Né fune intorto crederò che stringa
soma così, né così legno chiodo,
come la fé ch’una bella alma cinga
del suo tenace indissolubil nodo.
Né dagli antiqui par che si dipinga
la santa Fé vestita in altro modo,
che d’un vel bianco che la cuopra tutta:
ch’un sol punto, un sol neo la può far brutta.
La fede unqua non debbe esser corrotta,
o data a un solo, o data insieme a mille;
e così in una selva, in una grotta,
lontan da le cittadi e da le ville,
come dinanzi a tribunali, in frotta
di testimon, di scritti e di postille,
senza giurare o segno altro più espresso,
basti una volta che s’abbia promesso.
Quella servò, come servar si debbe
in ogni impresa, il cavallier Zerbino:
e quivi dimostrò che conto n’ebbe,
quando si tolse dal proprio camino
per andar con costei, la qual gl’increbbe,
come s’avesse il morbo sì vicino,
o pur la morte istessa; ma potea,
più che ’l disio, quel che promesso avea.
Dissi di lui, che di vederla sotto
la sua condotta tanto al cor gli preme,
che n’arrabbia di duol, né le fa motto,
e vanno muti e taciturni insieme:
dissi che poi fu quel silenzio rotto,
ch’al mondo il sol mostrò le ruote estreme,
da un cavalliero aventuroso errante,
ch’in mezzo del camin lor si fe’ inante.
La vecchia che conobbe il cavalliero,
ch’era nomato Ermonide d’Olanda,
che per insegna ha ne lo scudo nero
attraversata una vermiglia banda,
posto l’orgoglio e quel sembiante altiero,
umilmente a Zerbin si raccomanda,
e gli ricorda quel ch’esso promise
alla guerriera ch’in sua man la mise.
Perché di lei nimico e di sua gente
era il guerrier che contra lor venìa:
ucciso ad essa avea il padre innocente,
e un fratello che solo al mondo avia;
e tuttavolta far del rimanente,
come degli altri, il traditor disia.
— Fin ch’alla guardia tua, donna, mi senti
(dicea Zerbin), non vo’ che tu paventi. —
Come più presso il cavallier si specchia
in quella faccia che sì in odio gli era:
— O di combatter meco t’apparecchia
(gridò con voce minacciosa e fiera),
o lascia la difesa de la vecchia,
che di mia man secondo il merto pera.
Se combatti per lei, rimarrai morto;
che così avviene a chi s’appiglia al torto. —
Zerbin cortesemente a lui risponde
che gli è desir di bassa e mala sorte,
ed a cavalleria non corrisponde
che cerchi dare ad una donna morte:
se pur combatter vuol, non si nasconde;
ma che prima consideri ch’importe
ch’un cavallier, com’era egli, gentile,
voglia por man nel sangue feminile,
Queste gli disse e più parole invano;
e fu bisogno al fin venire a’ fatti.
Poi che preso a bastanza ebbon del piano,
tornarsi incontra a tutta briglia ratti.
Non van sì presti i razzi fuor di mano,
ch’al tempo son de le allegrezze tratti,
come andaron veloci i duo destrieri
ad incontrare insieme i cavallieri.
Ermonide d’Olanda segnò basso,
che per passare il destro fianco attese:
ma la sua debol lancia andò in fracasso,
e poco il cavallier di Scozia offese.
Non fu già l’altro colpo vano e casso:
roppe lo scudo, e sì la spalla prese,
che la forò da l’uno all’altro lato,
e riversar fe’ Ermonide sul prato.
Zerbin che si pensò d’averlo ucciso,
di pietà vinto, scese in terra presto,
e levò l’elmo da lo smorto viso;
e quel guerrier, come dal sonno desto,
senza parlar guardò Zerbino fiso;
e poi gli disse: — Non m’è già molesto
ch’io sia da te abbattuto, ch’ai sembianti
mostri esser fior de’ cavallier erranti;
ma ben mi duol che questo per cagione
d’una femina perfida m’avviene,
a cui non so come tu sia campione,
che troppo al tuo valor si disconviene.
E quando tu sapessi la cagione
ch’a vendicarmi di costei mi mene,
avresti, ognor che rimembrassi, affanno
d’aver, per campar lei, fatto a me danno.
E se spirto a bastanza avrò nel petto
ch’io il possa dir (ma del contrario temo),
io ti farò veder ch’in ogni effetto
scelerata è costei più ch’in estremo.
Io ebbi già un fratel che giovinetto
d’Olanda si partì, donde noi semo,
e si fece d’Eraclio cavalliero,
ch’allor tenea de’ Greci il sommo impero.
Quivi divenne intrinseco e fratello
d’un cortese baron di quella corte,
che nei confin di Servia avea un castello
di sito ameno e di muraglia forte.
Nomossi Argeo colui di ch’io favello,
di questa iniqua femina consorte,
la quale egli amò sì, che passò il segno
ch’a un uom si convenia, come lui, degno.
Ma costei, più volubile che foglia
quando l’autunno è più priva d’umore,
che l’ freddo vento gli arbori ne spoglia
e le soffia dinanzi al suo furore;
verso il marito cangiò tosto voglia,
che fisso qualche tempo ebbe nel core;
e volse ogni pensiero, ogni disio
d’acquistar per amante il fratel mio.
Ma né sì saldo all’impeto marino
l’Acrocerauno d’infamato nome,
né sta sì duro incontra borea il pino
che rinovato ha più di cento chiome,
che quanto appar fuor de lo scoglio alpino,
tanto sotterra ha le radici; come
il mio fratello a’ prieghi di costei,
nido de tutti i vizi infandi e rei.
Or, come avviene a un cavallier ardito,
che cerca briga e la ritrova spesso,
fu in una impresa il mio fratel ferito,
molto al castel del suo compagno appresso,
dove venir senza aspettare invito
solea, fosse o non fosse Argeo con esso;
e dentro a quel per riposar fermosse
tanto che del suo mal libero fosse.
Mentre egli quivi si giacea, convenne
ch’in certa sua bisogna andasse Argeo.
Tosto questa sfacciata a tentar venne
il mio fratello, ed a sua usanza feo;
ma quel fedel non oltre più sostenne
avere ai fianchi un stimulo sì reo:
elesse, per servar sua fede a pieno,
di molti mal quel che gli parve meno.
Tra molti mal gli parve elegger questo:
lasciar d’Argeo l’intrinsichezza antiqua;
lungi andar sì, che non sia manifesto
mai più il suo nome alla femina iniqua.
Ben che duro gli fosse, era più onesto
che satisfare a quella voglia obliqua,
o ch’accusar la moglie al suo signore,
da cui fu amata a par del proprio core.
E de le sue ferite ancora infermo
l’arme si veste, e del castel si parte;
e con animo va costante e fermo
di non mai più tornare in quella parte.
Ma che gli val? ch’ogni difesa e schermo
gli disipa Fortuna con nuova arte;
ecco il marito che ritorna intanto,
e trova la moglier che fa gran pianto,
e scapigliata e con la faccia rossa;
e le domanda di che sia turbata.
Prima ch’ella a rispondere sia mossa,
pregar si lascia più d’una fiata,
pensando tuttavia come si possa
vendicar di colui che l’ha lasciata:
e ben convenne al suo mobile ingegno
cangiar l’amore in subitano sdegno.
— Deh (disse al fine), a che l’error nascondo
c’ho commesso, signor, ne la tua assenza?
che quando ancora io ’l celi a tutto ’l mondo,
celar nol posso alla mia coscienza.
L’alma che sente il suo peccato immondo,
pate dentro da sé tal penitenza,
ch’avanza ogn’altro corporal martire
che dar mi possa alcun del mio fallire;
quando fallir sia quel che si fa a forza:
ma sia quel che si vuol, tu sappil’anco;
poi con la spada da la immonda scorza
scioglie lo spirto imaculato e bianco,
e le mie luci eternamente ammorza;
che dopo tanto vituperio, almanco
tenerle basse ognor non mi bisogni,
e di ciascun ch’io vegga, io mi vergogni.
Il tuo compagno ha l’onor mio distrutto:
questo corpo per forza ha violato;
e perché teme ch’io ti narri il tutto,
or si parte il villan senza commiato. —
In odio con quel dir gli ebbe ridutto
colui che più d’ogn’altro gli fu grato.
Argeo lo crede, ed altro non aspetta;
ma piglia l’arme e corre a far vendetta.
E come quel ch’avea il paese noto,
lo giunse che non fu troppo lontano;
che ’l mio fratello, debole ed egroto,
senza sospetto se ne gìa pian piano:
e brevemente, in un loco remoto
pose, per vendicarsene, in lui mano.
Non trova il fratel mio scusa che vaglia;
ch’in somma Argeo con lui vuol la battaglia.
Era l’un sano e pien di nuovo sdegno,
infermo l’altro, ed all’usanza amico:
sì ch’ebbe il fratel mio poco ritegno
contra il compagno fattogli nimico.
Dunque Filandro di tal sorte indegno
(de l’infelice giovene ti dico:
così avea nome), non sofrendo il peso
di sì fiera battaglia, restò preso.
— Non piaccia a Dio che mi conduca a tale
il mio giusto furore e il tuo demerto
(gli disse Argeo), che mai sia omicidiale
di te ch’amava; e me tu amavi certo,
ben che nel fin me l’hai mostrato male;
pur voglio a tutto il mondo fare aperto
che, come fui nel tempo de l’amore,
così ne l’odio son di te migliore.
Per altro modo punirò il tuo fallo,
che le mie man più nel tuo sangue porre. —
Così dicendo, fece sul cavallo
di verdi rami una bara comporre,
e quasi morto in quella riportallo
dentro al castello in una chiusa torre,
dove in perpetuo per punizione
candannò l’innocente a star prigione.
Non però ch’altra cosa avesse manco,
che la libertà prima del partire;
perché nel resto, come sciolto e franco
vi comandava e si facea ubidire.
Ma non essendo ancor l’animo stanco
di questa ria del suo pensier fornire,
quasi ogni giorno alla prigion veniva;
ch’avea le chiavi, e a suo piacer l’apriva:
e movea sempre al mio fratello assalti,
e con maggiore audacia che di prima.
— Questa tua fedeltà (dicea) che valti,
poi che perfidia per tutto si stima?
Oh che trionfi gloriosi ed alti!
oh che superbe spoglie e preda opima!
oh che merito al fin te ne risulta,
se, come a traditore, ognun t’insulta!
Quanto utilmente, quanto con tuo onore
m’avresti dato quel che da te volli!
Di questo sì ostinato tuo rigore
la gran mercé che tu guadagni, or tolli:
in prigion sei, né crederne uscir fuore,
se la durezza tua prima non molli.
Ma quando mi compiacci, io farò trama
di racquistarti e libertade e fama. —
— No, no (disse Filandro) aver mai spene
che non sia, come suol, mia vera fede,
se ben contra ogni debito mi avviene
ch’io ne riporti sì dura mercede,
e di me creda il mondo men che bene:
basta che inanti a quel che ’l tutto vede
e mi può ristorar di grazia eterna,
chiara la mia innocenza si discerna.
Se non basta ch’Argeo mi tenga preso,
tolgami ancor questa noiosa vita.
Forse non mi fia il premio in ciel conteso
de la buona opra, qui poco gradita.
Forse egli, che da me si chiama offeso,
quando sarà quest’anima partita,
s’avedrà poi d’avermi fatto torto,
e piangerà il fedel compagno morto. —
Così più volte la sfacciata donna
tenta Filandro, e torna senza frutto.
Ma il cieco suo desir, che non assonna
del scelerato amor traer costrutto,
cercando va più dentro ch’alla gonna
suoi vizi antiqui, e ne discorre il tutto.
Mille pensier fa d’uno in altro modo,
prima che fermi in alcun d’essi il chiodo.
Stette sei mesi che non messe piede,
come prima facea, ne la prigione;
di che il miser Filandro e spera e crede
che costei più non gli abbia affezione.
Ecco Fortuna, al mal propizia, diede
a questa scelerata occasione
di metter fin con memorabil male
al suo cieco appetito irrazionale.
Antiqua nimicizia avea il marito
con un baron detto Morando il bello,
che, non v’essendo Argeo, spesso era ardito
di correr solo, e sin dentro al castello;
ma s’Argeo v’era, non tenea lo ’nvito,
né s’accostava a dieci miglia a quello.
Or, per poterlo indur che ci venisse,
d’ire in Ierusalem per voto disse.
Disse d’andare; e partesi ch’ognuno
lo vede, e fa di ciò sparger le grida:
né il suo pensier, fuor che la moglie, alcuno
puote saper; che sol di lei si fida.
Torna poi nel castello all’aer bruno,
né mai, se non la notte, ivi s’annida;
e con mutate insegne al nuovo albore,
senza vederlo alcun, sempre esce fuore.
Se ne va in questa e in quella parte errando,
e volteggiando al suo castello intorno,
pur per veder se credulo Morando
volesse far, come solea, ritorno.
Stava il dì tutto alla foresta; e quando
ne la marina vedea ascoso il giorno,
venìa al castello, e per nascose porte
lo togliea dentro l’infedel consorte.
Crede ciascun, fuor che l’iniqua moglie,
che molte miglia Argeo lontan si trove.
Dunque il tempo oportuno ella si toglie:
al fratel mio va con malizie nuove.
Ha di lagrime a tutte le sue voglie
un nembo che dagli occhi al sen le piove.
— Dove potrò (dicea) trovare aiuto,
che in tutto l’onor mio non sia perduto?
E col mio quel del mio marito insieme,
il qual se fosse qui, non temerei.
Tu conosci Morando, e sai se teme,
quando Argeo non ci sente, omini e dei.
Questi or pregando, or minacciando, estreme
prove fa tuttavia, né alcun de’ miei
lascia che non contamini, per trarmi
a’ suoi desii, né so s’io potrò aitarmi.
Or c’ha inteso il partir del mio consorte,
e ch’al ritorno non sarà sì presto,
ha avuto ardir d’entrar ne la mia corte
senza altra scusa e senz’altro pretesto;
che se ci fosse il mio signor per sorte,
non sol non avria audacia di far questo,
ma non si terria ancor, per Dio, sicuro
d’appressarsi a tre miglia a questo muro.
E quel che già per messi ha ricercato,
oggi me l’ha richiesto a fronte a fronte,
e con tai modi, che gran dubbio è stato
de lo avvenirmi disonore ed onte,
e se non che parlar dolce gli ho usato,
e finto le mie voglie alle sue pronte,
saria a forza, di quel suto rapace,
che spera aver per mie parole in pace.
Promesso gli ho, non già per osservargli
(che fatto per timor, nullo è il contratto);
ma la mia intenzion fu per vietargli
quel che per forza avrebbe allora fatto.
Il caso è qui: tu sol pòi rimediargli;
del mio onor altrimenti sarà tratto,
e di quel del mio Argeo, che già m’hai detto
aver o tanto, o più che ’l proprio, a petto.
E se questo mi nieghi, io dirò dunque
ch’in te non sia la fé di che ti vanti;
ma che fu sol per crudeltà, qualunque
volta hai sprezzati i miei supplici pianti;
non per rispetto alcun d’Argeo, quantunque
m’hai questo scudo ognora opposto inanti.
Saria stato tra noi la cosa occulta;
ma di qui aperta infamia mi risulta. —
— Non si convien (disse Filandro) tale
prologo a me, per Argeo mio disposto.
Narrami pur quel che tu vuoi, che quale
sempre fui, di sempre essere ho proposto;
e ben ch’a torto io ne riporti male,
a lui non ho questo peccato imposto.
Per lui son pronto andare anco alla morte,
e siami contra il mondo e la mia sorte. —
Rispose l’empia: — Io voglio che tu spenga
colui che ’l nostro disonor procura.
Non temer ch’alcun mal di ciò t’avenga;
ch’io te ne mostrerò la via sicura.
Debbe egli a me tornar come rivenga
su l’ora terza la notte più scura;
e fatto un segno de ch’io l’ho avvertito,
io l’ho a tor dentro, che non sia sentito.
A te non graverà prima aspettarme
ne la camera mia dove non luca,
tanto che dispogliar gli faccia l’arme,
e quasi nudo in man te lo conduca. —
Così la moglie conducesse parme
il suo marito alla tremenda buca;
se per dritto costei moglie s’appella,
più che furia infernal crudele e fella.
Poi che la notte scelerata venne,
fuor trasse il mio fratel con l’arme in mano;
e ne l’oscura camera lo tenne,
fin che tornasse il miser castellano.
Come ordine era dato, il tutto avvenne;
che ’l consiglio del mal va raro invano.
Così Filandro il buon Argeo percosse,
che si pensò che quel Morando fosse.
Con esso un colpo il capo fesse e il collo;
ch’elmo non v’era, e non vi fu riparo.
Pervenne Argeo, senza pur dare un crollo,
de la misera vita al fine amaro:
e tal l’uccise, che mai non pensollo,
né mai l’avria creduto: oh caso raro!
che cercando giovar, fece all’amico
quel di che peggio non si fa al nimico.
Poscia ch’Argeo non conosciuto giacque,
rende a Gabrina il mio fratel la spada.
Gabrina è il nome di costei, che nacque
sol per tradire ognun che in man le cada.
Ella, che ’l ver fin a quell’ora tacque,
vuol che Filandro a riveder ne vada
col lume in mano il morto ond’egli è reo:
e gli dimostra il suo compagno Argeo.
E gli minaccia poi, se non consente
all’amoroso suo lungo desire,
di palesare a tutta quella gente
quel ch’egli ha fatto, e nol può contradire;
e lo farà vituperosamente
come assassino e traditor morire:
e gli ricorda che sprezzar la fama
non de’, se ben la vita sì poco ama.
Pien di paura e di dolor rimase
Filandro, poi che del suo error s’accorse.
Quasi il primo furor gli persuase
d’uccider questa, e stette un pezzo in forse:
e se non che ne le nimiche case
si ritrovò (che la ragion soccorse),
non si trovando avere altr’arme in mano,
coi denti la stracciava a brano a brano.
Come ne l’alto mar legno talora,
che da duo venti sia percosso e vinto,
ch’ora uno inanzi l’ha mandato, ed ora
un altro al primo termine respinto,
e l’han girato da poppa e da prora,
dal più possente al fin resta sospinto;
così Filandro, tra molte contese
de’ duo pensieri, al manco rio s’apprese.
Ragion gli dimostrò il pericol grande,
oltre al morir, del fine infame e sozzo,
se l’omicidio nel castel si spande;
e del pensare il termine gli è mozzo.
Voglia o non voglia, al fin convien che mande
l’amarissimo calice nel gozzo.
Pur finalmente ne l’afflitto core
più de l’ostinazion poté il timore.
Il timor del supplicio infame e brutto
prometter fece con mille scongiuri,
che faria di Gabrina il voler tutto,
se di quel luogo se partian sicuri.
Così per forza colse l’empia il frutto
del suo desire, e poi lasciar quei muri.
Così Filandro a noi fece ritorno,
di sé lasciando in Grecia infamia e scorno.
E portò nel cor fisso il suo compagno
che così scioccamente ucciso avea,
per far con sua gran noia empio guadagno
d’una Progne crudel, d’una Medea.
E se la fede e il giuramento, magno
e duro freno, non lo ritenea,
come al sicuro fu, morta l’avrebbe;
ma, quanto più si puote, in odio l’ebbe.
Non fu da indi in qua rider mai visto:
tutte le sue parole erano meste,
sempre sospir gli uscian dal petto tristo,
ed era divenuto un nuovo Oreste,
poi che la madre uccise e il sacro Egisto,
e che l’ultrice Furie ebbe moleste.
E senza mai cessar, tanto l’afflisse
questo dolor, ch’infermo al letto il fisse.
Or questa meretrice, che si pensa
quanto a quest’altro suo poco sia grata,
muta la fiamma già d’amore intensa
in odio, in ira ardente ed arrabbiata;
né meno è contra al mio fratello accensa,
che fosse contra Argeo la scelerata:
e dispone tra sé levar dal mondo,
come il primo marito, anco il secondo.
Un medico trovò d’inganni pieno,
sufficiente ed atto a simil uopo,
che sapea meglio uccider di veneno,
che risanar gl’infermi di silopo;
e gli promesse, inanzi più che meno
di quel che domandò, donargli, dopo
ch’avesse con mortifero liquore
levatole dagli occhi il suo signore.
Già in mia presenza e d’altre più persone
venìa col tosco in mano il vecchio ingiusto,
dicendo ch’era buona pozione
da ritornare il mio fratel robusto.
Ma Gabrina con nuova intenzione,
pria che l’infermo ne turbasse il gusto,
per torsi il consapevole d’appresso,
o per non dargli quel ch’avea promesso,
la man gli prese, quando a punto dava
la tazza dove il tosco era celato,
dicendo: — Ingiustamente è se ’l ti grava
ch’io tema per costui c’ho tanto amato.
Voglio esser certa che bevanda prava
tu non gli dia, né succo avelenato;
e per questo mi par che ’l beveraggio
non gli abbi a dar, se non ne fai tu il saggio. —
Come pensi, signor, che rimanesse
il miser vecchio conturbato allora?
La brevità del tempo sì l’oppresse,
che pensar non poté che meglio fôra;
pur, per non dar maggior sospetto, elesse
il calice gustar senza dimora:
e l’infermo, seguendo una tal fede,
tutto il resto pigliò, che si gli diede.
Come sparvier che nel piede grifagno
tenga la starna e sia per trarne pasto,
dal can che si tenea fido compagno,
ingordamente è sopragiunto e guasto;
così il medico intento al rio guadagno,
donde sperava aiuto ebbe contrasto.
Odi di summa audacia esempio raro!
e così avvenga a ciascun altro avaro.
Fornito questo, il vecchio s’era messo,
per ritornare alla sua stanza, in via,
ed usar qualche medicina appresso,
che lo salvasse da la peste ria;
ma da Gabrina non gli fu concesso,
dicendo non voler ch’andasse pria
che ’l succo ne lo stomaco digesto
il suo valor facesse manifesto.
Pregar non val, né far di premio offerta,
che lo voglia lasciar quindi partire.
Il disperato, poi che vede certa
la morte sua, né la poter fuggire,
ai circostanti fa la cosa aperta;
né la seppe costei troppo coprire.
E così quel che fece agli altri spesso,
quel buon medico al fin fece a se stesso:
e sequitò con l’alma quella ch’era
già de mio frate caminata inanzi.
Noi circostanti, che la cosa vera
del vecchio udimmo, che fe’ pochi avanzi,
pigliammo questa abominevol fera,
più crudel di qualunque in selva stanzi;
e la serrammo in tenebroso loco,
per condannarla al meritato foco. —
Questo Ermonide disse, e più voleva
seguir, com’ella di prigion levossi;
ma il dolor de la piaga sì l’aggreva,
che pallido ne l’erba riversossi.
Intanto duo scudier, che seco aveva,
fatto una bara avean di rami grossi:
Ermonide si fece in quella porre;
ch’indi altrimente non si potea torre.
Zerbin col cavallier fece sua scusa,
che gl’increscea d’averli fatto offesa;
ma, come pur tra cavallieri s’usa,
colei che venìa seco avea difesa:
ch’altrimente sua fé saria confusa;
perché, quando in sua guardia l’avea presa,
promesse a sua possanza di salvarla
contra ognun che venisse a disturbarla.
E s’in altro potea gratificargli,
prontissimo offeriase alla sua voglia.
Rispose il cavallier, che ricordargli
sol vuol, che da Gabrina si discioglia
prima ch’ella abbia cosa a machinargli,
di ch’esso indarno poi si penta e doglia.
Gabrina tenne sempre gli occhi bassi,
perché non ben risposta al vero dassi.
Con la vecchia Zerbin quindi partisse
al già promesso debito viaggio;
e tra sé tutto il dì la maledisse,
che far gli fece a quel barone oltraggio.
Ed or che pel gran mal che gli ne disse
chi lo sapea, di lei fu istrutto e saggio,
se prima l’avea a noia e a dispiacere,
or l’odia sì che non la può vedere.
Ella che di Zerbin sa l’odio a pieno,
né in mala voluntà vuole esser vinta,
un’oncia a lui non ne riporta meno:
la tien di quarta, e la rifà di quinta.
Nel cor era gonfiata di veneno,
e nel viso altrimente era dipinta.
Dunque ne la concordia ch’io vi dico,
tenean lor via per mezzo il bosco antico.
Ecco, volgendo il sol verso la sera,
udiron gridi e strepiti e percosse,
che facean segno di battaglia fiera
che, quanto era il rumor, vicina fosse.
Zerbino, per veder la cosa ch’era,
verso il rumore in gran fretta si mosse:
non fu Gabrina lenta a seguitarlo.
Di quel ch’avvenne, all’altro canto io parlo.