Tondo è il ricco edificio, e nel piú chiuso
grembo di lui, ché quasi centro al giro,
un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso
di quanti piú famosi unqua fioriro.
D’intorno inosservabile e confuso
ordin di loggie i demon fabri ordiro,
e tra le oblique vie di quel fallace
ravolgimento impenetrabil giace.
Per l’entrata maggior (però che cento
l’ampio albergo n’avea) passàr costoro.
Le porte qui d’effigiato argento
su i cardini stridean di lucid’oro.
Fermàr ne le figure il guardo intento,
ché vinta la materia è dal lavoro:
manca il parlar, di vivo altro non chiedi;
né manca questo ancor, s’a gli occhi credi.
Mirasi qui fra le meonie ancelle
favoleggiar con le conocchia Alcide.
Se l’inferno espugnò, resse le stelle,
or torce il fuso; Amor se ’l guarda, e ride.
Mirasi Iole con la destra imbelle
per ischerno trattar l’armi omicide;
e indosso ha il cuoio del leon, che sembra
ruvido troppo a sí tenere membra.
D’incontra è un mare, e di canuto flutto
vedi spumanti i suoi cerulei campi.
Vedi nel mezzo un doppio ordine instrutto
di navi e d’arme, e uscir da l’arme i lampi.
D’oro fiammeggia l’onda, e par che tutto
d’incendio marzial Leucate avampi.
Quinci Augusto i Romani, Antonio quindi
trae l’Oriente: Egizi, Arabi ed Indi.
Svelte notar le Cicladi diresti
per l’onde, e i monti co i gran monti urtarsi;
l’impeto è tanto, onde quei vanno e questi
co’ legni torreggianti ad incontrarsi.
Già volàr faci e dardi, e già funesti
sono di nova strage i mari sparsi.
Ecco (né punto ancor la pugna inchina)
ecco fuggir la barbara reina.
E fugge Antonio, e lasciar può la speme
de l’imperio del mondo ov’egli aspira.
Non fugge no, non teme il fier, non teme,
ma segue lei che fugge e seco il tira.
Vedresti lui, simile ad uom che freme
d’amore a un tempo e di vergogna e d’ira,
mirar alternamente or la crudele
pugna ch’è in dubbio, or le fuggenti vele.
Ne le latebre poi del Nilo accolto
attender par in grembo a lei la morte,
e nel piacer d’un bel leggiadro volto
sembra che ’l duro fato egli conforte.
Di cotai segni variato e scolto
era il metallo de le regie porte.
I due guerrier, poi che dal vago obietto
rivolser gli occhi, entràr nel dubbio tetto.
Qual Meandro fra rive oblique e incerte
scherza e con dubbio corso or cala or monta,
queste acque a i fonti e quelle al mar converte,
e mentre ei vien, sé che ritorna affronta,
tali e piú inestricabili conserte
son queste vie, ma il libro in sé le impronta
(il libro, don del mago) e d’esse in modo
parla che le risolve, e spiega il nodo.
Poi che lasciàr gli aviluppati calli,
in lieto aspetto il bel giardin s’aperse:
acque stagnanti, mobili cristalli,
fior vari e varie piante, erbe diverse,
apriche collinette, ombrose valli,
selve e spelonche in una vista offerse;
e quel che ’l bello e ’l caro accresce a l’opre,
l’arte, che tutto fa, nulla si scopre.
Stimi (sí misto il culto è co ’l negletto)
sol naturali e gli ornamenti e i siti.
Di natura arte par, che per diletto
l’imitatrice sua scherzando imiti.
L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto,
l’aura che rende gli alberi fioriti:
co’ fiori eterni eterno il frutto dura,
e mentre spunta l’un, l’altro matura.
Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia
sovra il nascente fico invecchia il fico;
pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
l’altro con verde, il novo e ’l pomo antico;
lussureggiante serpe alto e germoglia
la torta vite ov’è piú l’orto aprico:
qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have
e di piropo e già di nèttar grave.
Vezzosi augelli infra le verdi fronde
temprano a prova lascivette note;
mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde
garrir che variamente ella percote.
Quando taccion gli augelli alto risponde,
quando cantan gli augei piú lieve scote;
sia caso od arte, or accompagna, ed ora
alterna i versi lor la musica òra.
Vola fra gli altri un che le piume ha sparte
di color vari ed ha purpureo il rostro,
e lingua snoda in guisa larga, e parte
la voce sí ch’assembra il sermon nostro.
Questi ivi allor continovò con arte
tanta il parlar che fu mirabil mostro.
Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,
e fermaro i susurri in aria i venti.
"Deh mira" egli cantò "spuntar la rosa
dal verde suo modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
quanto si mostra men, tanto è piú bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega; ecco poi langue e non par quella,
quella non par che desiata inanti
fu da mille donzelle e mille amanti.
Cosí trapassa al trapassar d’un giorno
de la vita mortale il fiore e ’l verde;
né perché faccia indietro april ritorno,
si rinfiora ella mai, né si rinverde.
Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno
di questo dí, che tosto il seren perde;
cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando."
Tacque, e concorde de gli augelli il coro,
quasi approvando, il canto indi ripiglia.
Raddoppian le colombe i baci loro,
ogni animal d’amar si riconsiglia;
par che la dura quercia e ’l casto alloro
e tutta la frondosa ampia famiglia,
par che la terra e l’acqua e formi e spiri
dolcissimi d’amor sensi e sospiri.
Fra melodia sí tenera, fra tante
vaghezze allettatrici e lusinghiere,
va quella coppia, e rigida e costante
se stessa indura a i vezzi del piacere.
Ecco tra fronde e fronde il guardo inante
penetra e vede, o pargli di vedere,
vede pur certo il vago e la diletta,
ch’egli è in grembo a la donna, essa a l’erbetta.
Ella dinanzi al petto ha il vel diviso,
e ’l crin sparge incomposto al vento estivo;
langue per vezzo, e ’l suo infiammato viso
fan biancheggiando i bei sudor piú vivo:
qual raggio in onda, le scintilla un riso
ne gli umidi occhi tremulo e lascivo.
Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle
le posa il capo, e ’l volto al volto attolle,
e i famelici sguardi avidamente
in lei pascendo si consuma e strugge.
S’inchina, e i dolci baci ella sovente
liba or da gli occhi e da le labra or sugge,
ed in quel punto ei sospirar si sente
profondo sí che pensi: "Or l’alma fugge
e ’n lei trapassa peregrina." Ascosi
mirano i due guerrier gli atti amorosi.
Dal fianco de l’amante (estranio arnese)
un cristallo pendea lucido e netto.
Sorse, e quel fra le mani a lui sospese
a i misteri d’Amor ministro eletto.
Con luci ella ridenti, ei con accese,
mirano in vari oggetti un solo oggetto:
ella del vetro a sé fa specchio, ed egli
gli occhi di lei sereni a sé fa spegli.
L’uno di servitú, l’altra d’impero
si gloria, ella in se stessa ed egli in lei.
"Volgi," dicea "deh volgi" il cavaliero
"a me quegli occhi onde beata bèi,
ché son, se tu no ’l sai, ritratto vero
de le bellezze tue gli incendi miei;
la forma lor, la meraviglia a pieno
piú che il cristallo tuo mostra il mio seno.
Deh! poi che sdegni me, com’egli è vago
mirar tu almen potessi il proprio volto;
ché il guardo tuo, ch’altrove non è pago,
gioirebbe felice in sé rivolto.
Non può specchio ritrar sí dolce imago,
né in picciol vetro è un paradiso accolto:
specchio t’è degno il cielo, e ne le stelle
puoi riguardar le tue sembianze belle."
Ride Armida a quel dir, ma non che cesse
dal vagheggiarsi e da’ suoi bei lavori.
Poi che intrecciò le chiome e che ripresse
con ordin vago i lor lascivi errori,
torse in anella i crin minuti e in esse,
quasi smalto su l’or, cosparse i fiori;
e nel bel sen le peregrine rose
giunse a i nativi gigli, e ’l vel compose.
Né ’l superbo pavon sí vago in mostra
spiega la pompa de l’occhiute piume,
né l’iride sí bella indora e mostra
il curvo grembo e rugiadoso al lume.
Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra
che né pur nuda ha di lasciar costume.
Diè corpo a chi non l’ebbe, e quando il fece
tempre mischiò ch’altrui mescer non lece.
Teneri sdegni, e placide e tranquille
repulse, e cari vezzi, e liete paci,
sorrise parolette, e dolci stille
di pianto, e sospir tronchi, e molli baci:
fuse tai cose tutte, e poscia unille
ed al foco temprò di lente faci,
e ne formò quel sí mirabil cinto
di ch’ella aveva il bel fianco succinto.
Fine alfin posto al vagheggiar, richiede
a lui commiato, e ’l bacia e si diparte.
Ella per uso il dí n’esce e rivede
gli affari suoi, le sue magiche carte.
Egli riman, ch’a lui non si concede
por orma o trar momento in altra parte,
e tra le fère spazia e tra le piante,
se non quanto è con lei, romito amante.
Ma quando l’ombra co i silenzi amici
rappella a i furti lor gli amanti accorti
traggono le notturne ore felici
sotto un tetto medesmo entro a quegli orti.
Ma poi che vòlta a piú severi uffici
lasciò Armida il giardino e i suoi diporti,
i duo, che tra i cespugli eran celati,
scoprirsi a lui pomposamente armati.
Qual feroce destrier ch’al faticoso
onor de l’arme vincitor sia tolto,
e lascivo marito in vil riposo
fra gli armenti e ne’ paschi erri disciolto,
se ’l desta o suon di tromba o luminoso
acciar, colà tosto annitrendo è vòlto,
già già brama l’arringo e, l’uom su ’l dorso
portando, urtato riurtar nel corso;
tal si fece il garzon, quando repente
de l’arme il lampo gli occhi suoi percosse.
Quel sí guerrier, quel sí feroce ardente
suo spirto a quel fulgor tutto si scosse,
benché tra gli agi morbidi languente,
e tra i piaceri ebro e sopito ei fosse.
Intanto Ubaldo oltra ne viene, e ’l terso
adamantino scudo ha in lui converso.
Egli al lucido scudo il guardo gira,
onde si specchia in lui qual siasi e quanto
con delicato culto adorno; spira
tutto odori e lascivie il crine e ’l manto,
e ’l ferro, il ferro aver, non ch’altro, mira
dal troppo lusso effeminato a canto:
guernito è sí ch’inutile ornamento
sembra, non militar fero instrumento.
Qual uom da cupo e grave sonno oppresso
dopo vaneggiar lungo in sé riviene,
tal ei tornò nel rimirar se stesso,
ma se stesso mirar già non sostiene;
giú cade il guardo, e timido e dimesso,
guardando a terra, la vergogna il tiene.
Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro
il foco per celarsi, e giú nel centro.
Ubaldo incominciò parlando allora:
"Va l’Asia tutta e va l’Europa in guerra:
chiunque e pregio brama e Cristo adora
travaglia in arme or ne la siria terra.
Te solo, o figlio di Bertoldo, fuora
del mondo, in ozio, un breve angolo serra;
te sol de l’universo il moto nulla
move, egregio campion d’una fanciulla.
Qual sonno o qual letargo ha sí sopita
la tua virtute? o qual viltà l’alletta?
Su su; te il campo e te Goffredo invita,
te la fortuna e la vittoria aspetta.
Vieni, o fatal guerriero, e sia fornita
la ben comincia impresa; e l’empia setta,
che già crollasti, a terra estinta cada
sotto l’inevitabile tua spada."
Tacque, e ’l nobil garzon restò per poco
spazio confuso e senza moto e voce.
Ma poi che diè vergogna a sdegno loco,
sdegno guerrier de la ragion feroce,
e ch’al rossor del volto un novo foco
successe, che piú avampa e che piú coce,
squarciossi i vani fregi e quelle indegne
pompe, di servitú misera insegne;
ed affrettò il partire, e de la torta
confusione uscí del labirinto.
Intanto Armida de la regal porta
mirò giacere il fier custode estinto.
Sospettò prima, e si fu poscia accorta
ch’era il suo caro al dipartirsi accinto;
e ’l vide (ahi fera vista!) al dolce albergo
dar, frettoloso, fuggitivo il tergo.
Volea gridar: "Dove, o crudel, me sola
lasci?", ma il varco al suon chiuse il dolore,
sí che tornò la flebile parola
piú amara indietro a rimbombar su ’l core.
Misera! i suoi diletti ora le invola
forza e saper, del suo saper maggiore.
Ella se ’l vede, e invan pur s’argomenta
di ritenerlo e l’arti sue ritenta.
Quante mormorò mai profane note
tessala maga con la bocca immonda,
ciò ch’arrestar può le celesti rote
e l’ombre trar de la prigion profonda,
sapea ben tutte, e pur oprar non pote
ch’almen l’inferno al suo parlar risponda.
Lascia gli incanti, e vuol provar se vaga
e supplice beltà sia miglior maga.
Corre, e non ha d’onor cura o ritegno.
Ahi! dove or sono i suoi trionfi e i vanti?
Costei d’Amor, quanto egli è grande, il regno
volse e rivolse sol co ’l cenno inanti,
e cosí pari al fasto ebbe lo sdegno,
ch’amò d’essere amata, odiò gli amanti;
sé gradí sola, e fuor di sé in altrui
sol qualche effetto de’ begli occhi sui.
Or negletta e schernita in abbandono
rimase, segue pur chi fugge e sprezza;
e procura adornar co’ pianti il dono
rifiutato per sé di sua bellezza.
Vassene, ed al piè tenero non sono
quel gelo intoppo e quella alpina asprezza;
e invia per messaggieri inanzi i gridi,
né giunge lui pria ch’ei sia giunto a i lidi.
Forsennata gridava: "O tu che porte
parte teco di me, parte ne lassi,
o prendi l’una o rendi l’altra, o morte
dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi,
sol che ti sian le voci ultime porte;
non dico i baci, altra piú degna avrassi
quelli da te. Che temi, empio, se resti?
Potrai negar, poi che fuggir potesti."
Dissegli Ubaldo allor: "Già non conviene
che d’aspettar costei, signor, ricusi;
di beltà armata e de’ suoi preghi or viene,
dolcemente nel pianto amaro infusi.
Qual piú forte di te, se le sirene
vedendo ed ascoltando a vincer t’usi?
cosí ragion pacifica reina
de’ sensi fassi, e se medesma affina."
Allor ristette il cavaliero, ed ella
sovragiunse anelante e lagrimosa:
dolente sí che nulla piú, ma bella
altrettanto però quanto dogliosa.
Lui guarda e in lui s’affisa, e non favella,
o che sdegna o che pensa o che non osa.
Ei lei non mira; e se pur mira, il guardo
furtivo volge e vergognoso e tardo.
Qual musico gentil, prima che chiara
altamente la voce al canto snodi,
a l’armonia gli animi altrui prepara
con dolci ricercate in bassi modi,
cosí costei, che ne la doglia amara
già tutte non oblia l’arti e le frodi,
fa di sospir breve concento in prima
per dispor l’alma in cui le voci imprima.
Poi cominciò: "Non aspettar ch’io preghi,
crudel, te, come amante amante deve.
Tai fummo un tempo; or se tal esser neghi,
e di ciò la memoria anco t’è greve,
come nemico almeno ascolta: i preghi
d’un nemico talor l’altro riceve.
Ben quel ch’io chieggio è tal che darlo puoi
e integri conservar gli sdegni tuoi.
Se m’odii, e in ciò diletto alcun tu senti,
non te ’n vengo a privar: godi pur d’esso.
Giusto a te pare, e siasi. Anch’io le genti
cristiane odiai, no ’l nego, odiai te stesso.
Nacqui pagana, usai vari argomenti
che per me fosse il vostro imperio oppresso;
te perseguii, te presi, e te lontano
da l’arme trassi in loco ignoto e strano.
Aggiungi a questo ancor quel ch’a maggiore
onta tu rechi ed a maggior tuo danno:
t’ingannai, t’allettai nel nostro amore;
empia lusinga certo, iniquo inganno,
lasciarsi còrre il virginal suo fiore,
far de le sue bellezze altrui tiranno,
quelle ch’a mille antichi in premio sono
negate, offrire a novo amante in dono!
Sia questa pur tra le mie frodi, e vaglia
sí di tante mie colpe in te il difetto
che tu quinci ti parta e non ti caglia
di questo albergo tuo già sí diletto.
Vattene, passa il mar, pugna, travaglia,
struggi la fede nostra: anch’io t’affretto.
Che dico nostra? ah non piú mia! fedele
sono a te solo, idolo mio crudele.
Solo ch’io segua te mi si conceda:
picciola fra nemici anco richiesta.
Non lascia indietro il predator la preda;
va il trionfante, il prigionier non resta.
Me fra l’altre tue spoglie il campo veda
ed a l’altre tue lodi aggiunga questa,
che la tua schernitrice abbia schernito
mostrando me sprezzata ancella a dito.
Sprezzata ancella, a chi fo piú conserva
di questa chioma, or ch’a te fatta è vile?
Raccorcierolla: al titolo di serva
vuo’ portamento accompagnar servile.
Te seguirò, quando l’ardor piú ferva
de la battaglia, entro la turba ostile.
Animo ho bene, ho ben vigor che baste
a condurti i cavalli, a portar l’aste.
Sarò qual piú vorrai scudiero o scudo:
non fia ch’in tua difesa io mi risparmi.
Per questo sen, per questo collo ignudo,
pria che giungano a te, passeran l’armi.
Barbaro forse non sarà sí crudo
che ti voglia ferir, per non piagarmi,
condonando il piacer de la vendetta
a questa, qual si sia, beltà negletta.
Misera! ancor presumo? ancor mi vanto
di schernita beltà che nulla impetra?"
Volea piú dir, ma l’interruppe il pianto
che qual fonte sorgea d’alpina pietra.
Prendergli cerca allor la destra o ’l manto,
supplichevole in atto, ed ei s’arretra,
resiste e vince; e in lui trova impedita
Amor l’entrata, il lagrimar l’uscita.
Non entra Amor a rinovar nel seno,
che ragion congelò, la fiamma antica;
v’entra pietate in quella vece almeno,
pur compagna d’Amor, benché pudica
e lui commove in guisa tal ch’a freno
può ritener le lagrime a fatica.
Pur quel tenero affetto entro restringe,
e quanto può gli atti compone e infinge.
Poi le risponde: "Armida, assai mi pesa
di te; sí potess’io, come il farei,
del mal concetto ardor l’anima accesa
sgombrarti: odii non son, né sdegni i miei,
né vuo’ vendetta, né rammento offesa;
né serva tu, né tu nemica sei.
Errasti, è vero, e trapassasti i modi,
ora gli amori essercitando, or gli odi;
ma che? son colpe umane e colpe usate:
scuso la natia legge, il sesso e gli anni.
Anch’io parte fallii; s’a me pietate
negar non vuo’, non fia ch’io te condanni.
Fra le care memorie ed onorate
mi sarai ne le gioie e ne gli affanni,
sarò tuo cavalier quanto concede
la guerra d’Asia e con l’onor la fede.
Deh! che del fallir nostro or qui sia il fine
e di nostre vergogne omai ti spiaccia,
ed in questo del mondo ermo confine
la memoria di lor sepolta giaccia.
Sola, in Europa e ne le due vicine
parti, fra l’opre mie questa si taccia.
Deh! non voler che segni ignobil fregio
tua beltà, tuo valor, tuo sangue regio.
Rimanti in pace, i’ vado; a te non lice
meco venir, chi mi conduce il vieta.
Rimanti, o va per altra via felice,
e come saggia i tuoi consigli acqueta."
Ella, mentre il guerrier cosí le dice,
non trova loco, torbida, inquieta;
già buona pezza in dispettosa fronte
torva riguarda, al fin prorompe a l’onte:
"Né te Sofia produsse e non sei nato
de l’azio sangue tu; te l’onda insana
del mar produsse e ’l Caucaso gelato,
e le mamme allattàr di tigre ircana.
Che dissimulo io piú? l’uomo spietato
pur un segno non diè di mente umana.
Forse cambiò color? forse al mio duolo
bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo?
Quali cose tralascio o quai ridico?
S’offre per mio, mi fugge e m’abbandona;
quasi buon vincitor, di reo nemico
oblia le offese, i falli aspri perdona.
Odi come consiglia! odi il pudico
Senocrate d’amor come ragiona!
O Cielo, o dèi, perché soffrir questi empi
fulminar poi le torri e i vostri tèmpi?
Vattene pur, crudel, con quella pace
che lasci a me; vattene, iniquo, omai.
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
indivisibilmente a tergo avrai.
Nova furia, co’ serpi e con la face
tanto t’agiterò quanto t’amai.
E s’è destin ch’esca del mar, che schivi
gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi,
là tra ’l sangue e le morti egro giacente
mi pagherai le pene, empio guerriero.
Per nome Armida chiamerai sovente
ne gli ultimi singulti: udir ciò spero."
Or qui mancò lo spirto a la dolente,
né quest’ultimo suono espresse intero;
e cadde tramortita e si diffuse
di gelato sudore, e i lumi chiuse.
Chiudesti i lumi, Armida; il Cielo avaro
invidiò il conforto ai tuoi martiri.
Apri, misera, gli occhi; il pianto amaro
ne gli occhi al tuo nemico or ché non miri?
Oh s’udir tu ’l potessi, oh come caro
t’addolcirebbe il suon de’ suoi sospiri!
Dà quanto ei pote, e prende (e tu no ’l credi!)
pietoso in vista gli ultimi congedi.
Or che farà? dée su l’ignuda arena
costei lasciar cosí tra viva e morta?
Cortesia lo ritien, pietà l’affrena,
dura necessità seco ne ’l porta.
Parte, e di lievi zefiri è ripiena
la chioma di colei che gli fa scorta.
Vola per l’alto mar l’aurata vela:
ei guarda il lido, e ’l lido ecco si cela.
Poi ch’ella in sé tornò, deserto e muto
quanto mirar poté d’intorno scorse.
"Ito se n’è pur," disse "ed ha potuto
me qui lasciar de la mia vita in forse?
Né un momento indugiò, né un breve aiuto
nel caso estremo il traditor mi porse?
Ed io pur ancor l’amo, e in questo lido
invendicata ancor piango e m’assido?
Che fa piú meco il pianto? altr’arme, altr’arte
io non ho dunque? Ahi! seguirò pur l’empio,
né l’abisso per lui riposta parte,
né il ciel sarà per lui securo tempio.
Già ’l giungo, e ’l prendo, e ’l cor gli svello, e sparte
le membra appendo, a i dispietati essempio.
Mastro è di ferità? vuo’ superarlo
ne l’arti sue... Ma dove son? che parlo?
Misera Armida, allor dovevi, e degno
ben era, in quel crudele incrudelire
che tu prigion l’avesti; or tardo sdegno
t’infiamma, e movi neghittosa a l’ire.
Pur se beltà può nulla o scaltro ingegno,
non fia vòto d’effetto il mio desire.
O mia sprezzata forma, a te s’aspetta
(ché tua l’ingiuria fu) l’alta vendetta.
Questa bellezza mia sarà mercede
del troncator de l’essecrabil testa.
O miei famosi amanti, ecco si chiede
difficil sí da voi ma impresa onesta.
Io che sarò d’ampie ricchezze erede,
d’una vendetta in guiderdon son presta.
S’esser compra a tal prezzo indegna sono,
beltà, sei di natura inutil dono.
Dono infelice, io ti rifiuto; e insieme
odio l’esser reina e l’esser viva,
e l’esser nata mai; sol fa la speme
de la dolce vendetta ancor ch’io viva."
Cosí in voci interrotte irata freme
e torce il piè da la deserta riva,
mostrando ben quanto ha furor raccolto,
sparsa il crin, bieca gli occhi, accesa il volto.
Giunta a gli alberghi suoi chiamò trecento
con lingua orrenda deità d’Averno.
S’empie il ciel d’atre nubi, e in un momento
impallidisce il gran pianeta eterno,
e soffia e scote i gioghi alpestri il vento.
Ecco già sotto i piè mugghiar l’inferno:
quanto gira il palagio udresti irati
sibili ed urli e fremiti e latrati.
Ombra piú che di notte, in cui di luce
raggio misto non è, tutto il circonda,
se non se in quanto un lampeggiar riluce
per entro la caligine profonda.
Cessa al fin l’ombra, e i raggi il sol riduce
pallidi; né ben l’aura anco è gioconda,
né piú il palagio appar, né pur le sue
vestigia, né dir puossi: "Egli qui fue."
Come imagin talor d’immensa mole
forman nubi ne l’aria e poco dura,
ché ’l vento la disperde o solve il sole,
come sogno se ’n va ch’egro figura,
cosí sparver gli alberghi, e restàr sole
l’alpe e l’orror che fece ivi natura.
Ella su ’l carro suo, che presto aveva,
s’assise, e come ha in uso al ciel si leva.
Calca le nubi e tratta l’aure a volo,
cinta di nembi e turbini sonori,
passa i lidi soggetti a l’altro polo
e le terre d’ignoti abitatori;
passa d’Alcide i termini, né ’l suolo
appressa de gli Espèri o quel de’ Mori,
ma su i mari sospeso il corso tiene
insin che a i lidi di Soria perviene.
Quinci a Damasco non s’invia, ma schiva
il già sí caro de la patria aspetto,
e drizza il carro a l’infecondo riva
ove è tra l’onde il suo castello eretto.
Qui giunta, i servi e le donzelle priva
di sua presenza e sceglie ermo ricetto;
e fra vari pensier dubbia s’aggira,
ma tosto cede la vergogna a l’ira.
"Io n’andrò pur," dice ella "anzi che l’armi
de l’Oriente il re d’Egitto mova.
Ritentar ciascun’arte e trasmutarmi
in ogni forma insolita mi giova,
trattar l’arco e la spada, e serva farmi
de’ piú potenti e concitargli a prova:
pur che le mie vendette io veggia in parte,
il rispetto e l’onor stiasi in disparte.
Non accusi già me, biasmi se stesso
il mio custode e zio che cosí volse.
Ei l’alma baldanzosa e ’l fragil sesso
a i non debiti uffici in prima volse;
esso mi fé donna vagante, ed esso
spronò l’ardire e la vergogna sciolse:
tutto si rechi a lui ciò che d’indegno
fei per amore o che farò per sdegno."
Cosí risolse, e cavalieri e donne,
paggi e sergenti frettolosa aduna;
e ne’ superbi arnesi e ne le gonne
l’arte dispiega e la regal fortuna,
e in via si pone; e non è mai ch’assonne
o che si posi al sole od a la luna,
sin che non giunge ove le schiere amiche
copria di Gaza le campagne apriche.