Le donne antique hanno mirabil cose
fatto ne l’arme e ne le sacre muse;
e di lor opre belle e gloriose
gran lume in tutto il mondo si diffuse.
Arpalice e Camilla son famose,
perché in battaglia erano esperte ed use;
Safo e Corinna, perché furon dotte,
splendono illustri, e mai non veggon notte.
Le donne son venute in eccellenza
Di ciascun’arte ove hanno posto cura;
e qualunque all’istorie abbia avvertenza,
ne sente ancor la fama non oscura.
Se ’l mondo n’è gran tempo stato senza,
non però sempre il mal influsso dura;
e forse ascosi han lor debiti onori
l’invidia o il non saper degli scrittori.
Ben mi par di veder ch’al secol nostro
tanta virtù fra belle donne emerga,
che può dare opra a carte ed ad inchiostro,
perché nei futuri anni si disperga,
e perché, odiose lingue, il mal dir vostro
con vostra eterna infamia si sommerga:
e le lor lode appariranno in guisa,
che di gran lunga avanzeran Marfisa.
Or pur tornando a lei, questa donzella
al cavallier che l’usò cortesia,
de l’esser suo non niega dar novella,
quando esso a lei voglia contar chi sia.
Sbrigossi tosto del suo debito ella:
tanto il nome di lui saper disia.
— Io son (disse) Marfisa: — e fu assai questo;
che si sapea per tutto ’l mondo il resto.
L’altro comincia, poi che tocca a lui,
con più proemio a darle di sé conto,
dicendo: — Io credo che ciascun di vui
abbia de la mia stirpe il nome in pronto;
che non pur Francia e Spagna e i vicin sui,
ma l’India, l’Etiopia e il freddo Ponto
han chiara cognizion di Chiaramonte,
onde uscì il cavallier ch’uccise Almonte,
quel ch’a Chiariello e al re Mambrino
diede la morte, e il regno lor disfece.
Di questo sangue, dove ne l’Eusino
l’Istro ne vien con otto corna o diece,
al duca Amone, il qual già peregrino
vi capitò, la madre mia mi fece:
e l’anno è ormai ch’io la lasciai dolente,
per gire in Francia a ritrovar mia gente.
Ma non potei finire il mio viaggio,
che qua mi spinse un tempestoso Noto.
Son dieci mesi o più che stanza v’aggio,
che tutti i giorni e tutte l’ore noto.
Nominato son io Guidon Selvaggio,
di poca pruova ancora e poco noto.
Uccisi qui Argilon da Melibea
con dieci cavallier che seco avea.
Feci la pruova ancor de le donzelle:
così n’ho diece a’ miei piaceri allato;
ed alla scelta mia son le più belle,
e son le più gentil di questo stato.
E queste reggo e tutte l’altre; ch’elle
di sé m’hanno governo e scettro dato:
così daranno a qualunque altro arrida
Fortuna sì, che la decina ancida. —
I cavallier domandano a Guidone,
com’ha sì pochi maschi il tenitoro;
e s’alle moglie hanno suggezione,
come esse l’han negli altri lochi a loro.
Disse Guidon: — Più volte la cagione
udita n’ho da poi che qui dimoro;
e vi sarà, secondo ch’io l’ho udita,
da me, poi che v’aggrada, riferita.
Al tempo che tornar dopo anni venti
da Troia i Greci (che durò l’assedio
dieci, e dieci altri da contrari venti
furo agitati in mar con troppo tedio),
trovar che le lor donne agli tormenti
di tanta assenza avean preso rimedio:
tutte s’avean gioveni amanti eletti,
per non si raffreddar sole nei letti.
Le case lor trovaro i Greci piene
de l’altrui figli; e per parer commune
perdonano alle mogli, che san bene
che tanto non potean viver digiune:
ma ai figli degli adulteri conviene
altrove procacciarsi altre fortune;
che tolerar non vogliono i mariti
che più alle spese lor sieno notriti.
Sono altri esposti, altri tenuti occulti
da le lor madri e sostenuti in vita.
In vane squadre quei ch’erano adulti
feron, chi qua chi là, tutti partita.
Per altri l’arme son, per altri culti
gli studi e l’arti; altri la terra trita;
serve altri in corte; altri è guardian di gregge,
come piace a colei che qua giù regge.
Partì fra gli altri un giovinetto, figlio
di Clitemnestra, la crudel regina,
di diciotto anni, fresco come un giglio,
o rosa colta allor di su la spina.
Questi, armato un suo legno, a dar di piglio
si pose e a depredar per la marina
in compagnia di cento giovinetti
del tempo suo, per tutta Grecia eletti.
I Cretesi, in quel tempo che cacciato
il crudo Idomeneo del regno aveano,
e per assicurarsi il nuovo stato,
d’uomini e d’arme adunazion faceano;
fero con bon stipendio lor soldato
Falanto (così al giovine diceano),
e lui con tutti quei che seco avea,
poser per guardia alla città Dictea.
Fra cento alme città ch’erano in Creta,
Dictea più ricca e più piacevol era,
di belle donne ed amorose lieta,
lieta di giochi da matino a sera:
e com’era ogni tempo consueta
d’accarezzar la gente forestiera,
fe’ a costor sì, che molto non rimase
a fargli anco signor de le lor case.
Eran gioveni tutti e belli affatto
(che ’l fior di Grecia avea Falanto eletto):
sì ch’alle belle donne, al primo tratto
che v’apparir, trassero i cor del petto.
Poi che non men che belli, ancora in fatto
si dimostrar buoni e gagliardi al letto,
si fero ad esse in pochi dì sì grati,
che sopra ogn’altro ben n’erano amati.
Finita che d’accordo è poi la guerra
per cui stato Falanto era condutto,
e lo stipendio militar si serra,
sì che non v’hanno i gioveni più frutto,
e per questo lasciar voglion la terra;
fan le donne di Creta maggior lutto,
e per ciò versan più dirotti pianti,
che se i lor padri avesson morti avanti.
Da le lor donne i gioveni assai foro,
ciascun per sé, di rimaner pregati:
né volendo restare, esse con loro
n’andar, lasciando e padri e figli e frati,
di ricche gemme e di gran summa d’oro
avendo i lor dimestici spogliati;
che la pratica fu tanto secreta,
che non sentì la fuga uomo di Creta.
Sì fu propizio il vento, sì fu l’ora
commoda, che Falanto a fuggir colse,
che molte miglia erano usciti fuora,
quando del danno suo Creta si dolse.
Poi questa spiaggia, inabitata allora,
trascorsi per fortuna li raccolse.
Qui si posaro, e qui sicuri tutti
meglio del furto lor videro i frutti.
Questa lor fu per dieci giorni stanza
di piaceri amorosi tutta piena.
Ma come spesso avvien, che l’abondanza
seco in cor giovenil fastidio mena,
tutti d’accordo fur di restar sanza
femine, e liberarsi di tal pena;
che non è soma da portar sì grave,
come aver donna, quando a noia s’have.
Essi che di guadagno e di rapine
eran bramosi, e di dispendio parchi,
vider ch’a pascer tante concubine,
d’altro che d’aste avean bisogno e d’archi:
sì che sole lasciar qui le meschine,
e se n’andar di lor ricchezze carchi
là dove in Puglia in ripa al mar poi sento
ch’edificar la terra di Tarento.
Le donne, che si videro tradite
dai loro amanti in che più fede aveano,
restar per alcun dì sì sbigottite,
che statue immote in lito al mar pareano.
Visto poi che da gridi e da infinite
lacrime alcun profitto non traeano,
a pensar cominciaro e ad aver cura
come aiutarsi in tanta lor sciagura.
E proponendo in mezzo i lor pareri,
altre diceano: in Creta è da tornarsi;
e più tosto all’arbitrio de’ severi
padri e d’offesi lor mariti darsi,
che nei deserti liti e boschi fieri,
di disagio e di fame consumarsi.
Altre dicean che lor saria più onesto
affogarsi nel mar, che mai far questo;
e che manco mal era meretrici
andar pel mondo, andar mendiche o schiave,
che se stesse offerire agli supplici
di ch’eran degne l’opere lor prave.
Questi e simil partiti le infelici
si proponean, ciascun più duro e grave.
Tra loro al fine una Orontea levosse,
ch’origine traea dal re Minosse;
la più gioven de l’artre e la più bella
e la più accorta, e ch’avea meno errato:
amato avea Falanto, e a lui pulzella
datasi, e per lui il padre avea lasciato.
Costei mostrando in viso ed in favella
il magnanimo cor d’ira infiammato,
redarguendo di tutte altre il detto,
suo parer disse, e fe’ seguirne effetto.
Di questa terra a lei non parve torsi,
che conobbe feconda e d’aria sana,
e di limpidi fiumi aver discorsi,
di selve opaca, e la più parte piana;
con porti e foci, ove dal mar ricorsi
per ria fortuna avea la gente estrana,
ch’or d’Africa portava, ora d’Egitto
cose diverse e necessarie al vitto.
Qui parve a lei fermarsi, e far vendetta
del viril sesso che le avea sì offese:
vuol ch’ogni nave, che da venti astretta
a pigliar venga porto in suo paese,
a sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta;
né de la vita a un sol si sia cortese.
Così fu detto e così fu concluso,
e fu fatta la legge e messa in uso.
Come turbar l’aria sentiano, armate
le femine correan su la marina,
da l’implacabile Orontea guidate,
che diè lor legge e si fe’ lor regina:
e de le navi ai liti lor cacciate
faceano incendi orribili e rapina,
uom non lasciando vivo, che novella
dar ne potesse o in questa parte o in quella.
Così solinghe vissero qualch’anno
aspre nimiche del sesso virile:
ma conobbero poi, che ’l proprio danno
procaccierian, se non mutavan stile;
che se di lor propagine non fanno,
sarà lor legge in breve irrita e vile,
e mancherà con l’infecondo regno,
dove di farla eterna era il disegno.
Sì che, temprando il suo rigore un poco
scelsero, in spazio di quattro anni interi,
di quanti capitaro in questo loco
dieci belli e gagliardi cavallieri,
che per durar ne l’amoroso gioco
contr’esse cento fosser buon guerrieri.
Esse in tutto eran cento; e statuito
ad ogni lor decina fu un marito.
Prima ne fur decapitati molti
che riusciro al paragon mal forti.
Or questi dieci a buona pruova tolti,
del letto e del governo ebbon consorti;
facendo lor giurar che, se più colti
altri uomini verriano in questi porti,
essi sarian che, spenta ogni pietade,
li porriano ugualmente a fil di spade.
Ad ingrossare, ed a figliar appresso
le donne, indi a temere incominciaro
che tanti nascerian del viril sesso,
che contra lor non avrian poi riparo;
e al fine in man degli uomini rimesso
saria il governo ch’elle avean sì caro:
sì ch’ordinar, mentre eran gli anni imbelli,
far sì, che mai non fosson lor ribelli.
Acciò il sesso viril non le soggioghi,
uno ogni madre vuol la legge orrenda,
che tenga seco; gli altri, o li suffoghi,
o fuor del regno li permuti o venda.
Ne mandano per questo in vari luoghi:
e a chi gli porta dicono che prenda
femine, se a baratto aver ne puote;
se non, non torni almen con le man vote.
Né uno ancora alleverian, se senza
potesson fare, e mantenere il gregge.
Questa è quanta pietà, quanta clemenza
più ai suoi ch’agli altri usa l’iniqua legge:
gli altri condannan con ugual sentenza;
e solamente in questo si corregge,
che non vuol che, secondo il primiero uso,
le femine gli uccidano in confuso.
Se dieci o venti o più persone a un tratto
vi fosser giunte, in carcere eran messe:
e d’una al giorno, e non di più, era tratto
il capo a sorte, che perir dovesse
nel tempio orrendo ch’Orontea avea fatto,
dove un altare alla Vendetta eresse;
e dato all’un de’ dieci il crudo ufficio
per sorte era di farne sacrificio.
Dopo molt’anni alle ripe omicide
a dar venne di capo un giovinetto,
la cui stirpe scendea dal buono Alcide,
di gran valor ne l’arme, Elbanio detto.
Qui preso fu, ch’a pena se n’avide,
come quel che venìa senza sospetto;
e con gran guardia in stretta parte chiuso,
con gli altri era serbato al crudel uso.
Di viso era costui bello e giocondo,
e di maniere e di costumi ornato,
e di parlar sì dolce e sì facondo,
ch’un aspe volentier l’avria ascoltato:
sì che, come di cosa rara al mondo,
de l’esser suo fu tosto rapportato
ad Alessandra figlia d’Orontea,
che di molt’anni grave anco vivea.
Orontea vivea ancora; e già mancate
tutt’eran l’altre ch’abitar qui prima:
e diece tante e più n’erano nate,
e in forza eran cresciute e in maggior stima;
né tra diece fucine che serrate
stavan pur spesso, avean più d’una lima;
e dieci cavallieri anco avean cura
di dare a chi venìa fiera aventura.
Alessandra, bramosa di vedere
il giovinetto ch’avea tante lode,
da la sua matre in singular piacere
impetra sì, ch’Elbanio vede ed ode;
e quando vuol partirne, rimanere
si sente il core ove è chi ’l punge e rode:
legar si sente e non sa far contesa,
e al fin dal suo prigion si trova presa.
Elbanio disse a lei: — Se di pietade
s’avesse, donna, qui notizia ancora,
come se n’ha per tutt’altre contrade,
dovunque il vago sol luce e colora;
io vi osarei, per vostr’alma beltade
ch’ogn’animo gentil di sé inamora,
chiedervi in don la vita mia, che poi
saria ognor presto a spenderla per voi.
Or quando fuor d’ogni ragion qui sono
privi d’umanitade i cori umani,
non vi domanderò la vita in dono,
che i prieghi miei so ben che sarian vani;
ma che da cavalliero, o tristo o buono
ch’io sia, possi morir con l’arme in mani,
e non come dannato per giudicio,
o come animal bruto in sacrificio. —
Alessandra gentil, ch’umidi avea,
per la pietà del giovinetto, i rai,
rispose: — Ancor che più crudele e rea
sia questa terra, ch’altra fosse mai;
non concedo però che qui Medea
ogni femina sia, come tu fai:
e quando ogn’altra così fosse ancora,
me sola di tant’altre io vo’ trar fuora.
E se ben per adietro io fossi stata
empia e crudel, come qui sono tante,
dir posso che suggetto ove mostrata
per me fosse pietà, non ebbi avante.
Ma ben sarei di tigre più arrabbiata,
e più duro avre’ il cor che di diamante,
se non m’avesse tolto ogni durezza
tua beltà, tuo valor, tua gentilezza.
Così non fosse la legge più forte,
che contra i peregrini è statuita,
come io non schiverei con la mia morte
di ricomprar la tua più degna vita.
Ma non è grado qui di sì gran sorte,
che ti potesse dar libera aita;
e quel che chiedi ancor, ben che sia poco,
difficile ottener fia in questo loco.
Pur io vedrò di far che tu l’ottenga,
ch’abbi inanzi al morir questo contento;
ma mi dubito ben che te n’avenga,
tenendo il morir lungo, più tormento. —
Suggiunse Elbanio: — Quando incontra io venga
a dieci armato, di tal cor mi sento,
che la vita ho speranza di salvarme,
e uccider lor, se tutti fosser arme. —
Alessandra a quel detto non rispose
se non un gran sospiro, e dipartisse,
e portò nel partir mille amorose
punte nel cor, mai non sanabil, fisse.
Venne alla madre, e voluntà le pose
di non lasciar che ’l cavallier morisse,
quando si dimostrasse così forte,
che, solo, avesse posto i dieci a morte.
La regina Orontea fece raccorre
il suo consiglio, e disse: — A noi conviene
sempre il miglior che ritroviamo, porre
a guardar nostri porti e nostre arene;
e per saper chi ben lasciar, chi torre,
prova è sempre da far quando gli avviene;
per non patir con nostro danno a torto,
che regni il vile, e chi ha valor sia morto.
A me par, se a voi par, che statuito
sia, ch’ogni cavallier per lo avvenire,
che fortuna abbia tratto al nostro lito,
prima ch’al tempio si faccia morire,
possa egli sol, se gli piace il partito,
incontra i dieci alla battaglia uscire;
e se di tutti vincerli è possente,
guardi egli il porto, e seco abbia altra gente.
Parlo così, perché abbian qui un prigione
che par che vincer dieci s’offerisca.
Quando, sol, vaglia tante altre persone,
dignissimo è, per Dio, che s’esaudisca.
Così in contrario avrà punizione,
quando vaneggi e temerario ardisca. —
Orontea fine al suo parlar qui pose,
a cui de le più antique una rispose:
— La principal cagion ch’a far disegno
sul comercio degli uomini ci mosse,
non fu perch’a difender questo regno
del loro aiuto alcun bisogno fosse;
che per far questo abbiamo ardire e ingegno
da noi medesme, e a sufficienza posse:
così senza sapessimo far anco,
che non venisse il propagarci a manco!
Ma poi che senza lor questo non lece,
tolti abbiàn, ma non tanti, in compagnia,
che mai ne sia più d’uno incontra diece,
sì ch’aver di noi possa signoria.
Per conciper di lor questo si fece,
non che di lor difesa uopo ci sia.
La lor prodezza sol ne vaglia in questo,
e sieno ignavi e inutili nel resto.
Tra noi tenere un uom che sia sì forte,
contrario è in tutto al principal disegno.
Se può un solo a dieci uomini dar morte,
quante donne farà stare egli al segno?
Se i dieci nostri fosser di tal sorte,
il primo dì n’avrebbon tolto il regno.
Non è la via di dominar, se vuoi
por l’arme in mano a chi può più di noi.
Pon mente ancor, che quando così aiti
Fortuna questo tuo, che i dieci uccida,
di cento donne che de’ lor mariti
rimarran prive, sentirai le grida.
Se vuol campar, proponga altri partiti,
ch’esser di dieci gioveni omicida.
Pur, se per far con cento donne è buono
quel che dieci fariano, abbi perdono. —
Fu d’Artemia crudel questo il parere
(così avea nome), e non mancò per lei
di far nel tempio Elbanio rimanere
scannato inanzi agli spietati dèi.
Ma la madre Orontea che compiacere
volse alla figlia, replicò a colei
altre ed altre ragioni, e modo tenne
che nel senato il suo parer s’ottenne.
L’aver Elbanio di bellezza il vanto
sopra ogni cavallier che fosse al mondo,
fu nei cor de le giovani di tanto,
ch’erano in quel consiglio, e di tal pondo,
che ’l parer de le vecchie andò da canto,
che con Artemia volean far secondo
l’ordine antiquo; né lontan fu molto
ad esser per favore Elbanio assolto.
Di perdonargli in somma fu concluso,
ma poi che la decina avesse spento,
e che ne l’altro assalto fosse ad uso
di diece donne buono, e non di cento.
Di carcer l’altro giorno fu dischiuso;
e avuto arme e cavallo a suo talento,
contra dieci guerrier, solo, si mise,
e l’uno appresso all’altro in piazza uccise.
Fu la notte seguente a prova messo
contra diece donzelle ignudo e solo,
dove ebbe all’ardir suo sì buon successo,
che fece il saggio di tutto lo stuolo.
E questo gli acquistò tal grazia appresso
ad Orontea, che l’ebbe per figliuolo;
e gli diede Alessandra e l’altre nove
con ch’avea fatto le notturne prove.
E lo lasciò con Alessandra bella,
che poi diè nome a questa terra, erede,
con patto, ch’a servare egli abbia quella
legge, ed ogn’altro che da lui succede:
che ciascun che già mai sua fiera stella
farà qui por lo sventurato piede,
elegger possa, o in sacrificio darsi,
o con dieci guerrier, solo, provarsi.
E se gli avvien che ’l dì gli uomini uccida,
la notte con le femine si provi;
e quando in questo ancor tanto gli arrida
la sorte sua, che vincitor si trovi,
sia del femineo stuol principe e guida,
e la decina a scelta sua rinovi,
con la qual regni, fin ch’un altro arrivi,
che sia più forte, e lui di vita privi.
Appresso a duamila anni il costume empio
si è mantenuto, e si mantiene ancora;
e sono pochi giorni che nel tempio
uno infelice peregrin non mora.
Se contra dieci alcun chiede, ad esempio
d’Elbanio, armarsi (che ve n’è talora),
spesso la vita al primo assalto lassa;
né di mille uno all’altra prova passa.
Pur ci passano alcuni, ma sì rari,
che su le dita annoverar si ponno.
Uno di questi fu Argilon: ma guari
con la decina sua non fu qui donno;
che cacciandomi qui venti contrari,
gli occhi gli chiusi in sempiterno sonno.
Così fossi io con lui morto quel giorno,
prima che viver servo in tanto scorno.
Che piaceri amorosi e riso e gioco,
che suole amar ciascun de la mia etade,
le purpure e le gemme e l’aver loco
inanzi agli altri ne la sua cittade,
potuto hanno, per Dio, mai giovar poco
all’uom che privo sia di libertade:
e ’l non poter mai più di qui levarmi,
servitù grave e intolerabil parmi.
Il vedermi lograr dei miglior anni
il più bel fiore in sì vile opra e molle,
tiemmi il cor sempre in stimulo e in affanni,
ed ogni gusto di piacer mi tolle.
La fama del mio sangue spiega i vanni
per tutto ’l mondo, e fin al ciel s’estolle;
che forse buona parte anch’io n’avrei,
s’esser potessi coi fratelli miei.
Parmi ch’ingiuria il mio destin mi faccia,
avendomi a sì vil servigio eletto;
come chi ne l’armento il destrier caccia,
il qual d’occhi o di piedi abbia difetto,
o per altro accidente che dispiaccia,
sia fatto all’arme e a miglior uso inetto:
né sperando io, se non per morte, uscire
di sì vil servitù, bramo morire. —
Guidon qui fine alle parole pose,
e maledì quel giorno per isdegno,
il qual dei cavallieri e de le spose
gli diè vittoria in acquistar quel regno.
Astolfo stette a udire, e si nascose
tanto, che si fe’ certo a più d’un segno,
che, come detto avea, questo Guidone
era figliol del suo parente Amone.
Poi gli rispose: — Io sono il duca inglese,
il tuo cugino Astolfo; — ed abbracciollo,
e con atto amorevole e cortese,
non senza sparger lagrime, baciollo.
— Caro parente mio, non più palese
tua madre ti potea por segno al collo;
ch’a farne fede che tu sei de’ nostri,
basta il valor che con la spada mostri. —
Guidon, ch’altrove avria fatto gran festa
d’aver trovato un sì stretto parente,
quivi l’accolse con la faccia mesta,
perché fu di vedervilo dolente.
Se vive, sa ch’Astolfo schiavo resta,
né il termine è più là che ’l dì seguente;
se fia libero Astolfo, ne more esso:
sì che ’l ben d’uno è il mal de l’altro espresso.
Gli duol che gli altri cavallieri ancora
abbia, vincendo, a far sempre captivi;
né più, quando esso in quel contrasto mora,
potrà giovar che servitù lor schivi:
che se d’un fango ben gli porta fuora,
e poi s’inciampi come all’altro arrivi,
avrà lui senza pro vinto Marfisa;
ch’essi pur ne fien schiavi, ed ella uccisa.
Da l’altro canto avea l’acerba etade,
la cortesia e il valor del giovinetto
d’amore intenerito e di pietade
tanto a Marfisa ed ai compagni il petto,
che, con morte di lui lor libertade
esser dovendo, avean quasi a dispetto:
e se Marfisa non può far con manco
ch’uccider lui, vuol essa morir anco.
Ella disse a Guidon: — Vientene insieme
con noi, ch’a viva forza usciren quinci. —
— Deh (rispose Guidon) lascia ogni speme
di mai più uscirne, o perdi meco o vinci. —
Ella suggiunse: — Il mio cor mai non teme
di non dar fine a cosa che cominci;
né trovar so la più sicura strada
di quella ove mi sia guida la spada.
Tal ne la piazza ho il tuo valor provato,
che, s’io son teco, ardisco ad ogn’impresa.
Quando la turba intorno allo steccato
sarà domani in sul teatro ascesa,
io vo’ che l’uccidian per ogni lato,
o vada in fuga o cerchi far difesa,
e ch’agli lupi e agli avoltoi del loco
lasciamo i corpi, e la cittade al fuoco. —
Suggiunse a lei Guidon: — Tu m’avrai pronto
a seguitarti ed a morirti a canto,
ma vivi rimaner non facciàn conto;
bastar ne può di vendicarci alquanto:
che spesso diecimila in piazza conto
del popul feminile, ed altretanto
resta a guardare e porto e rocca e mura,
né alcuna via d’uscir trovo sicura. —
Disse Marfisa: — E molto più sieno elle
degli uomini che Serse ebbe già intorno,
e sieno più de l’anime ribelle
ch’uscir del ciel con lor perpetuo scorno;
se tu sei meco, o almen non sie con quelle,
tutte le voglio uccidere in un giorno. —
Guidon suggiunse: — Io non ci so via alcuna
ch’a valer n’abbia, se non val quest’una.
Ne può sola salvar, se ne succede,
quest’una ch’io dirò, ch’or mi soviene.
Fuor ch’alle donne, uscir non si concede,
né metter piede in su le salse arene:
e per questo commettermi alla fede
d’una de le mie donne mi conviene,
del cui perfetto amor fatta ho sovente
più pruova ancor, ch’io non farò al presente.
Non men di me tormi costei disia
di servitù, pur che ne venga meco,
che così spera, senza compagnia
de le rivali sue, ch’io viva seco.
Ella nel porto o fuste o saettia
farà ordinar, mentre è ancor l’aer cieco,
che i marinai vostri troveranno
acconcia a navigar, come vi vanno.
Dietro a me tutti in un drappel ristretti,
cavallieri, mercanti e galeotti,
ch’ad albergarvi sotto a questi tetti
meco, vostra merce, sète ridotti,
avrete a farvi amplo sentier coi petti,
se del nostro camin siamo interrotti:
così spero, aiutandoci le spade,
ch’io vi trarrò de la crudel cittade. —
— Tu fa come ti par (disse Marfisa),
ch’io son per me d’uscir di qui sicura.
Più facil fia che di mia mano uccisa
la gente sia, che è dentro a queste mura,
che mi veggi fuggire, o in altra guisa
alcun possa notar ch’abbi paura.
Vo’ uscir di giorno, e sol per forza d’arme;
che per ogn’altro modo obbrobrio parme.
S’io ci fossi per donna conosciuta,
so ch’avrei da le donne onore e pregio;
e volentieri io ci sarei tenuta
e tra le prime forse del collegio:
ma con costoro essendoci venuta,
non ci vo’ d’essi aver più privilegio.
Troppo error fôra ch’io mi stessi o andassi
libera, e gli altri in servitù lasciassi. —
Queste parole ed altre seguitando,
mostrò Marfisa che ’l rispetto solo
ch’avea al periglio de’ compagni (quando
potria loro il suo ardir tornare in duolo),
la tenea che con alto e memorando
segno d’ardir non assalia lo stuolo:
e per questo a Guidon lascia la cura
d’usar la via che più gli par sicura.
Guidon la notte con Aleria parla
(così avea nome la più fida moglie),
né bisogno gli fu molto pregarla,
che la trovò disposta alle sue voglie.
Ella tolse una nave e fece armarla,
e v’arrecò le sue più ricche spoglie,
fingendo di volere al nuovo albore
con le compagne uscire in corso fuore.
Ella avea fatto nel palazzo inanti
spade e lance arrecar, corazze e scudi,
onde armar si potessero i mercanti
e i galeotti ch’eran mezzo nudi.
Altri dormiro, ed altri ster vegghianti,
compartendo tra lor gli ozi e gli studi;
spesso guardando, e pur con l’ arme indosso,
se l’oriente ancor si facea rosso.
Dal duro volto de la terra il sole
non tollea ancora il velo oscuro ed atro;
a pena avea la licaonia prole
per li solchi del ciel volto l’aratro:
quando il femineo stuol, che veder vuole
il fin de la battaglia, empì il teatro,
come ape del suo claustro empie la soglia,
che mutar regno al nuovo tempo voglia.
Di trombe, di tambur, di suon de corni
il popul risonar fa cielo e terra,
così citando il suo signor, che torni
a terminar la cominciata guerra.
Aquilante e Grifon stavano adorni
de le lor arme, e il duca d’Inghilterra,
Guidon, Marfisa, Sansonetto e tutti
gli altri, chi a piedi e chi a cavallo istrutti.
Per scender dal palazzo al mare e al porto,
la piazza traversar si convenia,
né v’era altro camin lungo né corto:
così Guidon disse alla compagnia.
E poi che di ben far molto conforto
lor diede, entrò senza rumore in via;
e ne la piazza, dove il popul era,
s’appresentò con più di cento in schiera.
Molto affrettando i suoi compagni, andava
Guidone all’altra porta per uscire:
ma la gran moltitudine che stava
intorno armata, e sempre atta a ferire,
pensò, come lo vide che menava
seco quegli altri, che volea fuggire;
e tutta a un tratto agli archi suoi ricorse,
e parte, onde s’uscia, venne ad opporse.
Guidone e gli altri cavallier gagliardi,
e sopra tutti lor Marfisa forte,
al menar de le man non furon tardi,
e molto fer per isforzar le porte:
ma tanta e tanta copia era dei dardi
che, con ferite dei compagni e morte,
pioveano lor di sopra e d’ogn’intorno,
ch’al fin temean d’averne danno e scorno.
D’ogni guerrier l’usbergo era perfetto;
che se non era, avean più da temere.
Fu morto il destrier sotto a Sansonetto;
quel di Marfisa v’ebbe a rimanere.
Astolfo tra sé disse: — Ora, ch’aspetto
che mai mi possa il corno più valere?
Io vo’ veder, poi che non giova spada,
s’io so col corno assicurar la strada. —
Come aiutar ne le fortune estreme
sempre si suol, si pone il corno a bocca.
Par che la terra e tutto ’l mondo trieme,
quando l’orribil suon ne l’aria scocca.
Sì nel cor de la gente il timor preme,
che per disio di fuga si trabocca
giù del teatro sbigottita e smorta,
non che lasci la guardia de la porta.
Come talor si getta e si periglia
e da finestra e da sublime loco
l’esterrefatta subito famiglia,
che vede appresso e d’ogn’intorno il fuoco,
che mentre le tenea gravi le ciglia
il pigro sonno, crebbe a poco a poco:
così messa la vita in abandono,
ognun fuggia lo spaventoso suono.
Di qua di là, di su di giù smarrita
surge la turba, e di fuggir procaccia.
Son più di mille a un tempo ad ogni uscita:
cascano a monti, e l’una l’altra impaccia.
In tanta calca perde altra la vita;
da palchi e da finestre altra si schiaccia:
più d’un braccio si rompe e d’una testa,
di ch’altra morta, altra storpiata resta.
Il pianto e ’l grido insino al ciel saliva,
d’alta ruina misto e di fraccasso.
Affretta, ovunque il suon del corno arriva,
la turba spaventata in fuga il passo.
Se udite dir che d’ardimento priva
la vil plebe si mostri e di cor basso,
non vi maravigliate, che natura
è de la lepre aver sempre paura.
Ma che direte del già tanto fiero
cor di Marfisa e di Guidon Selvaggio?
dei dua giovini figli d’Oliviero,
che già tanto onoraro il lor lignaggio?
Già centomila avean stimato un zero;
e in fuga or se ne van senza coraggio,
come conigli, o timidi colombi
a cui vicino alto rumor rimbombi.
Così noceva ai suoi come agli strani
la forza che nel corno era incantata.
Sansonetto, Guidone e i duo germani
fuggon dietro a Marfisa spaventata;
né fuggendo ponno ir tanto lontani,
che lor non sia l’orecchia anco intronata.
Scorre Astolfo la terra in ogni lato,
dando via sempre al corno maggior fiato.
Chi scese al mare, e chi poggiò su al monte,
e chi tra i boschi ad occultar si venne:
alcuna, senza mai volger la fronte,
fuggir per dieci dì non si ritenne:
uscì in tal punto alcuna fuor del ponte,
ch’in vita sua mai più non vi rivenne.
Sgombraro in modo e piazze e templi e case,
che quasi vota la città rimase.
Marfisa e ’l bon Guidone e i duo fratelli
e Sansonetto, pallidi e tremanti,
fuggiano inverso il mare, e dietro a quelli
fuggian i marinari e i mercatanti;
ove Aleria trovar, che, fra i castelli,
loro avea un legno apparecchiato inanti.
Quindi, poi ch’in gran fretta li raccolse,
diè i remi all’acqua ed ogni vela sciolse.
Dentro e d’intorno il duca la cittade
avea scorsa dai colli insino all’onde;
fatto avea vote rimaner le strade:
ognun lo fugge, ognun se gli nasconde.
Molte trovate fur, che per viltade
s’eran gittate in parti oscure e immonde;
e molte, non sappiendo ove s’andare,
messesi a nuoto ed affogate in mare.
Per trovare i compagni il duca viene,
che si credea di riveder sul molo.
Si volge intorno, e le deserte arene
guarda per tutto, e non v’appare un solo.
Leva più gli occhi, e in alto a vele piene
da sé lontani andar li vede a volo:
sì che gli convien fare altro disegno
al suo camin, poi che partito è il legno.
Lasciamolo andar pur — né vi rincresca
che tanta strada far debba soletto
per terra d’infedeli e barbaresca,
dove mai non si va senza sospetto:
non è periglio alcuno, onde non esca
con quel suo corno, e n’ha mostrato effetto; —
e dei compagni suoi pigliamo cura,
ch’al mar fuggian tremando di paura.
A piena vela si cacciaron lunge
da la crudele e sanguinosa spiaggia:
e poi che di gran lunga non li giunge
l’orribil suon ch’a spaventar più gli aggia,
insolita vergogna sì gli punge,
che, com’un fuoco, a tutti il viso raggia.
L’un non ardisce a mirar l’altro, e stassi
tristo, senza parlar, con gli occhi bassi.
Passa il nocchiero, al suo viaggio intento,
e Cipro e Rodi, e giù per l’onda egea
da sé vede fuggire isole cento
col periglioso capo di Malea;
e con propizio ed immutabil vento
asconder vede la greca Morea;
volta Sicilia, e per lo mar Tirreno
costeggia de l’Italia il lito ameno:
e sopra Luna ultimamente sorse,
dove lasciato avea la sua famiglia.
Dio ringraziando che ’l pelago corse
senza più danno, il noto lito piglia.
Quindi un nochier trovar per Francia sciorse,
il qual di venir seco li consiglia:
e nel suo legno ancor quel dì montaro,
ed a Marsilia in breve si trovaro.
Quivi non era Bradamante allora,
ch’aver solea governo del paese;
che se vi fosse, a far seco dimora
gli avria sforzati con parlar cortese.
Sceser nel lito, e la medesima ora
dai quattro cavallier congedo prese
Marfisa, e da la donna del Selvaggio;
e pigliò alla ventura il suo viaggio,
dicendo che lodevole non era
ch’andasser tanti cavallieri insieme:
che gli storni e i colombi vanno in schiera,
i daini e i cervi e ogn’animal che teme;
ma l’audace falcon, l’aquila altiera,
che ne l’aiuto altrui non metton speme
orsi, tigri, leon, soli ne vanno;
che di più forza alcun timor non hanno.
Nessun degli altri fu di quel pensiero;
sì ch’a lei sola toccò a far partita.
Per mezzo i boschi e per strano sentiero
dunque ella se n’andò sola e romita.
Grifone il bianco ed Aquilante il nero
pigliar con gli altri duo la via più trita,
e giunsero a un castello il dì seguente,
dove albergati fur cortesemente.
Cortesemente dico in apparenza,
ma tosto vi sentir contrario effetto;
che ’l signor del castel, benivolenza
fingendo e cortesia, lor dè ricetto:
e poi la notte, che sicuri senza
timor dormian, gli fe’ pigliar nel letto;
né prima li lasciò, che d’osservare
una costuma ria li fe’ giurare.
Ma vo’ seguir la bellicosa donna,
prima, Signor, che di costor più dica.
Passò Druenza, il Rodano e la Sonna,
e venne a piè d’una montagna aprica.
Quivi lungo un torrente, in negra gonna
vide venire una femina antica,
che stanca e lassa era di lunga via,
ma via più afflitta di malenconia.
Questa è la vecchia che solea servire
ai malandrin nel cavernoso monte,
là dove alta giustizia fe’ venire
e dar lor morte il paladino conte.
La vecchia, che timore ha di morire
per le cagion che poi vi saran conte,
già molti dì va per via oscura e fosca,
fuggendo ritrovar chi la conosca.
Quivi d’estrano cavallier sembianza
l’ebbe Marfisa all’abito e all’arnese;
e perciò non fuggì, com’avea usanza
fuggir dagli altri ch’eran del paese;
anzi con sicurezza e con baldanza
si fermò al guado, e di lontan l’attese:
al guado del torrente, ove trovolla,
la vecchia le uscì incontra e salutolla.
Poi la pregò che seco oltr’a quell’acque
ne l’altra ripa in groppa la portasse.
Marfisa che gentil fu da che nacque,
di là dal fiumicel seco la trasse;
e portarla anch’un pezzo non le spiacque,
fin ch’a miglior camin la ritornasse,
fuor d’un gran fango; e al fin di quel sentiero
si videro all’incontro un cavalliero.
Il cavallier su ben guernita sella,
di lucide arme e di bei panni ornato,
verso il fiume venìa da una donzella
e da un solo scudiero accompagnato.
La donna ch’avea seco era assai bella,
ma d’altiero sembiante e poco grato,
tutta d’orgoglio e di fastidio piena,
del cavallier ben degna che la mena.
Pinabello, un de’ conti maganzesi,
era quel cavallier ch’ella avea seco;
quel medesmo che dianzi a pochi mesi
Bradamante gittò nel cavo speco.
Quei sospir, quei singulti così accesi,
quel pianto che lo fe’ già quasi cieco,
tutto fu per costei ch’or seco avea,
che ’l negromante allor gli ritenea.
Ma poi che fu levato di sul colle
l’incantato castel del vecchio Atlante,
e che poté ciascuno ire ove volle,
per opra e per virtù di Bradamante;
costei, ch’agli disii facile e molle
di Pinabel sempre era stata inante,
si tornò a lui, ed in sua compagnia
da un castello ad un altro or se ne gìa.
E sì come vezzosa era e mal usa,
quando vide la vecchia di Marfisa,
non si poté tenere a bocca chiusa
di non la motteggiar con beffe e risa.
Marfisa altiera, appresso a cui non s’usa
sentirsi oltraggio in qualsivoglia guisa,
rispose d’ira accesa alla donzella,
che di lei quella vecchia era più bella;
e ch’al suo cavallier volea provallo,
con patto di poi torre a lei la gonna
e il palafren ch’avea, se da cavallo
gittava il cavallier di ch’era donna.
Pinabel che faria, tacendo, fallo,
di risponder con l’arme non assonna:
piglia lo scudo e l’asta, e il destrier gira,
poi vien Marfisa a ritrovar con ira.
Marfisa incontra una gran lancia afferra,
e ne la vista a Pinabel l’arresta,
e sì stordito lo riversa in terra,
che tarda un’ora a rilevar la testa.
Marfisa vincitrice de la guerra,
fe’ trarre a quella giovane la vesta,
ed ogn’altro ornamento le fe’ porre,
e ne fe’ il tutto alla sua vecchia torre:
e di quel giovenile abito volse
che si vestisse e se n’ornasse tutta;
e fe’ che ’l palafreno anco si tolse,
che la giovane avea quivi condutta.
Indi al preso camin con lei si volse,
che quant’era più ornata, era più brutta.
Tre giorni se n’andar per lunga strada,
senza far cosa onde a parlar m’accada.
Il quarto giorno un cavallier trovaro,
che venìa in fretta galoppando solo.
Se di saper chi sia forse v’è caro,
dicovi ch’è Zerbin, di re figliuolo,
di virtù esempio e di bellezza raro,
che se stesso rodea d’ira e di duolo
di non aver potuto far vendetta
d’un che gli avea gran cortesia interdetta.
Zerbino indarno per la selva corse
dietro a quel suo che gli avea fatto oltraggio;
ma sì a tempo colui seppe via torse,
sì seppe nel fuggir prender vantaggio,
sì il bosco e sì una nebbia lo soccorse,
ch’avea offuscato il matutino raggio,
che di man di Zerbin si levò netto,
fin che l’ira e il furor gli uscì del petto.
Non poté, ancor che Zerbin fosse irato,
tener, vedendo quella vecchia, il riso;
che gli parea dal giovenile ornato
troppo diverso il brutto antiquo viso;
ed a Marfisa, che le venìa a lato,
disse: — Guerrier, tu sei pien d’ogni aviso,
che damigella di tal sorte guidi,
che non temi trovar chi te la invidi.
Avea la donna (se la crespa buccia
può darne indicio) più de la Sibilla,
e parea, così ornata, una bertuccia,
quando per muover riso alcun vestilla;
ed or più brutta par, che si coruccia,
e che dagli occhi l’ira le sfavilla:
ch’a donna non si fa maggior dispetto,
che quando o vecchia o brutta le vien detto.
Mostrò turbarse l’inclita donzella,
per prenderne piacer, come si prese;
e rispose a Zerbin: — Mia donna è bella,
per Dio, via più che tu non sei cortese;
come ch’io creda che la tua favella
da quel che sente l’animo non scese:
tu fingi non conoscer sua beltade,
per escusar la tua somma viltade.
E chi saria quel cavallier, che questa
sì giovane e sì bella ritrovasse
senza più compagnia ne la foresta,
e che di farla sua non si provasse? —
— Sì ben (disse Zerbin) teco s’assesta,
che saria mal ch’alcun te la levasse;
ed io per me non son così indiscreto,
che te ne privi mai; stanne pur lieto.
S’in altro conto aver vuoi a far meco,
di quel ch’io vaglio son per farti mostra;
ma per costei non mi tener sì cieco,
che solamente far voglia una giostra.
O brutta o bella sia, restisi teco:
non vo’ partir tanta amicizia vostra.
Ben vi sète accoppiati: io giurerei,
com’ella è bella, tu gagliardo sei. —
Suggiunse a lui Marfisa: — Al tuo dispetto
di levarmi costei provar convienti.
Non vo’ patir ch’un sì leggiadro aspetto
abbi veduto, e guadagnar nol tenti. —
Rispose a lei Zerbin — Non so a ch’effetto
l’uom si metta a periglio e si tormenti,
per riportarne una vittoria, poi,
che giovi al vinto, e al vincitore annoi. —
— Se non ti par questo partito buono,
te ne do un altro, e ricusar nol dei
(disse a Zerbin Marfisa): che s’io sono
vinto da te, m’abbia a restar costei;
ma s’io te vinco, a forza te la dono.
Dunque provian chi de’ star senza lei:
se perdi, converrà che tu le faccia
compagnia sempre, ovunque andar le piaccia. —
— E così sia, — Zerbin rispose; e volse
a pigliar campo subito il cavallo.
Si levò su le staffe e si raccolse
fermo in arcione, e per non dare in fallo,
lo scudo in mezzo alla donzella colse;
ma parve urtasse un monte di metallo:
ed ella in guisa a lui toccò l’elmetto,
che stordito il mandò di sella netto.
Troppo spiacque a Zerbin l’esser caduto,
ch’in altro scontro mai più non gli avvenne,
e n’avea mille e mille egli abbattuto;
ed a perpetuo scorno se lo tenne.
Stette per lungo spazio in terra muto;
e più gli dolse poi che gli sovenne
ch’avea promesso e che gli convenia
aver la brutta vecchia in compagnia.
Tornando a lui la vincitrice in sella,
disse ridendo: — Questa t’appresento;
e quanto più la veggio e grata e bella,
tanto, ch’ella sia tua, più mi contento.
Or tu in mio loco sei campion di quella;
ma la tua fé non se ne porti il vento,
che per sua guida e scorta tu non vada
(come hai promesso) ovunque andar l’aggrada. —
Senza aspettar risposta urta il destriero
per la foresta, e subito s’imbosca.
Zerbin, che la stimava un cavalliero,
dice alla vecchia: — Fa ch’io lo conosca. —
Ed ella non gli tiene ascoso il vero,
onde sa che lo ’ncende e che l’attosca:
— Il colpo fu di man d’una donzella,
che t’ha fatto votar (disse) la sella.
Per suo valor costei debitamente
usurpa a’ cavallieri e scudo e lancia;
e venuta è pur dianzi d’Oriente
per assaggiare i paladin di Francia. —
Zerbin di questo tal vergogna sente,
che non pur tinge di rossor la guancia,
ma restò poco di non farsi rosso
seco ogni pezzo d’arme ch’avea indosso.
Monta a cavallo, e se stesso rampogna
che non seppe tener strette le cosce.
Tra sé la vecchia ne sorride, e agogna
di stimularlo e di più dargli angosce.
Gli ricorda ch’andar seco bisogna:
e Zerbin, ch’ubligato si conosce,
l’orecchie abbassa, come vinto e stanco
destrier c’ha in bocca il fren, gli sproni al fianco.
E sospirando: — Ohimè, Fortuna fella
(dicea), che cambio è questo che tu fai?
Colei che fu sopra le belle bella,
ch’esser meco dovea, levata m’hai.
Ti par ch’in luogo ed in ristor di quella
si debba por costei ch’ora mi dai?
Stare in danno del tutto era men male,
che fare un cambio tanto diseguale.
Colei che di bellezze e di virtuti
unqua non ebbe e non avrà mai pare,
sommersa e rotta tra gli scogli acuti
hai data ai pesci ed agli augei del mare;
e costei che dovria già aver pasciuti
sotterra i vermi, hai tolta a perservare
dieci o venti anni più che non devevi,
per dar più peso agli mie’ affanni grevi. —
Zerbin così parlava; né men tristo
in parole e in sembianti esser parea
di questo nuovo suo sì odioso acquisto,
che de la donna che perduta avea.
La vecchia, ancor che non avesse visto
mai più Zerbin, per quel ch’ora dicea,
s’avvide esser colui di che notizia
le diede già Issabella di Galizia.
Se ’l vi ricorda quel ch’avete udito,
costei da la spelonca ne veniva,
dove Issabella, che d’amor ferito
Zerbino avea, fu molti dì captiva.
Più volte ella le avea già riferito
come lasciasse la paterna riva,
e come rotta in mar da la procella,
si salvasse alla spiaggia di Rocella.
E sì spesso dipinto di Zerbino
le avea il bel viso e le fattezze conte,
ch’ora udendol parlare, e più vicino
gli occhi alzandogli meglio ne la fronte,
vide esser quel per cui sempre meschino
fu d’Issabella il cor nel cavo monte;
che di non veder lui più si lagnava,
che d’esser fatta ai malandrini schiava.
La vecchia, dando alle parole udienza,
che con sdegno e con duol Zerbino versa,
s’avede ben ch’egli ha falsa credenza
che sia Issabella in mar rotta e sommersa:
e ben ch’ella del certo abbia scienza,
per non lo rallegrar, pur la perversa
quel che far lieto lo potria, gli tace,
e sol gli dice quel che gli dispiace.
— Odi tu (gli disse ella), tu che sei
cotanto altier, che sì mi scherni e sprezzi,
se sapessi che nuova ho di costei
che morta piangi, mi faresti vezzi:
ma più tosto che dirtelo, torrei
che mi strozzassi o fêssi in mille pezzi;
dove, s’eri vêr me più mansueto,
forse aperto t’avrei questo secreto. —
Come il mastin che con furor s’aventa
adosso al ladro, ad achetarsi è presto,
che quello o pane o cacio gli appresenta,
o che fa incanto appropriato a questo;
così tosto Zerbino umil diventa,
e vien bramoso di sapere il resto,
che la vecchia gli accenna che di quella,
che morta piange, gli sa dir novella.
E volto a lei con più piacevol faccia,
la supplica, la prega, la scongiura
per gli uomini, per Dio, che non gli taccia
quanto ne sappia, o buona o ria ventura.
— Cosa non udirai che pro ti faccia
(disse la vecchia pertinace e dura):
non è Issabella, come credi, morta;
ma viva sì, ch’a’ morti invidia porta.
È capitata in questi pochi giorni
che non n’udisti, in man di più di venti;
sì che, qualora anco in man tua ritorni,
ve’ se sperar di corre il fior convienti. —
Ah vecchia maladetta, come adorni
la tua menzogna! e tu sai pur se menti.
Se ben in man de venti ell’era stata,
non l’avea alcun però mai violata.
Dove l’avea veduta domandolle
Zerbino, e quando, ma nulla n’invola;
che la vecchia ostinata più non volle
a quel c’ha detto aggiungere parola.
Prima Zerbin le fece un parlar molle,
poi minacciolle di tagliar la gola:
ma tutto è invan ciò che minaccia e prega;
che non può far parlar la brutta strega.
Lasciò la lingua all’ultimo in riposo
Zerbin, poi che ’l parlar gli giovò poco;
per quel ch’udito avea, tanto geloso,
che non trovava il cor nel petto loco;
d’Issabella trovar sì disioso,
che saria per vederla ito nel fuoco:
ma non poteva andar più che volesse
colei, poi ch’a Marfisa lo promesse.
E quindi per solingo e strano calle,
dove a lei piacque, fu Zerbin condotto;
né per o poggiar monte o scender valle,
mai si guardaro in faccia o si fer motto.
Ma poi ch’al mezzodì volse le spalle
il vago sol, fu il lor silenzio rotto
da un cavallier che nel cammin scontraro.
Quel che seguì, ne l’altro canto è chiaro.