Che dolce più, che più giocondo stato
saria di quel d’un amoroso core?
che viver più felice e più beato,
che ritrovarsi in servitù d’Amore?
se non fosse l’uom sempre stimulato
da quel sospetto rio, da quel timore,
da quel martìr, da quella frenesia,
da quella rabbia detta gelosia.
Però ch’ogni altro amaro che si pone
tra questa soavissima dolcezza,
è un augumento, una perfezione,
ed è un condurre amore a più finezza.
L’acque parer fa saporite e buone
la sete, e il cibo pel digiun s’apprezza:
non conosce la pace e non l’estima
chi provato non ha la guerra prima.
Se ben non veggon gli occhi ciò che vede
ognora il core, in pace si sopporta.
Lo star lontano, poi quando si riede,
quanto più lungo fu, più riconforta.
Lo stare in servitù senza mercede
(pur che non resti la speranza morta)
patir si può: che premio al ben servire
pur viene al fin, se ben tarda a venire.
Gli sdegni, le repulse, e finalmente
tutti i martìr d’amor, tutte le pene,
fan per lor rimembranza, che si sente
con miglior gusto un piacer quando viene.
Ma se l’infernal peste una egra mente
avvien ch’infetti, ammorbi ed avelene;
se ben segue poi festa ed allegrezza,
non la cura l’amante e non l’apprezza.
Questa è la cruda e avelenata piaga
a cui non val liquor, non vale impiastro,
né murmure, né imagine di saga,
né val lungo osservar di benigno astro,
né quanta esperienza d’arte maga
fece mai l’inventor suo Zoroastro:
piaga crudel che sopra ogni dolore
conduce l’uom, che disperato muore.
Oh incurabil piaga che nel petto
d’un amator sì facile s’imprime,
non men per falso che per ver sospetto!
piaga che l’uom sì crudelmente opprime,
che la ragion gli offusca e l’intelletto,
e lo tra’ fuor de le sembianze prime!
Oh iniqua gelosia, che così a torto
levasti a Bradamante ogni conforto!
Non di questo ch’Ippalca e che ’l fratello
le avea nel core amaramente impresso,
ma dico d’uno annunzio crudo e fello
che le fu dato pochi giorni appresso.
Questo era nulla a paragon di quello
ch’io vi dirò, ma dopo alcun digresso.
Di Rinaldo ho da dir primieramente,
che vêr Parigi vien con la sua gente.
Scontraro il dì seguente invêr la sera
un cavallier ch’avea una donna al fianco,
con scudo e sopravesta tutta nera,
se non che per traverso ha un fregio bianco.
Sfidò alla giostra Ricciardetto, ch’era
dinanzi, e vista avea di guerrier franco:
e quel, che mai nessun ricusar volse,
girò la briglia e spazio a correr tolse.
Senza dir altro, o più notizia darsi
de l’esser lor, si vengono all’incontro.
Rinaldo e gli altri cavallier fermarsi
per veder come seguiria lo scontro.
— Tosto costui per terra ha da versarsi,
se in luogo fermo a mio modo lo incontro —
dicea tra sé medesmo Ricciardetto;
ma contrario al pensier seguì l’effetto:
però che lui sotto la vista offese
di tanto colpo il cavalliero istrano,
che lo levò di sella, e lo distese
più di due lance al suo destrier lontano.
Di vendicarlo incontinente prese
l’assunto Alardo, e ritrovossi al piano
stordito e male acconcio: sì fu crudo
lo scontro fier, che gli spezzò lo scudo.
Guicciardo pone incontinente in resta
l’asta, che vede i duo germani in terra,
ben che Rinaldo gridi: — Resta, resta;
che mia convien che sia la terza guerra: —
ma l’elmo ancor non ha allacciato in testa
sì che Guicciardo al corso si disserra;
né più degli altri si seppe tenere,
e ritrovossi subito a giacere.
Vuol Ricciardo, Viviano e Malagigi,
e l’un prima de l’altro essere in giostra:
ma Rinaldo pon fine ai lor litigi;
ch’inanzi a tutti armato si dimostra,
dicendo loro: — È tempo ire a Parigi;
e saria troppo la tardanza nostra,
s’io volesse aspettar fin che ciascuno
di voi fosse abbattuto ad uno ad uno. —
Dissel tra sé, ma non che fosse inteso,
che saria stato agli altri ingiuria e scorno.
L’uno e l’altro del campo avea già preso,
e si faceano incontra aspro ritorno.
Non fu Rinaldo per terra disteso,
che valea tutti gli altri ch’avea intorno;
le lance si fiaccar, come di vetro,
né i cavallier si piegar oncia a dietro.
L’uno e l’altro cavallo in guisa urtosse,
che gli fu forza in terra a por le groppe.
Baiardo immantinente ridrizzosse,
tanto ch’a pena il correre interroppe.
Sinistramente sì l’altro percosse,
che la spalla e la schena insieme roppe.
Il cavallier che ’l destrier morto vede,
lascia le staffe ed è subito in piede.
Ed al figlio d’Amon, che già rivolto
tornava a lui con la man vota, disse:
— Signore, il buon destrier che tu m’hai tolto,
perché caro mi fu mentre che visse,
mi faria uscir del mio debito molto,
se così invendicato si morisse:
sì che vientene, e fa ciò che tu puoi,
perché battaglia esser convien tra noi. —
Disse Rinaldo a lui: — Se ’l destrier morto,
e non altro ci de’ porre a battaglia,
un de’ miei ti darò, piglia conforto,
che men del tuo non crederò che vaglia. —
Colui soggiunse: — Tu sei malaccorto,
se creder vuoi che d’un destrier mi caglia.
Ma poi che non comprendi ciò ch’io voglio,
ti spiegherò più chiaramente il foglio.
Vo’ dir che mi parria commetter fallo,
se con la spada non ti provassi anco,
e non sapessi s’in quest’altro ballo
tu mi sia pari, o se più vali o manco.
Come ti piace, o scendi, o sta a cavallo:
pur che le man tu non ti tegna al fianco,
io son contento ogni vantaggio darti:
tanto alla spada bramo di provarti. —
Rinaldo molto non lo tenne in lunga,
e disse: — La battaglia ti prometto;
e perché tu sia ardito, e non ti punga
di questi c’ho d’intorno alcun sospetto,
andranno inanzi fin ch’io gli raggiunga;
né meco resterà fuor ch’un valletto
che mi tenga il cavallo: — e così disse
alla sua compagnia che se ne gisse.
La cortesia del paladin gagliardo
commendò molto il cavalliero estrano.
Smontò Rinaldo, e del destrier Baiardo
diede al valletto le redine in mano:
e poi che più non vede il suo stendardo,
il qual di lungo spazio è già lontano,
lo scudo imbraccia e stringe il brando fiero,
e sfida alla battaglia il cavalliero.
E quivi s’incomincia una battaglia
di ch’altra mai non fu più fiera in vista.
Non crede l’un che tanto l’altro vaglia,
che troppo lungamente gli resista.
Ma poi che ’l paragon ben gli ragguaglia,
né l’un de l’altro più s’allegra o attrista,
pongon l’orgoglio ed il furor da parte,
ed al vantaggio loro usano ogn’arte.
S’odon lor colpi dispietati e crudi
intorno rimbombar con suono orrendo,
ora i canti levando a’ grossi scudi,
schiodando or piastre, e quando maglie aprendo.
Né qui bisogna tanto che si studi
a ben ferir, quanto a parar, volendo
star l’uno a l’altro par; ch’eterno danno
lor può causar il primo error che fanno.
Durò l’assalto un’ora e più che ’l mezzo
d’un’altra; ed era il sol già sotto l’onde,
ed era sparso il tenebroso rezzo
de l’orizzon fin all’estreme sponde;
né riposato o fatto altro intermezzo
aveano alle percosse furibonde
questi guerrier, che non ira o rancore,
ma tratto all’arme avea disio d’onore.
Rivolve tuttavia tra sé Rinaldo
chi sia l’estrano cavallier sì forte,
che non pur gli sta contra ardito e saldo,
ma spesso il mena a risco de la morte;
e già tanto travaglio e tanto caldo
gli ha posto, che del fin dubita forte:
e volentier, se con suo onor potesse,
vorria che quella pugna rimanesse.
Da l’altra parte il cavallier estrano,
che similmente non avea notizia
che quel fosse il signor di Montalbano,
quel sì famoso in tutta la milizia,
che gli avea incontra con la spada in mano
condotto così poca nimicizia,
era certo che d’uom di più eccellenza
non potesson dar l’arme esperienza.
Vorrebbe de l’impresa esser digiuno,
ch’avea di vendicare il suo cavallo;
e se potesse senza biasmo alcuno,
si trarria fuor del periglioso ballo.
Il mondo era già tanto oscuro e bruno,
che tutti i colpi quasi ivano in fallo.
Poco ferire e men parar sapeano,
ch’a pena in man le spade si vedeano.
Fu quel da Montalbano il primo a dire
che far battaglia non denno allo scuro,
ma quella indugiar tanto e differire,
ch’avesse dato volta il pigro Arturo;
e che può intanto al padiglion venire,
ove di sé non sarà men sicuro,
ma servito, onorato e ben veduto,
quanto in loco ove mai fosse venuto.
Non bisognò a Rinaldo pregar molto,
che ’l cortese baron tenne lo ’nvito.
Ne vanno insieme ove il drappel raccolto
di Montalbano era in sicuro sito.
Rinaldo al suo scudiero avea già tolto
un bel cavallo e molto ben guernito,
a spada e a lancia e ad ogni prova buono,
ed a quel cavallier fattone dono.
Il guerrier peregrin conobbe quello
esser Rinaldo, che venìa con esso;
che prima che giungessero all’ostello,
venuto a caso era a nomar se stesso:
e perché l’un de l’altro era fratello,
si sentìr dentro di dolcezza oppresso,
e di pietoso affetto tocco il core;
e lacrimar per gaudio e per amore.
Questo guerriero era Guidon selvaggio,
che dianzi con Marfisa e Sansonetto
e’ figli d’Olivier molto viaggio
avea fatto per mar, come v’ho detto.
Di non veder più tosto il suo lignaggio
il fellon Pinabel gli avea interdetto,
avendol preso e a bada poi tenuto
alla difesa del suo rio statuto.
Guidon, che questo esser Rinaldo udio,
famoso sopra ogni famoso duce,
ch’avuto avea più di veder disio,
che non ha il cieco la perduta luce,
con molto gaudio disse: — O signor mio,
qual fortuna a combatter mi conduce
con voi, che lungamente ho amato ed amo,
e sopra tutto il mondo onorar bramo?
Mi partorì Costanza ne le estreme
ripe del mar Eusino: io son Guidone,
concetto de lo illustre inclito seme,
come ancor voi, del generoso Amone.
Di voi vedere e gli altri nostri insieme
il desiderio è del venir cagione;
e dove mia intenzion fu d’onorarvi,
mi veggo esser venuto a ingiuriarvi.
Ma scusimi apo voi d’un error tanto,
ch’io non ho voi né gli altri conosciuto;
e s’emendar si può, ditemi quanto
far debbo, ch’in ciò far nulla rifiuto. —
Poi che si fu da questo e da quel canto
de’ complessi iterati al fin venuto,
rispose a lui Rinaldo: — Non vi caglia
meco scusarvi più de la battaglia:
che per certificarne che voi sète
di nostra antiqua stirpe un vero ramo,
dar miglior testimonio non potete,
che ’l gran valor ch’in voi chiaro proviamo.
Se più pacifiche erano e quiete
vostre maniere, mal vi credevamo;
che la damma non genera il leone,
né le colombe l’aquila o il falcone. —
Non, per andar, di ragionar lasciando,
non di seguir, per ragionar, lor via,
vennero ai padiglioni; ove narrando
il buon Rinaldo alla sua compagnia
che questo era Guidon, che disiando
veder, tanto aspettato aveano pria,
molto gaudio apportò ne le sue squadre;
e parve a tutti assimigliarsi al padre.
Non dirò l’accoglienze che gli fero
Alardo, Ricciardetto e gli altri dui;
che gli fece Viviano ed Aldigiero,
e Malagigi, frati e cugin sui;
ch’ogni signor gli fece e cavalliero;
ciò ch’egli disse a loro, ed essi a lui:
ma vi concluderò che finalmente
fu ben veduto da tutta la gente.
Caro Guidone a’ suoi fratelli stato
credo sarebbe in ogni tempo assai;
ma lor fu al gran bisogno ora più grato,
ch’esser potesse in altro tempo mai.
Poscia che ’l nuovo sole incoronato
del mare uscì di luminosi rai,
Guidon coi frati e coi parenti in schiera
se ne tornò sotto la lor bandiera.
Tanto un giorno ed un altro se n’andaro,
che di Parigi alle assediate porte
a men di dieci miglia s’accostaro
in ripa a Senna; ove per buona sorte
Grifone ed Aquilante ritrovaro,
i duo guerrier da l’armatura forte:
Grifone il bianco ed Aquilante il nero,
che partorì Gismonda d’Oliviero.
Con essi ragionava una donzella,
non già di vil condizione in vista,
che di sciamito bianco la gonnella
fregiata intorno avea d’aurata lista;
molto leggiadra in apparenza e bella,
fosse quantunque lacrimosa e trista:
e mostrava ne’ gesti e nel sembiante
di cosa ragionar molto importante.
Conobbe i cavallier, come essi lui,
Guidon, che fu con lor pochi dì inanzi;
ed a Rinaldo disse: — Eccovi dui
a cui van pochi di valore inanzi;
e se per Carlo ne verran con nui,
non ne staranno i Saracini inanzi. —
Rinaldo di Guidon conferma il detto,
che l’uno e l’altro era guerrier perfetto.
Gli avea riconosciuti egli non manco;
però che quelli sempre erano usati,
l’un tutto nero, e l’altro tutto bianco
vestir su l’arme, e molto andare ornati.
Da l’altra parte essi conobbero anco
e salutar Guidon, Rinaldo e i frati;
ed abbracciar Rinaldo come amico,
messo da parte ogni lor odio antico.
S’ebbero un tempo in urta e in gran dispetto
per Truffaldin, che fôra lungo a dire;
ma quivi insieme con fraterno affetto
s’accarezzar, tutte obliando l’ire.
Rinaldo poi si volse a Sansonetto,
ch’era tardato un poco più a venire,
e lo raccolse col debito onore,
a pieno istrutto del suo gran valore.
Tosto che la donzella più vicino
vide Rinaldo, e conosciuto l’ebbe
(ch’avea notizia d’ogni paladino),
gli disse una novella che gl’increbbe;
e cominciò: — Signore, il tuo cugino,
a cui la Chiesa e l’alto Imperio debbe,
quel già sì saggio ed onorato Orlando,
è fatto stolto, e va pel mondo errando.
Onde causato così strano e rio
accidente gli sia, non so narrarte.
La sua spada e l’altr’arme ho vedute io,
che per li campi avea gittate e sparte;
e vidi un cavallier cortese e pio
che le andò raccogliendo da ogni parte,
e poi di tutte quelle un arbuscello
fe’, a guisa di trofeo, pomposo e bello.
Ma la spada ne fu tosto levata
dal figliuol d’Agricane il dì medesmo.
Tu pòi considerar quanto sia stata
gran perdita alla gente del battesmo
l’essere un’altra volta ritornata
Durindana in poter del paganesmo.
Né Brigliadoro men, ch’errava sciolto
intorno all’arme, fu dal pagan tolto.
Son pochi dì ch’Orlando correr vidi
senza vergogna e senza senno, ignudo,
con urli spaventevoli e con gridi:
ch’è fatto pazzo in somma ti conchiudo;
e non avrei, fuor ch’a questi occhi fidi,
creduto mai sì acerbo caso e crudo. —
Poi narrò che lo vide giù dal ponte
abbracciato cader con Rodomonte.
— A qualunque io non creda esser nimico
d’Orlando (soggiungea) di ciò favello,
acciò ch’alcun di tanti a ch’io lo dico,
mosso a pietà del caso strano e fello,
cerchi o a Parigi o in altro luogo amico
ridurlo, fin che si purghi il cervello.
Ben so, se Brandimarte n’avrà nuova,
sarà per farne ogni possibil prova. —
Era costei la bella Fiordiligi,
più cara a Brandimarte che se stesso,
la qual, per lui trovar, venìa a Parigi:
e de la spada ella suggiunse appresso,
che discordia e contesa e gran litigi
tra il Sericano e ’l Tartaro avea messo;
e ch’avuta l’avea, poi fu casso,
di vita Mandricardo, al fin Gradasso.
Di così strano e misero accidente
Rinaldo senza fin si lagna e duole;
né il core intenerir men se ne sente,
che soglia intenerirsi il ghiaccio al sole:
e con disposta ed immutabil mente,
ovunque Orlando sia, cercar lo vuole,
con speme, poi che ritrovato l’abbia,
di farlo risanar di quella rabbia.
Ma già lo stuolo avendo fatto unire,
sia volontà del cielo o sia aventura,
vuol fare i Saracin prima fuggire,
e liberar le parigine mura.
Ma consiglia l’assalto differire,
che vi par gran vantaggio, a notte scura,
ne la terza vigilia o ne la quarta,
ch’avrà l’acqua di Lete il Sonno sparta.
Tutta la gente alloggiar fece al bosco,
e quivi la posò per tutto ’l giorno;
ma poi che ’l sol, lasciando il mondo fosco,
alla nutrice antiqua fe’ ritorno,
ed orsi e capre e serpi senza tosco
e l’altre fere ebbeno il cielo adorno,
che state erano ascose al maggior lampo,
mosse Rinaldo il taciturno campo:
e venne con Grifon, con Aquilante,
con Vivian, con Alardo e con Guidone,
con Sansonetto, agli altri un miglio inante,
a cheti passi e senza alcun sermone.
Trovò dormir l’ascolta d’Agramante:
tutta l’uccise, e non ne fe’ un prigione.
Indi arrivò tra l’altra gente Mora,
che non fu visto né sentito ancora.
Del campo d’infedeli a prima giunta
la ritrovata guardia all’improviso
lasciò Rinaldo sì rotta e consunta,
ch’un sol non ne restò, se non ucciso.
Spezzata che lor fu la prima punta,
i Saracin non l’avean più da riso,
che sonnolenti, timidi ed inermi,
poteano a tai guerrier far pochi schermi.
Fece Rinaldo per maggior spavento
dei Saracini, al mover de l’assalto,
a trombe e a corni dar subito vento,
e, gridando, il suo nome alzar in alto.
Spinse Baiardo, e quel non parve lento;
che dentro all’alte sbarre entrò d’un salto,
e versò cavallier, pestò pedoni,
ed atterrò trabacche e padiglioni.
Non fu sì ardito tra il popul pagano,
a cui non s’arricciassero le chiome,
quando sentì Rinaldo e Montalbano
sonar per l’aria, il formidato nome.
Fugge col campo d’Africa l’ispano,
né perde tempo a caricar le some;
ch’aspettar quella furia più non vuole,
ch’aver provata anco si piagne e duole.
Guidon lo segue, e non fa men di lui;
né men fanno i duo figli d’Oliviero,
Alardo e Ricciardetto, e gli altri dui:
col brando Sansonetto apre il sentiero:
Aldigiero e Vivian provar altrui
fan quanto in arme l’uno e l’altro è fiero.
Così fa ognun che segue lo stendardo
di Chiaramonte, da guerrier gagliardo.
Settecento con lui tenea Rinaldo
in Montalbano e intorno a quelle ville,
usati a portar l’arme al freddo e al caldo,
non già più rei dei Mirmidon d’Achille.
Ciascun d’essi al bisogno era sì saldo,
che cento insieme non fuggian per mille;
e se ne potean molti sceglier fuori,
che d’alcun dei famosi eran migliori.
E se Rinaldo ben non era molto
ricco né di città né di tesoro,
facea sì con parole e con buon volto,
e ciò ch’avea partendo ognor con loro,
ch’un di quel numer mai non gli fu tolto
per offerire altrui più somma d’oro.
Questi da Montalban mai non rimuove,
se non lo stringe un gran bisogno altrove.
Ed or, perch’abbia il Magno Carlo aiuto,
lasciò con poca guardia il suo castello.
Tra gli African questo drappel venuto,
questo drappel del cui valor favello,
ne fece quel che del gregge lanuto
sul falanteo Galeso il lupo fello,
o quel che soglia, del barbato, appresso
il barbaro Cinifio, il leon spesso.
Carlo, ch’aviso da Rinaldo avuto
avea che presso era a Parigi giunto,
e che la notte il campo sproveduto
volea assalir, stato era in arme e in punto;
e quando bisognò, venne in aiuto
coi paladini; e ai paladini aggiunto
avea il figliol del ricco Monodante,
di Fiordiligi il fido e saggio amante;
ch’ella più giorni per sì lunga via
cercato avea per tutta Francia invano.
Quivi all’insegne che portar solia,
fu da lei conosciuto di lontano.
Come lei Brandimarte vide pria,
lasciò la guerra, e tornò tutto umano,
e corse ad abbracciarla; e d’amor pieno,
mille volte baciolla o poco meno.
De le lor donne e de le lor donzelle
si fidar molto a quella antica etade.
Senz’altra scorta andar lasciano quelle
per piani e monti e per strane contrade;
ed al ritorno l’han per buone e belle,
né mai tra lor suspizione accade.
Fiordiligi narrò quivi al suo amante,
che fatto stolto era il signor d’Anglante.
Brandimarte sì strana e ria novella
credere ad altri a pena avria potuto;
ma lo credette a Fiordiligi bella,
a cui già maggior cose avea creduto.
Non pur d’averlo udito gli dice ella,
ma che con gli occhi propri l’ha veduto
(c’ha conoscenza e pratica d’Orlando,
quanto alcun altro), e dice dove e quando
E gli narra del ponte periglioso,
che Rodomonte ai cavallier difende,
ove un sepolcro adorna e fa pomposo
di sopraveste e d’arme di chi prende.
Narra c’ha visto Orlando furioso
far cose quivi orribili e stupende;
che nel fiume il pagan mandò riverso,
con gran periglio di restar summerso.
Brandimarte, che ’l conte amava quanto
si può compagno amar, fratello o figlio,
disposto di cercarlo, e di far tanto,
non ricusando affanno né periglio,
che per opra di medico o d’incanto
si ponga a quel furor qualche consiglio,
così come trovossi armato in sella,
si mise in via con la sua donna bella.
Verso la parte ove la donna il conte
avea veduto, il lor camin drizzaro,
di giornata in giornata, fin ch’al ponte
che guarda il re d’Algier, si ritrovaro.
La guardia ne fe’ segno a Rodomonte;
e gli scudieri a un tempo gli arrecaro
l’arme e il cavallo: e quel si trovò in punto,
quando fu Brandimarte al passo giunto.
Con voce qual conviene al suo furore
il Saracino a Brandimarte grida:
— Qualunque tu ti sia, che, per errore
di via o di mente, qui tua sorte guida,
scendi e spogliati l’arme, e fanne onore
al gran sepolcro, inanzi ch’io t’uccida,
e che vittima all’ombre tu sia offerto:
ch’io ’l farò poi, né te n’avrò alcun merto. —
Non volse Brandimarte a quell’altiero
altra risposta dar, che de la lancia.
Sprona Batoldo, il suo gentil destriero,
e inverso quel con tanto ardir si lancia,
che mostra che può star d’animo fiero
con qual si voglia al mondo alla bilancia:
e Rodomonte, con la lancia in resta,
lo stretto ponte a tutta briglia pesta.
Il suo destrier ch’avea continuo uso
d’andarvi sopra, e far di quel sovente
quando uno e quando un altro cader giuso,
alla giostra correa sicuramente;
l’altro, del corso insolito confuso,
venìa dubbioso, timido e tremente.
Trema anco il ponte, e par cader ne l’onda,
oltre che stretto e che sia senza sponda.
I cavallier, di giostra ambi maestri,
che le lance avean grosse come travi,
tali qual fur nei lor ceppi silvestri,
si dieron colpi non troppo soavi.
Ai lor cavalli esser possenti e destri
non giovò molto agli aspri colpi e gravi;
che si versar di pari ambi sul ponte,
e seco i signor lor tutti in un monte.
Nel volersi levar con quella fretta
che lo spronar de’ fianchi insta e richiede,
l’asse del ponticel lor fu sì stretta,
che non trovaro ove fermare il piede;
sì che una sorte uguale ambi li getta
ne l’acqua; e gran rimbombo al ciel ne riede,
simile a quel ch’uscì del nostro fiume,
quando ci cadde il mal rettor del lume.
I duo cavalli con tutto ’l pondo
dei cavallier, che steron fermi in sella,
a cercar la rivera insin al fondo,
se v’era ascosa alcuna ninfa bella.
Non è già il primo salto né ’l secondo,
che giù del ponte abbia il pagano in quella
onda spiccato col destrero audace;
però sa ben come quel fondo giace:
sa dove è saldo e sa dove è più molle,
sa dove è l’acqua bassa e dove è l’alta.
Dal fiume il capo e il petto e i fianchi estolle,
e Brandimarte a gran vantaggio assalta.
Brandimarte il corrente in giro tolle:
ne la sabbia il destrier, che ’l fondo smalta,
tutto si ficca, e non può riaversi,
con rischio di restarvi ambi sommersi.
L’onda si leva e li fa andar sozzopra,
e dove è più profonda li trasporta:
va Brandimarte sotto, e ’l destrier sopra.
Fiordiligi dal ponte afflitta e smorta
e le lacrime e i voti e i prieghi adopra:
— Ah Rodomonte, per colei che morta
tu riverisci, non esser sì fiero,
ch’affogar lasci un tanto cavalliero!
Deh, cortese signor, s’unque tu amasti,
di me, ch’amo costui, pietà ti vegna.
Di farlo tuo prigion, per Dio, ti basti;
che s’orni il sasso tuo di quella insegna,
di quante spoglie mai tu gli arrecasti,
questa fia la più bella e la più degna. —
E seppe sì ben dir, ch’ancor che fosse
sì crudo il re pagan, pur lo commosse;
e fe’ che ’l suo amator ratto soccorse,
che sotto acqua il destrier tenea sepolto,
e de la vita era venuto in forse,
e senza sete avea bevuto molto.
Ma aiuto non però prima gli porse,
che gli ebbe il brando e dipoi l’elmo tolto.
De l’acqua mezzo morto il trasse, e porre
con molti altri lo fe’ ne la sua torre.
Fu ne la donna ogni allegrezza spenta,
quando prigion vide il suo amante gire;
ma di questo pur meglio si contenta,
che di vederlo nel fiume perire.
Di se stessa, e non d’altri, si lamenta,
che fu cagion di farlo ivi venire,
per averli narrato ch’avea il conte
riconosciuto al periglioso ponte.
Quindi si parte, avendo già concetto
di menarvi Rinaldo paladino,
o il Selvaggio Guidone, o Sansonetto,
o altri de la corte di Pipino,
in acqua e in terra cavallier perfetto
da poter contrastar col Saracino;
se non più forte, almen più fortunato
che Brandimarte suo non era stato.
Va molti giorni, prima che s’abbatta
in alcun cavallier ch’abbia sembiante
d’esser come lo vuol, perché combatta
col Saracino e liberi il suo amante.
Dopo molto cercar di persona atta
al suo bisogno, un le vien pur avante,
che sopravesta avea ricca ed ornata,
a tronchi di cipressi ricamata.
Chi costui fosse, altrove ho da narrarvi;
che prima ritornar voglio a Parigi,
e de la gran sconfitta seguitarvi,
ch’a’ Mori diè Rinaldo e Malagigi.
Quei che fuggiro io non saprei contarvi,
né quei che fur cacciati ai fiumi stigi.
Levò a Turpino il conto l’aria oscura,
che di contarli s’avea preso cura.
Nel primo sonno dentro al padiglione
dormia Agramante; e un cavallier lo desta,
dicendogli che fia fatto prigione,
se la fuga non è via più che presta.
Guarda il re intorno, e la confusione
vede dei suoi, che van senza far testa
chi qua chi là fuggendo inermi e nudi,
che non han tempo di pur tor gli scudi.
Tutto confuso e privo di consiglio
si facea porre indosso la corazza,
quando con Falsiron vi giunse il figlio,
Grandonio e Balugante e quella razza;
e al re Agramante mostrano il periglio
di restar morto o preso in quella piazza:
e che può dir, se salva la persona,
che Fortuna gli sia propizia e buona.
Così Marsilio e così il buon Sobrino,
e così dicon gli altri ad una voce,
ch’a sua distruzion tanto è vicino,
quanto a Rinaldo il qual ne vien veloce;
che s’aspetta che giunga il paladino
con tanta gente, e un uom tanto feroce,
render certo si può ch’egli e i suo’ amici
rimarran morti, o in man degli nimici.
Ma ridur si può in Arli o sia in Narbona
con quella poca gente c’ha d’intorno;
che l’una e l’altra terra è forte e buona
da mantener la guerra più d’un giorno:
e quando salva sia la sua persona,
si potrà vendicar di questo scorno,
rifacendo l’esercito in un tratto,
onde al fin Carlo ne sarà disfatto.
Il re Agramante al parer lor s’attenne,
ben che ’l partito fosse acerbo e duro.
Andò verso Arli, e parve aver le penne,
per quel camin che più trovò sicuro.
Oltre alle guide, in gran favor gli venne
che la partita fu per l’aer scuro.
Ventimila tra d’Africa e di Spagna
fur, ch’a Rinaldo uscir fuor de la ragna.
Quei ch’egli uccise e quei che i suoi fratelli,
quei che i duo figli del signor di Vienna,
quei che provaro empi nimici e felli
i settecento a cui Rinaldo accenna,
e quei che spense Sansonetto, e quelli
che ne la fuga s’affogaro in Senna,
chi potesse contar, conteria ancora
ciò che sparge d’april Favonio e Flora.
Istima alcun che Malagigi parte
ne la vittoria avesse de la notte;
non che di sangue le campagne sparte
fosser per lui, né per lui teste rotte:
ma che gl’infernali angeli per arte
facesse uscir da le tartaree grotte,
e con tante bandiere e tante lance,
ch’insieme più non ne porrian due France;
e che facesse udir tanti metalli,
tanti tamburi e tanti varii suoni,
tanti anitriri in voce di cavalli,
tanti gridi e tumulti di pedoni,
che risonare e piani e monti e valli
dovean de le longique regioni:
ed ai Mori con questo un timor diede,
che li fece voltare in fuga il piede.
Non si scordò il re d’Africa Ruggiero,
ch’era ferito e stava ancora grave.
Quanto poté più acconcio s’un destriero
lo fece por, ch’avea l’andar soave;
e poi che l’ebbe tratto ove il sentiero
fu più sicuro, il fe’ posar in nave,
e verso Arli portar commodamente,
dove s’avea a raccor tutta la gente.
Quei ch’a Rinaldo e a Carlo dier le spalle
(fur, credo, centomila o poco manco),
per campagne, per boschi e monte e valle
cercaro uscir di man del popul franco;
ma la più parte trovò chiuso il calle,
e fece rosso ov’era verde e bianco.
Così non fece il re di Sericana,
ch’avea da lor la tenda più lontana:
anzi, come egli sente che ’l signore
di Montalbano è questo che gli assalta,
gioisce di tal iubilo nel core,
che qua e là per allegrezza salta.
Loda e ringrazia il suo sommo Fattore,
che quella notte gli occorra tant’alta
e sì rara aventura d’acquistare
Baiardo, quel destrier che non ha pare.
Avea quel re gran tempo desiato
(credo ch’altrove voi l’abbiate letto)
d’aver la buona Durindana a lato,
e cavalcar quel corridor perfetto.
E già con più di centomila armato
era venuto in Francia a questo effetto;
e con Rinaldo già sfidato s’era
per quel cavallo alla battaglia fiera;
e sul lito del mar s’era condutto
ove dovea la pugna diffinire:
ma Malagigi a turbar venne il tutto,
che fe’ il cugin, mal grado suo, partire,
avendol sopra un legno in mar ridutto.
Lungo saria tutta l’istoria dire.
Da indi in qua stimò timido e vile
sempre Gradasso il paladin gentile.
Or che Gradasso esser Rinaldo intende
costui ch’assale il campo, se n’allegra.
Si veste l’arme, e la sua alfana prende,
e cercando lo va per l’aria negra:
e quanti ne riscontra, a terra stende;
ed in confuso lascia afflitta ed egra
la gente, o sia di Libia o sia di Francia:
tutti li mena a un par la buona lancia.
Lo va di qua di là tanto cercando,
chiamando spesso e quanto può più forte,
e sempre a quella parte declinando,
ove più folte son le genti morte,
ch’al fin s’incontra in lui brando per brando
poi che le lance loro ad una sorte
eran salite in mille schegge rotte
sin al carro stellato de la Notte.
Quando Gradasso il paladin gagliardo
conosce, e non perché ne vegga insegna,
ma per gli orrendi colpi e per Baiardo,
che par che sol tutto quel campo tegna;
non è, gridando, a improverargli tardo
la prova che di sé fece non degna:
ch’al dato campo il giorno non comparse,
che tra lor la battaglia dovea farse.
Suggiunse poi: — Tu forse avevi speme,
se potevi nasconderti quel punto,
che non mai più per raccozzarci insieme
fossimo al mondo: or vedi ch’io t’ho giunto.
Sie certo, se tu andassi ne l’estreme
fosse di Stige, o fossi in cielo assunto,
ti seguirò, quando abbi il destrier teco,
ne l’alta luce e giù nel mondo cieco.
Se d’aver meco a far non ti dà il core,
e vedi già che non puoi starmi a paro,
e più stimi la vita che l’onore,
senza periglio ci puoi far riparo,
quando mi lasci in pace il corridore;
e viver puoi, se sì t’è il viver caro:
ma vivi a piè, che non merti cavallo,
s’alla cavalleria fai sì gran fallo. —
A quel parlar si ritrovò presente
con Ricciardetto il cavallier Selvaggio;
e le spade ambi trassero ugualmente,
per far parere il Serican mal saggio.
Ma Rinaldo s’oppose immantinente,
e non patì che se gli fêsse oltraggio,
dicendo: — Senza voi dunque non sono
a chi m’oltraggia per risponder buono? —
Poi se ne ritornò verso il pagano,
e disse: — Odi, Gradasso; io voglio farte,
e tu m’ascolti, manifesto e piano
ch’io venni alla marina a ritrovarte:
e poi ti sosterrò con l’arme in mano,
che t’avrò detto il vero in ogni parte;
e sempre che tu dica mentirai,
ch’alla cavalleria mancass’io mai.
Ma ben ti priego che prima che sia
pugna tra noi, che pianamente intenda
la giustissima e vera scusa mia,
acciò ch’a torto più non mi riprenda;
e poi Baiardo al termine di pria
tra noi vorrò ch’a piedi si contenda
da solo a solo in solitario lato,
sì come a punto fu da te ordinato. —
Era cortese il re di Sericana,
come ogni cor magnanimo esser suole;
ed è contento udir la cosa piana,
e come il paladin scusar si vuole.
Con lui ne viene in ripa alla fiumana,
ove Rinaldo in semplici parole
alla sua vera istoria trasse il velo,
e chiamò in testimonio tutto ’l cielo:
e poi chiamar fece il figliuol di Buovo,
l’uom che di questo era informato a pieno,
ch’a parte a parte replicò di nuovo
l’incanto suo, né disse più né meno.
Soggiunse poi Rinaldo: — Ciò ch’io provo
col testimonio, io vo’ che l’arme sieno,
che ora e in ogni tempo che ti piace,
te n’abbiano a far prova più verace. —
Il re Gradasso, che lasciar non volle
per la seconda la querela prima,
le scuse di Rinaldo in pace tolle,
ma se son vere o false in dubbio stima.
Non tolgon campo più sul lito molle
di Barcelona, ove lo tolser prima;
ma s’accordaro per l’altra matina
trovarsi a una fontana indi vicina:
ove Rinaldo seco abbia il cavallo,
che posto sia communemente in mezzo:
se ’l re uccide Rinaldo o il fa vassallo,
se ne pigli il destrier senz’altro mezzo,
ma se Gradasso è quel che faccia fallo,
che sia condotto all’ultimo ribrezzo,
o, per più non poter, che gli si renda,
da lui Rinaldo Durindana prenda.
Con maraviglia molta e più dolore
(come v’ho detto) avea Rinaldo udito
da Fiordiligi bella, ch’era fuore
de l’intelletto il suo cugino uscito.
Avea de l’arme inteso anco il tenore,
e del litigio che n’era seguito;
e ch’in somma Gradasso avea quel brando
ch’ornò di mille e mille palme Orlando.
Poi che furon d’accordo, ritornosse
il re Gradasso ai servitori sui
ben che dal paladin pregato fosse
che ne venisse ad alloggiar con lui.
Come fu giorno, il re pagano armosse;
così Rinaldo: e giunsero ambedui
ove dovea non lungi alla fontana
combattersi Baiardo e Durindana.
De la battaglia che Rinaldo avere
con Gradasso dovea da solo a solo,
parean gli amici suoi tutti temere,
e inanzi il caso ne faceano il duolo.
Molto ardir, molta forza, alto sapere
avea Gradasso; ed or che del figliuolo
del gran Milone avea la spada al fianco,
di timor per Rinaldo era ognun bianco.
E più degli altri il frate di Viviano
stava di questa pugna in dubbio e in tema,
ed anco volentier vi porria mano
per farla rimaner d’effetto scema:
ma non vorria che quel da Montalbano
seco venisse a inimicizia estrema;
ch’anco avea di quell’altra seco sdegno,
che gli turbò, quando il levò sul legno.
Ma stiano gli altri in dubbio, in tema, in doglia:
Rinaldo se ne va lieto e sicuro,
sperando ch’ora il biasmo se gli toglia,
ch’avere a torto gli parea pur duro;
sì che quei da Pontieri e d’Altafoglia
faccia cheti restar, come mai furo.
Va con baldanza e sicurtà di core
di riportarne il trionfale onore.
Poi che l’un quinci e l’altro quindi giunto
fu quasi a un tempo in su la chiara fonte,
s’accarezzaro, e fero a punto a punto
così serena ed amichevol fronte,
come di sangue e d’amistà congiunto
fosse Gradasso a quel di Chiaramonte.
Ma come poi s’andassero a ferire,
vi voglio a un’altra volta differire.