in su la spalla scende.
Scende alla spalla; e perché la ritrovi
di doppia lama e di maglia coperta,
non vuol però che molto ella le giovi,
che di gran piaga non la lasci aperta.
Mena Sobrin; ma indarno è che si provi
ferire Orlando, a cui per grazia certa
diede il Motor del cielo e de le stelle,
che mai forar non se gli può la pelle.
Radoppia il colpo il valoroso conte,
e pensa da le spalle il capo torgli.
Sobrin che sa il valor di Chiaramonte,
e che poco gli val lo scudo opporgli,
s’arretra, ma non tanto, che la fronte
non venisse anco Balisarda a corgli.
Di piatto fu, ma il colpo tanto fello,
ch’amaccò l’elmo, e gl’intronò il cervello.
Cadde Sobrin del fiero colpo in terra,
onde a gran pezzo poi non è risorto.
Crede finita aver con lui la guerra
il paladino, e che si giaccia morto;
e verso il re Gradasso si disserra,
che Brandimarte non meni a mal porto:
che ’l pagan d’arme e di spada l’avanza
e di destriero, e forse di possanza.
L’ardito Brandimarte in su Frontino,
quel buon destrier che di Ruggier fu dianzi,
si porta così ben col Saracino,
che non par già che quel troppo l’avanzi:
e s’egli avesse osbergo così fino
come il pagan, gli staria meglio inanzi;
ma gli convien (che mal si sente armato)
spesso dar luogo or d’uno or d’altro lato.
Altro destrier non è che meglio intenda
di quel Frontino il cavalliero a cenno:
par che dovunque Durindana scenda,
or quinci or quindi abbia a schivarla senno.
Agramante e Olivier battaglia orrenda
altrove fanno, e giudicar si denno
per duo guerrier di pari in arme accorti,
e pochi differenti in esser forti.
Avea lasciato, come io dissi, Orlando
Sobrino in terra; e contra il re Gradasso,
soccorrer Brandimarte disiando,
come si trovò a piè, venìa a gran passo.
Era vicin per assalirlo, quando
vide in mezzo del campo andare a spasso
il buon cavallo onde Sobrin fu spinto;
e per averlo, presto si fu accinto.
Ebbe il destrier, che non trovò contesa,
e levò un salto, ed entrò ne la sella.
Ne l’una man la spada tien sospesa,
mette l’altra alla briglia ricca e bella.
Gradasso vede Orlando, e non gli pesa,
ch’a lui ne viene, e per nome l’appella.
Ad esso e a Brandimarte e all’altro spera
far parer notte, e che non sia ancor sera.
Voltasi al conte, e Brandimarte lassa,
e d’una punta lo trova al camaglio:
fuor che la carne, ogni altra cosa passa:
per forar quella è vano ogni travaglio.
Orlando a un tempo Balisarda abbassa:
non vale incanto ov’ella mette il taglio.
L’elmo, lo scudo, l’osbergo e l’arnese,
venne fendendo in giù ciò ch’ella prese;
e nel volto e nel petto e ne la coscia
lasciò ferito il re di Sericana,
di cui non fu mai tratto sangue, poscia
ch’ebbe quell’arme: or gli par cosa strana
che quella spada (e n’ha dispetto e angoscia)
le tagli or sì; né pur è Durindana.
E se più lungo il colpo era o più appresso,
l’avria dal capo insino al ventre fesso.
Non bisogna più aver ne l’arme fede,
come avea dianzi; che la prova è fatta.
Con più riguardo e più ragion procede,
che non solea; meglio al parar si adatta.
Brandimarte ch’Orlando entrato vede,
che gli ha di man quella battaglia tratta,
si pone in mezzo all’una e all’altra pugna,
perché in aiuto, ove è bisogno, giugna.
Essendo la battaglia in tale istato,
Sobrin, ch’era giaciuto in terra molto,
si levò, poi ch’in sé fu ritornato;
e molto gli dolea la spalla e ’l volto:
alzò la vista e mirò in ogni lato;
poi dove vide il suo signor, rivolto,
per dargli aiuto i lunghi passi torse
tacito sì, ch’alcun non se n’accorse.
Vien dietro ad Olivier che tenea gli occhi
al re Agramante e poco altro attendea;
e gli ferì nei deretan ginocchi
il destrier di percossa in modo rea,
che senza indugio è forza che trabocchi.
Cade Olivier, né ’l piede aver potea,
il manco piè, ch’al non pensato caso
sotto il cavallo in staffa era rimaso.
Sobrin radoppia il colpo, e di riverso
gli mena, e se gli crede il capo torre;
ma lo vieta l’acciar lucido e terso,
che temprò già Vulcan, portò già Ettorre.
Vede il periglio Brandimarte, e verso
il re Sobrino a tutta briglia corre;
e lo fere in sul capo, e gli dà d’urto;
ma il fiero vecchio è tosto in piè risurto;
e torna ad Olivier per dargli spaccio,
sì ch’espedito all’altra vita vada;
o non lasciare almen ch’esca d’impaccio,
ma che si stia sotto ’l cavallo a bada.
Olivier c’ha di sopra il miglior braccio,
sì che si può difender con la spada,
di qua di là tanto percuote e punge,
che, quanta è lunga, fa Sobrin star lunge.
Spera, s’alquanto il tien da sé rispinto,
in poco spazio uscir di quella pena.
Tutto di sangue il vede molle e tinto,
e che ne versa tanto in su l’arena,
che gli par ch’abbia tosto a restar vinto:
debole è sì, che si sostiene a pena.
Fa per levarsi Olivier molte prove,
né da dosso il destrier però si muove.
Trovato ha Brandimarte il re Agramante,
e cominciato a tempestargli intorno:
or con Frontin gli è al fianco, or gli è davante,
con quel Frontin che gira come un torno.
Buon cavallo ha il figliuol di Monodante:
non l’ha peggiore il re di Mezzogiorno;
ha Brigliador che gli donò Ruggiero
poi che lo tolse a Mandricardo altiero.
Vantaggio ha bene assai de l’armatura;
a tutta prova l’ha buona e perfetta.
Brandimarte la sua tolse a ventura,
qual poté avere a tal bisogno in fretta:
ma sua animosità sì l’assicura,
ch’in miglior tosto di cangiarla aspetta;
come che ’l re african d’aspra percossa
la spalla destra gli avea fatta rossa;
e serbi da Gradasso anco nel fianco
piaga da non pigliar però da giuoco.
Tanto l’attese al varco il guerrier franco,
che di cacciar la spada trovò loco.
Spezzò lo scudo, e ferì il braccio manco,
e poi ne la man destra il toccò un poco.
Ma questo un scherzo si può dire e un spasso
verso quel che fa Orlando e ’l re Gradasso.
Gradasso ha mezzo Orlando disarmato;
l’elmo gli ha in cima e da dui lati rotto,
e fattogli cader lo scudo al prato,
osbergo e maglia apertagli di sotto:
non l’ha ferito già, ch’era affatato.
Ma il paladino ha lui peggio condotto:
in faccia, ne la gola, in mezzo il petto
l’ha ferito, oltre a quel che già v’ho detto.
Gradasso disperato, che si vede
del proprio sangue tutto molle e brutto,
e ch’Orlando del suo dal capo al piede
sta dopo tanti colpi ancora asciutto;
leva il brando a due mani, e ben si crede
partirgli il capo, il petto, il ventre e ’l tutto:
e a punto, come vuol, sopra la fronte
percuote a mezza spada il fiero conte.
E s’era altro ch’Orlando, l’avria fatto,
l’avria sparato fin sopra la sella:
ma, come colto l’avesse di piatto,
la spada ritornò lucida e bella.
De la percossa Orlando stupefatto,
vide, mirando in terra, alcuna stella:
lasciò la briglia, e ’l brando avria lasciato;
ma di catena al braccio era legato.
Del suon del colpo fu tanto smarrito
il corridor ch’Orlando avea sul dorso,
che discorrendo il polveroso lito,
mostrando gìa quanto era buono al corso.
De la percossa il conte tramortito,
non ha valor di ritenergli il morso.
Segue Gradasso, e l’avria tosto giunto,
poco più che Baiardo avesse punto.
Ma nel voltar degli occhi, il re Agramante
vide condotto all’ultimo periglio:
che ne l’elmo il figliuol di Monodante
col braccio manco gli ha dato di piglio;
e glie l’ha dislacciato già davante,
e tenta col pugnal nuovo consiglio:
né gli può far quel re difesa molta,
perché di man gli ha ancor la spada tolta.
Volta Gradasso, e più non segue Orlando,
ma, dove vede il re Agramante, accorre.
L’incauto Brandimarte, non pensando
ch’Orlando costui lasci da sé torre,
non gli ha né gli occhi né ’l pensiero, instando
il coltel ne la gola al pagan porre.
Giunge Gradasso, e a tutto suo potere
con la spada a due man l’elmo gli fere.
Padre del ciel, dà fra gli eletti tuoi
spiriti luogo al martir tuo fedele,
che giunto al fin de’ tempestosi suoi
viaggi, in porto ormai lega le vele.
Ah Durindana, dunque esser tu puoi
al tuo signore Orlando sì crudele,
che la più grata compagnia e più fida
ch’egli abbia al mondo, inanzi tu gli uccida?
Di ferro un cerchio grosso era duo dita
intorno all’elmo, e fu tagliato e rotto
dal gravissimo colpo, e fu partita
la cuffia de l’acciar ch’era di sotto.
Brandimarte con faccia sbigottita
giù del destrier si riversciò di botto;
e fuor del capo fe’ con larga vena
correr di sangue un fiume in su l’arena.
Il conte si risente, e gli occhi gira,
ed ha il suo Brandimarte in terra scorto;
e sopra in atto il Serican gli mira,
che ben conoscer può che glie l’ha morto.
Non so se in lui poté più il duolo o l’ira;
ma da piangere il tempo avea sì corto,
che restò il duolo, e l’ira uscì più in fretta.
Ma tempo è ormai che fine al canto io metta.