Quando vincer da l’impeto e da l’ira
si lascia la ragion, né si difende,
e che ’l cieco furor sì inanzi tira
o mano o lingua, che gli amici offende;
se ben dipoi si piange e si sospira,
non è per questo che l’error s’emende.
Lasso! io mi doglio e affliggo invan di quanto
dissi per ira al fin de l’altro canto.
Ma simile son fatto ad uno infermo,
che dopo molta pazienza e molta,
quando contra il dolor non ha più schermo,
cede alla rabbia e a bestemmiar si volta.
Manca il dolor, né l’impeto sta fermo,
che la lingua al dir mal facea sì sciolta;
e si ravvede e pente e n’ha dispetto:
ma quel c’ha detto, non può far non detto.
Ben spero, donne, in vostra cortesia
aver da voi perdon, poi ch’io vel chieggio.
Voi scusarete, che per frenesia,
vinto da l’aspra passion, vaneggio.
Date la colpa alla nimica mia,
che mi fa star, ch’io non potrei star peggio,
e mi fa dir quel di ch’io son poi gramo:
sallo Idio, s’ella ha il torto; essa, s’io l’amo.
Non men son fuor di me, che fosse Orlando;
e non son men di lui di scusa degno,
ch’or per li monti, or per le piagge errando,
scorse in gran parte di Marsilio il regno,
molti dì la cavalla strascinando
morta, come era, senza alcun ritegno;
ma giunto ove un gran fiume entra nel mare,
gli fu forza il cadavero lasciare.
E perché sa nuotar come una lontra,
entra nel fiume, e surge all’altra riva.
Ecco un pastor sopra un cavallo incontra,
che per abeverarlo al fiume arriva.
Colui, ben che gli vada Orlando incontra,
perché egli è solo e nudo, non lo schiva.
— Vorrei del tuo ronzin (gli disse il matto)
con la giumenta mia far un baratto.
Io te la mostrerò di qui, se vuoi;
che morta là su l’altra ripa giace:
la potrai far tu medicar dipoi;
altro diffetto in lei non mi dispiace.
Con qualche aggiunta il ronzin dar mi puoi:
smontane in cortesia, perché mi piace. —
Il pastor ride, e senz’altra risposta
va verso il guado, e dal pazzo si scosta.
— Io voglio il tuo cavallo: olà non odi? —
suggiunse Orlando, e con furor si mosse.
Avea un baston con nodi spessi e sodi
quel pastor seco, e il paladin percosse.
La rabbia e l’ira passò tutti i modi
del conte; e parve fier più che mai fosse.
Sul capo del pastore un pugno serra,
che spezza l’osso, e morto il caccia in terra.
Salta a cavallo, e per diversa strada
va discorrendo, e molti pone a sacco.
Non gusta il ronzin mai fieno né biada,
tanto ch’in pochi dì ne riman fiacco:
ma non però ch’Orlando a piedi vada,
che di vetture vuol vivere a macco;
e quante ne trovò, tante ne mise
in uso, poi che i lor patroni uccise.
Capitò al fin a Malega, e più danno
vi fece, ch’egli avesse altrove fatto:
che oltre che ponesse a saccomanno
il popul sì, che ne restò disfatto,
né si poté rifar quel né l’altr’anno;
tanti n’uccise il periglioso matto,
vi spianò tante case e tante accese,
che disfe’ più che ’l terzo del paese.
Quindi partito, venne ad una terra,
Zizera detta, che siede allo stretto
di Zibeltarro, o vuoi di Zibelterra,
che l’uno e l’altro nome le vien detto;
ove una barca che sciogliea da terra
vide piena di gente da diletto,
che solazzando all’aura matutina,
gìa per la tranquillissima marina.
Cominciò il pazzo a gridar forte: — Aspetta! —
che gli venne disio d’andare in barca.
Ma bene invano e i gridi e gli urli getta;
che volentier tal merce non si carca.
Per l’acqua il legno va con quella fretta
che va per l’aria irondine che varca.
Orlando urta il cavallo e batte e stringe,
e con un mazzafrusto all’acqua spinge.
Forza è ch’al fin nell’acqua il cavallo entre,
ch’invan contrasta, e spende invano ogni opra:
bagna i genocchi, e poi la groppa e ’l ventre,
indi la testa, e a pena appar di sopra.
Tornare a dietro non si speri, mentre
la verga tra l’orecchie se gli adopra.
Misero! o si convien tra via affogare,
o nel lito african passare il mare.
Non vede Orlando più poppe né sponde
che tratto in mar l’avean dal lito asciutto;
che son troppo lontane, e le nasconde
agli occhi bassi l’alto e mobil flutto:
e tuttavia il destrier caccia tra l’onde,
ch’andar di là dal mar dispone in tutto.
Il destrier, d’acqua pieno e d’alma voto,
finalmente finì la vita e il nuoto.
Andò nel fondo, e vi traea la salma,
se non si tenea Orlando in su le braccia.
Mena le gambe e l’una e l’altra palma,
e soffia, e l’onda spinge da la faccia.
Era l’aria soave e il mare in calma:
e ben vi bisognò più che bonaccia;
ch’ogni poco che ’l mar fosse più sorto,
restava il paladin ne l’acqua morto.
Ma la Fortuna, che dei pazzi ha cura,
del mar lo trasse nel lito di Setta,
in una spiaggia, lungi da le mura
quanto sarian duo tratti di saetta.
Lungo il mar molti giorni alla ventura
verso levante andò correndo in fretta;
fin che trovò, dove tendea sul lito
di nera gente esercito infinito.
Lasciamo il paladin ch’errando vada:
ben di parlar di lui tornerà tempo.
Quanto, Signore, ad Angelica accada
dopo ch’uscì di man del pazzo a tempo;
e come a ritornare in sua contrada
trovasse e buon navilio e miglior tempo,
e de l’India a Medor desse lo scettro,
forse altri canterà con miglior plettro.
Io sono a dir tante altre cose intento,
che di seguir più questa non mi cale.
Volger conviemmi il bel ragionamento
al Tartaro, che spinto il suo rivale,
quella bellezza si godea contento,
a cui non resta in tutta Europa uguale,
poscia che se n’è Angelica partita,
e la casta Issabella al ciel salita.
De la sentenza Mandricardo altiero,
ch’in suo favor la bella donna diede,
non può fruir tutto il diletto intero;
che contra lui son altre liti in piede.
L’una gli muove il giovene Ruggiero,
perché l’aquila bianca non gli cede;
l’altra il famoso re di Sericana,
che da lui vuol la spada Durindana.
S’affatica Agramante, né disciorre,
né Marsilio con lui, sa questo intrico:
né solamente non li può disporre
che voglia l’un de l’altro essere amico;
ma che Ruggiero a Mandricardo torre
lasci lo scudo del Troiano antico,
o Gradasso la spada non gli vieti,
tanto che questa o quella lite accheti.
Ruggier non vuol ch’in altra pugna vada
con lo suo scudo; né Gradasso vuole
che, fuor che contra sé porti la spada
che ’l glorioso Orlando portar suole.
— Al fin veggiamo in cui la sorte cada
(disse Agramante), e non sian più parole;
veggiàn quel che Fortuna ne disponga,
e sia preposto quel ch’ella preponga.
E se compiacer meglio mi volete,
onde d’aver ve n’abbia obligo ognora,
chi de’ di voi combatter, sortirete;
ma con patto, ch’al primo ch’esca fuora,
amendue le querele in man porrete:
sì che, per sé vincendo, vinca ancora
pel compagno; e perdendo l’un di vui,
così perduto abbia per ambidui.
Tra Gradasso e Ruggier credo che sia
di valor nulla o poca differenza;
e di lor qual si vuol venga fuor pria,
so ch’in arme farà per eccellenza.
Poi la vittoria da quel canto stia,
che vorrà la divina providenza.
Il cavallier non avrà colpa alcuna,
ma il tutto imputerassi alla Fortuna. —
Steron taciti al detto d’Agramante
e Ruggiero e Gradasso; ed accordarsi
che qualunque di loro uscirà inante,
e l’una briga e l’altra abbia a pigliarsi.
Così in duo brevi, ch’avean simigliante
ed ugual forma, i nomi lor notarsi;
e dentro un’urna quelli hanno rinchiusi,
versati molto, e sozzopra confusi.
Un semplice fanciul nell’urna messe
la mano, e prese un breve; e venne a caso
ch’in questo il nome di Ruggier si lesse,
essendo quel del Serican rimaso.
Non si può dir quanta allegrezza avesse,
quando Ruggier si sentì trar del vaso,
e d’altra parte il Sericano doglia;
ma quel che manda il ciel, forza è che toglia.
Ogni suo studio il Sericano, ogni opra
a favorire, ad aiutar converte
perché Ruggiero abbia a restar di sopra:
e le cose in suo pro, ch’avea già esperte,
come or di spada, or di scudo si cuopra,
qual sien botte fallaci e qual sien certe,
quando tentar, quando schivar fortuna
si dee, gli torna a mente ad una ad una.
Il resto di quel dì, che da l’accordo
e dal trar de le sorti sopravanza,
è speso dagli amici in dar ricordo,
chi a l’un guerrier chi all’altro, come è usanza.
Il popul, di veder la pugna ingordo,
s’affretta a gara d’occupar la stanza:
né basta a molti inanzi giorno andarvi,
che voglion tutta notte anco veggiarvi.
La sciocca turba disiosa attende
ch’i duo buon cavallier vengano in prova;
che non mira più lungi né comprende
di quel ch’inanzi agli occhi si ritrova.
Ma Sobrino e Marsilio, e chi più intende
e vede ciò che nuoce e ciò che giova,
biasma questa battaglia, ed Agramante,
che voglia comportar che vada inante.
Né cessan raccordargli il grave danno
che n’ha d’avere il popul saracino,
muora Ruggiero o il tartaro tiranno,
quel che prefisso è dal suo fier destino:
d’un sol di lor via più bisogno avranno
per contrastare al figlio di Pipino,
che di dieci altri mila che ci sono,
tra’ quai fatica è ritrovare un buono.
Conosce il re Agramante che gli è vero,
ma non può più negar ciò c’ha promesso.
Ben prega Mandricardo e il buon Ruggiero,
che gli ridonin quel c’ha lor concesso;
e tanto più che ’l lor litigio è un zero,
né degno in prova d’arme esser rimesso:
e s’in ciò pur nol vogliono ubbidire,
voglino almen la pugna differire.
Cinque o sei mesi il singular certame,
o meno o più, si differisca, tanto
che cacciato abbin Carlo del reame,
tolto lo scettro, la corona e il manto.
Ma l’un e l’altro, ancor che voglia e brame
il re ubbidir, pur sta duro da canto;
che tale accordo obbrobrioso stima
a chi ’l consenso suo vi darà prima.
Ma più del re, ma più d’ognun ch’invano
spenda a placare il Tartaro parole,
la bella figlia del re Stordilano
supplice il priega, e si lamenta e duole:
lo prega che consenta al re africano
e voglia quel che tutto il campo vuole;
si lamenta e si duol che per lui sia
timida sempre e piena d’angonia.
— Lassa! (dicea) che ritrovar poss’io
rimedio mai ch’a riposar mi vaglia,
s’or contra questo, or quel, nuovo disio
vi trarrà sempre a vestir piastra e maglia?
C’ha potuto giovare al petto mio
il gaudio che sia spenta la battaglia
per me da voi contra quell’altro presa,
se un’altra non minor se n’è già accesa?
Ohimè! ch’invano i’ me n’andava altiera
ch’un re sì degno, un cavallier sì forte
per me volesse in perigliosa e fiera
battaglia porsi al risco de la morte;
ch’or veggo per cagion tanto leggiera
non meno esporvi alla medesma sorte.
Fu natural ferocità di core
ch’a quella v’istigò, più che ’l mio amore.
Ma se gli è ver che ’l vostro amor sia quello
che vi sforzate di mostrarmi ognora,
per lui vi prego, e per quel gran flagello
che mi percuote l’alma e che m’accora,
che non vi caglia se ’l candido augello
ha ne lo scudo quel Ruggiero ancora.
Utile o danno a voi non so ch’importi,
che lasci quella insegna o che la porti.
Poco guadagno, e perdita uscir molta
de la battaglia può, che per far sète:
quando abbiate a Ruggier l’aquila tolta,
poca mercé d’un gran travaglio avrete;
ma se Fortuna le spalle vi volta
(che non però nel crin presa tenete),
causate un danno, ch’a pensarvi solo
mi sento il petto già sparrar di duolo.
Quando la vita a voi per voi non sia
cara, e più amate un’aquila dipinta,
vi sia almen cara per la vita mia:
non sarà l’una senza l’altra estinta.
Non già morir con voi grave mi fia:
son di seguirvi in vita e in morte accinta;
ma non vorrei morir sì malcontenta
come io morrò, se dopo voi son spenta. —
Con tai parole e simili altre assai,
che le lacrime accompagnano e sospiri,
pregar non cessa tutta notte mai
perch’alla pace il suo amator ritiri;
e quel, suggendo dagli umidi rai
quel dolce pianto, e quei dolci martiri
da le vermiglie labra più che rose,
lacrimando egli ancor, così rispose:
— Deh, vita mia, non vi mettete affanno,
deh non, per Dio, di così lieve cosa;
che se Carlo e ’l re d’Africa, e ciò c’hanno
qui di gente moresca e di franciosa,
spiegasson le bandiere in mio sol danno,
voi pur non ne dovreste esser pensosa.
Ben mi mostrate in poco conto avere,
se per me un Ruggier sol vi fa temere.
E vi dovria pur ramentar che, solo
(e spada io non avea né scimitarra),
con un troncon di lancia a un grosso stuolo
d’armati cavallier tolsi la sbarra.
Gradasso, ancor che con vergogna e duolo
lo dica, pure, a chi ’l domanda, narra
che fu in Soria a un castel mio prigioniero;
ed è pur d’altra fama che Ruggiero.
Non niega similmente il re Gradasso,
e sallo Isolier vostro e Sacripante,
io dico Sacripante, il re circasso,
e ’l famoso Grifone ed Aquilante,
cent’altri e più, che pure a questo passo
stati eran presi alcuni giorni inante,
macometani e gente di battesmo,
che tutti liberai quel dì medesmo.
Non cessa ancor la maraviglia loro
de la gran prova ch’io feci quel giorno,
maggior, che se l’esercito del Moro
e del Franco inimici avessi intorno.
Ed or potrà Ruggier, giovine soro,
farmi da solo a solo o danno o scorno?
Ed or c’ho Durindana e l’armatura
d’Ettòr, vi de’ Ruggier metter paura?
Deh, perché dianzi in prova non venni io,
se far di voi con l’arme io potea acquisto?
So che v’avrei sì aperto il valor mio,
ch’avresti il fin già di Ruggier previsto.
Asciugate le lacrime, e, per Dio,
non mi fate uno augurio così tristo;
e siate certa che ’l mio onor m’ha spinto,
non ne lo scudo il bianco augel dipinto. —
Così disse egli; e molto ben risposto
gli fu da la mestissima sua donna,
che non pur lui mutato di proposto,
ma di luogo avria mossa una colonna.
Ella era per dover vincer lui tosto,
ancor ch’armato, e ch’ella fosse in gonna;
e l’avea indutto a dir, se ’l re gli parla
d’accordo più, che volea contentarla.
E lo facea; se non, tosto ch’al Sole
la vaga Aurora fe’ l’usata scorta,
l’animoso Ruggier, che mostrar vuole
che con ragion la bella aquila porta,
per non udir più d’atti e di parole
dilazion, ma far la lite corta,
dove circonda il popul lo steccato,
sonando il corno s’appresenta armato.
Tosto che sente il Tartaro superbo,
ch’alla battaglia il suono altier lo sfida,
non vuol più de l’accordo intender verbo,
ma si lancia del letto, ed arme grida;
e si dimostra sì nel viso acerbo,
che Doralice istessa non si fida
di dirgli più di pace né di triegua:
e forza è infin che la battaglia segua.
Subito s’arma, ed a fatica aspetta
da’ suoi scudieri i debiti servigi;
poi monta sopra il buon cavallo in fretta,
che del gran difensor fu di Parigi;
e vien correndo invêr la piazza eletta
a terminar con l’arme i gran litigi.
Vi giunse il re e la corte allora allora;
sì ch’all’assalto fu poca dimora.
Posti lor furo ed allacciati in testa
i lucidi elmi, e date lor le lance.
Siegue la tromba a dare il segno presta,
che fece a mille impallidir le guance.
Posero l’aste i cavallieri in resta,
e i corridori punsero alle pance;
e venner con tale impeto a ferirsi,
che parve il ciel cader, la terra aprirsi.
Quinci e quindi venir si vede il bianco
augel che Giove per l’aria sostenne;
come ne la Tessalia si vide anco
venir più volte, ma con altre penne.
Quanto sia l’uno e l’altro ardito e franco,
mostra il portar de le massicce antenne;
e molto più, ch’a quello incontro duro,
quai torri ai venti, o scogli all’onde furo.
I tronchi fin al ciel ne sono ascesi:
scrive Turpin, verace in questo loco,
che dui o tre giù ne tornaro accesi,
ch’eran saliti alla sfera del fuoco.
I cavallieri i brandi aveano presi:
e come quei che si temeano poco,
si ritornaro incontra; e a prima giunta
ambi alla vista si ferir di punta.
Ferirsi alla visiera al primo tratto;
e non miraron, per mettersi in terra,
dare ai cavalli morte, ch’è mal atto,
perch’essi non han colpa de la guerra.
Chi pensa che tra lor fosse tal patto,
non sa l’usanza antiqua, e di molto erra:
senz’altro patto, era vergogna e fallo
e biasmo eterno a chi feria il cavallo.
Ferirsi alla visiera, ch’era doppia,
ed a pena anco a tanta furia resse.
L’un colpo appresso all’altro si raddoppia:
le botte più che grandine son spesse,
che spezza fronde e rami e grano e stoppia,
e uscir invan fa la sperata messe.
Se Durindana e Balisarda taglia,
sapete, e quanto in queste mani vaglia.
Ma degno di sé colpo ancor non fanno,
sì l’uno e l’altro ben sta su l’aviso.
Uscì da Mandricardo il primo danno,
per cui fu quasi il buon Ruggiero ucciso:
d’uno di quei gran colpi che far sanno,
gli fu lo scudo pel mezzo diviso,
e la corazza apertagli di sotto;
e fin sul vivo il crudel brando ha rotto.
L’aspra percossa agghiacciò il cor nel petto,
per dubbio di Ruggiero, ai circostanti,
nel cui favor si conoscea lo affetto
dei più inchinar, se non di tutti quanti.
E se Fortuna ponesse ad effetto
quel che la maggior parte vorria inanti,
già Mandricardo saria morto o preso:
sì che ’l suo colpo ha tutto il campo offeso.
Io credo che qualche agnol s’interpose
per salvar da quel colpo il cavalliero.
Ma ben senza più indugio gli rispose,
terribil più che mai fosse, Ruggiero.
La spada in capo a Mandricardo pose;
ma sì lo sdegno fu subito e fiero,
e tal fretta gli fe’, ch’io men l’incolpo
se non mandò a ferir di taglio il colpo.
Se Balisarda lo giungea pel dritto,
l’elmo d’Ettorre era incantato invano.
Fu sì del colpo Mandricardo afflitto,
che si lasciò la briglia uscir di mano.
D’andar tre volte accenna a capo fitto,
mentre scorrendo va d’intorno il piano
quel Brigliador che conoscete al nome,
dolente ancor de le mutate some.
Calcata serpe mai tanto non ebbe,
né ferito leon, sdegno e furore,
quanto il Tartaro, poi che si riebbe
dal colpo che di sé lo trasse fuore.
E quanto l’ira e la superbia crebbe,
tanto e più crebbe in lui forza e valore:
fece spiccare a Brigliadoro un salto
verso Ruggiero, e alzò la spada in alto.
Levossi in su le staffe, ed all’elmetto
segnolli; e si credette veramente
partirlo a quella volta fin al petto:
ma fu di lui Ruggier più diligente;
che, pria che ’l braccio scenda al duro effetto,
gli caccia sotto la spada pungente,
e gli fa ne la maglia ampla finestra,
che sotto difendea l’ascella destra.
E Balisarda al suo ritorno trasse
di fuori il sangue tiepido e vermiglio,
e vietò a Durindana che calasse
impetuosa con tanto periglio;
ben che fin su la groppa si piegasse
Ruggiero, e per dolor strignesse il ciglio:
e s’elmo in capo avea di peggior tempre,
gli era quel colpo memorabil sempre.
Ruggier non cessa, e spinge il suo cavallo,
e Mandricardo al destro fianco trova.
Quivi scelta finezza di metallo
e ben condutta tempra poco giova
contra la spada che non scende in fallo,
che fu incantata non per altra prova,
che per far ch’a’ suoi colpi nulla vaglia
piastra incantata ed incantata maglia.
Taglionne quanto ella ne prese, e insieme
lasciò ferito il Tartaro nel fianco,
che ’l ciel bestemmia, e di tant’ira freme,
che ’l tempestoso mare è orribil manco.
Or s’apparecchia a por le forze estreme:
lo scudo ove in azzurro è l’augel bianco,
vinto da sdegno, si gittò lontano,
e messe al brando e l’una e l’altra mano.
— Ah (disse a lui Ruggier), senza più basti
a mostrar che non merti quella insegna,
ch’or tu la getti, e dianzi la tagliasti;
né potrai dir mai più che ti convegna. —
Così dicendo, forza è che egli attasti
con quanta furia Durindana vegna;
che sì gli grava e sì gli pesa in fronte,
che più leggier potea cadervi un monte.
E per mezzo gli fende la visiera;
buon per lui che dal viso si discosta:
poi calò su l’arcion che ferrato era,
né lo difese averne doppia crosta:
giunse al fin su l’arnese, e come cera
l’aperse con la falda sopraposta;
e ferì gravemente ne la coscia
Ruggier, sì ch’assai stette a guarir poscia.
De l’un, come de l’altro, fatte rosse
il sangue l’arme avea con doppia riga;
tal che diverso era il parer, chi fosse
di lor, ch’avesse il meglio in quella briga.
Ma quel dubbio Ruggier tosto rimosse
con la spada che tanti ne castiga:
mena di punta, e drizza il colpo crudo
onde gittato avea colui lo scudo.
Fora de la corazza il lato manco,
e di venire al cor trova la strada,
che gli entra più d’un palmo sopra il fianco:
sì che convien che Mandricardo cada
d’ogni ragion che può ne l’augel bianco,
o che può aver ne la famosa spada;
e da la cara vita cada insieme,
che, più che spada e scudo, assai gli preme.
Non morì quel meschin senza vendetta;
ch’a quel medesmo tempo che fu colto,
la spada, poco sua, menò di fretta;
ed a Ruggier avria partito il volto,
se già Ruggier non gli avesse intercetta
prima la forza, e assai del vigor tolto:
di forza e di vigor troppo gli tolse
dianzi, che sotto il destro braccio il colse.
Da Mandricardo fu Ruggier percosso
nel punto ch’egli a lui tolse la vita;
tal ch’un cerchio di ferro, anco che grosso,
e una cuffia d’acciar ne fu partita.
Durindana tagliò cotenna ed osso,
e nel capo a Ruggiero entrò due dita.
Ruggier stordito in terra si riversa,
e di sangue un ruscel dal capo versa.
Il primo fu Ruggier, ch’andò per terra;
e dipoi stette l’altro a cader tanto,
che quasi crede ognun che de la guerra
riporti Mandricardo il pregio e il vanto:
e Doralice sua, che con gli altri erra,
e che quel dì più volte ha riso e pianto,
Dio ringraziò con mani al ciel supine,
ch’avesse avuta la pugna tal fine.
Ma poi ch’appare a manifesti segni
vivo chi vive, e senza vita il morto,
nei petti dei fautor mutano regni:
di là mestizia, e di qua vien conforto.
I re, i signori, i cavallier più degni,
con Ruggier ch’a fatica era risorto,
a rallegrarsi ed abbracciarsi vanno,
e gloria senza fine e onor gli danno.
Ognun s’allegra con Ruggiero, e sente
il medesmo nel cor, c’ha ne la bocca.
Sol Gradasso il pensiero ha differente
tutto da quel che fuor la lingua scocca:
mostra gaudio nel viso; e occultamente
del glorioso acquisto invidia il tocca;
e maledice o sia destino o caso,
il qual trasse Ruggier prima del vaso.
Che dirò del favor, che de le tante
carezze e tante, affettuose e vere,
che fece a quel Ruggiero il re Agramante,
senza il qual dare al vento le bandiere,
né volse muover d’Africa le piante,
né senza lui si fidò in tante schiere?
Or che del re Agricane ha spento il seme,
prezza più lui, che tutto il mondo insieme.
Né di tal volontà gli uomini soli
eran verso Ruggier, ma le donne anco,
che d’Africa e di Spagna fra gli stuoli
eran venute al tenitorio franco.
E Doralice istessa, che con duoli
piangea l’amante suo pallido e bianco,
forse con l’altre ita sarebbe in schiera,
se di vergogna un duro fren non era.
Io dico forse, non ch’io ve l’accerti,
ma potrebbe esser stato di leggiero:
tal la bellezza e tali erano i merti,
i costumi e i sembianti di Ruggiero.
Ella, per quel che già ne siamo esperti,
sì facile era a variar pensiero,
che per non si veder priva d’amore,
avria potuto in Ruggier porre il core.
Per lei buono era vivo Mandricardo:
ma che ne volea far dopo la morte?
Proveder le convien d’un che gagliardo
sia notte e dì ne’ suoi bisogni, e forte.
Non era stato intanto a venir tardo
il più perito medico di corte,
che di Ruggier veduta ogni ferita,
già l’avea assicurato de la vita.
Con molta diligenza il re Agramante
fece colcar Ruggier ne le sue tende;
che notte e dì veder sel vuole inante:
sì l’ama, sì di lui cura si prende.
Lo scudo al letto e l’arme tutte quante,
che fur di Mandricardo, il re gli appende;
tutte le appende, eccetto Durindana,
che fu lasciata al re di Sericana.
Con l’arme l’altre spoglie a Ruggier sono
date di Mandricardo, e insieme dato
gli è Brigliador, quel destrier bello e buono,
che per furore Orlando avea lasciato.
Poi quello al re diede Ruggiero in dono,
che s’avide ch’assai gli saria grato.
Non più di questo; che tornar bisogna
a chi Ruggiero invan sospira e agogna.
Gli amorosi tormenti che sostenne
Bradamante aspettando, io v’ho da dire.
A Montalbano Ippalca a lei rivenne
e nuova le arrecò del suo desire.
Prima, di quanto di Frontin le avenne
con Rodomonte, l’ebbe a riferire;
poi di Ruggier, che ritrovò alla fonte
con Ricciardetto e’ frati d’Agrismonte:
e che con esso lei s’era partito
con speme di trovare il Saracino,
e punirlo di quanto avea fallito
d’aver tolto a una donna il suo Frontino;
e che ’l disegno poi non gli era uscito,
perché diverso avea fatto il camino.
La cagione anco, perché non venisse
a Montalban Ruggier, tutta le disse;
e riferille le parole a pieno,
ch’in sua scusa Ruggier le avea commesse.
Poi si trasse la lettera di seno,
ch’egli le diè, perch’ella a lei la desse.
Con viso più turbato che sereno
prese la carta Bradamante, e lesse;
che, se non fosse la credenza stata
già di veder Ruggier, fôra più grata.
L’aver Ruggiero ella aspettato, e invece
di lui vedersi ora appagar d’un scritto,
del bel viso turbar l’aria le fece
di timor, di cordoglio e di despitto.
Baciò la carta diece volte e diece,
avendo a chi la scrisse il cor diritto.
Le lacrime vietar, che su vi sparse,
che con sospiri ardenti ella non l’arse.
Lesse la carta quattro volte e sei,
e volse ch’altretante l’imbasciata
replicata le fosse da colei
che l’una e l’altra avea quivi arrecata,
pur tuttavia piangendo: e crederei
che mai non si saria più racchetata,
se non avesse avuto pur conforto
di riveder il suo Ruggier di corto.
Termine a ritornar quindici o venti
giorni avea Ruggier tolto, ed affermato
l’avea ad Ippalca poi con giuramenti
da non temer che mai fosse mancato.
— Chi m’assicura, ohimè, degli accidenti
(ella dicea), c’han forza in ogni lato,
ma ne le guerre più, che non distorni
alcun tanto Ruggier, che più non torni?
Ohimè! Ruggiero, ohimè! chi arìa creduto
ch’avendoti amato io più di me stessa,
tu più di me, non ch’altri, ma potuto
abbi amar gente tua inimica espressa?
A chi opprimer dovresti, doni aiuto:
chi tu dovresti aitare, è da te oppressa.
Non so se biasmo o laude esser ti credi,
ch’al premiar e al punir sì poco vedi.
Fu morto da Troian (non so se ’l sai)
il padre tuo; ma fin ai sassi il sanno:
e tu del figlio di Troian cura hai
che non riceva alcun disnor né danno.
È questa la vendetta che ne fai,
Ruggiero? e a quei che vendicato l’hanno,
rendi tal premio, che del sangue loro
me fai morir di strazio e di martoro? —
Dicea la donna al suo Ruggiero assente
queste parole ed altre, lacrimando,
non una sola volta, ma sovente.
Ippalca la venìa pur confortando,
che Ruggier servarebbe interamente
sua fede, e ch’ella l’aspettasse, quando
altro far non potea, fin a quel giorno
ch’avea Ruggier prescritto al suo ritorno.
I conforti d’Ippalca, e la speranza
che degli amanti suole esser compagna,
alla tema e al dolor tolgon possanza
di far che Bradamante ognora piagna;
in Montalban senza mutar mai stanza
voglion che fin al termine rimagna,
fino al promesso termine e giurato,
che poi fu da Ruggier male osservato.
Ma ch’egli alla promessa sua mancasse
non però debbe aver la colpa affatto;
ch’una causa ed un’altra sì lo trasse,
che gli fu forza preterire il patto.
Convenne che nel letto si colcasse,
e più d’un mese si stesse di piatto
in dubbio di morir, sì il dolor crebbe
dopo la pugna che col Tartaro ebbe.
L’innamorata giovane l’attese
tutto quel giorno e desiollo invano,
né mai ne seppe, fuor quanto ne ’ntese
ora da Ippalca, e poi dal suo germano,
che le narrò che Ruggier lui difese,
e Malagigi liberò e Viviano.
Questa novella, ancor ch’avesse grata,
pur di qualche amarezza era turbata:
che di Marfisa in quel discorso udito
l’alto valore e le bellezze avea:
udì come Ruggier s’era partito
con esso lei, e che d’andar dicea
là dove con disagio in debol sito
malsicuro Agramante si tenea.
Sì degna compagnia la donna lauda
ma non che se n’allegri, o che l’applauda.
Né picciolo è il sospetto che la preme;
che se Marfisa è bella, come ha fama,
e che fin a quel dì sien giti insieme,
è maraviglia se Ruggier non l’ama.
Pur non vuol creder anco, e spera e teme:
e ’l giorno che la può far lieta e grama,
misera aspetta; e sospirando stassi,
da Montalban mai non movendo i passi.
Stando ella quivi, il principe, il signore
del bel castello, il primo de’ suoi frati
(io non dico d’etade, ma d’onore,
che di lui prima dui n’erano nati),
Rinaldo, che di gloria e di splendore
gli ha, come il sol le stelle, illuminati,
giunse al castello un giorno in su la nona;
né, fuor ch’un paggio, era con lui persona.
Cagion del suo venir fu, che da Brava
ritornandosi un dì verso Parigi
(come v’ho detto che sovente andava
per ritrovar d’Angelica vestigi),
avea sentita la novella prava
del suo Viviano e del suo Malagigi,
ch’eran per essere dati al Maganzese;
e perciò ad Agrismonte la via prese.
Dove intendendo poi ch’eran salvati,
e gli aversari lor morti e distrutti,
e Marfisa e Ruggiero erano stati,
che gli aveano a quei termini ridutti;
e suoi fratelli e suoi cugin tornati
a Montalbano insieme erano tutti;
gli parve un’ora un anno di trovarsi
con esso lor là dentro ad abbracciarsi.
Venne Rinaldo a Montalbano, e quivi
madre, moglie abbracciò, figli e fratelli,
e i cugini che dianzi eran captivi;
e parve, quando egli arrivò tra quelli,
dopo gran fame irondine ch’arrivi
col cibo in bocca ai pargoletti augelli.
E poi ch’un giorno vi fu stato o dui,
partissi, e fe’ partire altri con lui.
Ricciardo, Alardo, Ricciardetto, e d’essi
figli d’Amone, il più vecchio Guicciardo,
Malagigi e Vivian, si furon messi
in arme dietro al paladin gagliardo.
Bradamante aspettando che s’appressi
il tempo ch’al disio suo ne vien tardo,
inferma disse agli fratelli ch’era,
e non volse con lor venire in schiera.
E ben lor disse il ver, ch’ella era inferma,
ma non per febbre o corporal dolore:
era il disio che l’alma dentro inferma,
e le fa alterazion patir d’amore.
Rinaldo in Montalban più non si ferma,
e seco mena di sua gente il fiore.
Come a Parigi appropinquosse, e quanto
Carlo aiutò, vi dirà l’altro canto.