Cosí dicendo ancor vicino scorse
un destrier ch’a lui volse errante il passo;
tosto al libero fren la mano ei porse
e su vi salse, ancorch’afflitto e lasso.
Già caduto è il cimier ch’orribil sorse,
lasciando l’elmo inonorato e basso;
rotta è la sopravesta, e di superba
pompa regal vestigio alcun non serba.
Come dal chiuso ovil cacciato viene
lupo talor che fugge e si nasconde,
che, se ben del gran ventre omai ripiene
ha l’ingorde voragini profonde,
avido pur di sangue anco fuor tiene
la lingua e ’l sugge da le labra immonde,
tale ei se ’n gía dopo il sanguigno strazio,
de la sua cupa fame anco non sazio.
E come è sua ventura, a le sonanti
quadrella, ond’a lui intorno un nembo vola,
a tante spade, a tante lancie, a tanti
instrumenti di morte alfin s’invola,
e sconosciuto pur camina inanti
per quella via ch’è piú deserta e sola;
e rivolgendo in sé quel che far deggia,
in gran tempesta di pensieri ondeggia.
Disponsi alfin di girne ove raguna
oste sí poderosa il re d’Egitto,
e giunger seco l’arme, e la fortuna
ritentar anco di novel conflitto.
Ciò prefisso tra sé, dimora alcuna
non pone in mezzo e prende il camin dritto,
ché sa le vie, né d’uopo ha di chi il guidi
di Gaza antica a gli arenosi lidi.
Né perché senta inacerbir le doglie
de le sue piaghe, e grave il corpo ed egro,
vien però che si posi e l’arme spoglie,
ma travagliando il dí ne passa integro.
Poi quando l’ombra oscura al mondo toglie
i vari aspetti e i color tinge in negro,
smonta e fascia le piaghe, e come pote
meglio, d’un’alta palma i frutti scote;
e cibato di lor, su ’l terren nudo
cerca adagiare il travagliato fianco,
e la testa appoggiando al duro scudo
quetar i moti del pensier suo stanco.
Ma d’ora in ora a lui si fa piú crudo
sentire il duol de le ferite, ed anco
roso gli è il petto e lacerato il core
da gli interni avoltoi, sdegno e dolore.
Alfin, quando già tutto intorno chete
ne la piú alta notte eran le cose,
vinto egli pur da la stanchezza, in Lete
sopí le cure sue gravi e noiose,
e in una breve e languida quiete
l’afllitte membra e gli occhi egri compose;
e mentre ancor dormia, voce severa
gli intonò su l’orecchie in tal maniera:
"Soliman, Solimano, i tuoi sí lenti
riposi a miglior tempo omai riserva,
ché sotto il giogo di straniere genti
la patria ove regnasti ancor è serva.
In questa terra dormi, e non rammenti
ch’insepolte de’ tuoi l’ossa conserva?
ove sí gran vestigio è del tuo scorno,
tu neghittoso aspetti il novo giorno?"
Desto il Soldan alza lo sguardo, e vede
uom che d’età gravissima a i sembianti
co ’l ritorto baston del vecchio piede
ferma e dirizza le vestigia erranti.
"E chi sei tu," sdegnoso a lui richiede
"che fantasma importuno a i viandanti
rompi i brevi lor sonni? e che s’aspetta
a te la mia vergngna o la vendetta?"
"Io mi son un" risponde il vecchio "al quale
in parte è noto il tuo novel disegno,
e sí come uomo a cui di te piú cale
che tu forse non pensi, a te ne vegno;
né il mordace parlare indarno è tale,
perché de la virtú cote è lo sdegno.
Prendi in grado, signor, che ’l mio sermone
al tuo pronto valor sia sferza e sprone.
Or perché, s’io m’appongo, esser dée vòlto
al gran re de l’Egitto il tuo camino,
che inutilmente aspro viaggio tolto
avrai, s’inanzi segui, io m’indovino;
ché, se ben tu non vai, fia tosto accolto
e tosto mosso il campo saracino,
né loco è là dove s’impieghi e mostri
la tua virtú contra i nemici nostri.
Ma se ’n duce me prendi, entro quel muro,
che da l’arme latine è intorno astretto,
nel piú chiaro del dí pórti securo,
senza che spada impugni, io ti prometto.
Quivi con l’arme e co’ disagi un duro
contrasto aver ti fia gloria e diletto;
difenderai la terra insin che giugna
l’oste d’Egitto a rinovar la pugna."
Mentre ei ragiona ancor, gli occhi e la voce
de l’uomo antico il fero turco ammira,
e dal volto e da l’animo feroce
tutto depone omai l’orgoglio e l’ira.
"Padre," risponde "io già pronto e veloce
sono a seguirti: ove tu vuoi mi gira.
A me sempre miglior parrà il consiglio
ove ha piú di fatica e di periglio."
Loda il vecchio i suoi detti; e perché l’aura
notturna avea le piaghe incrudelite,
un suo licor v’instilla, onde ristaura
le forze e salda il sangue e le ferite.
Quinci veggendo omai ch’Apollo inaura
le rose che l’aurora ha colorite:
"Tempo è" disse "al partir, ché già ne scopre
le strade il sol ch’altrui richiama a l’opre."
E sovra un carro suo, che non lontano
quinci attendea, co ’l fer niceno ei siede;
le briglie allenta, e con maestra mano
ambo i corsieri alternamente fiede.
Quei vanno sí che ’l polveroso piano
non ritien de la rota orma o del piede;
fumar li vedi ed anelar nel corso,
e tutto biancheggiar di spuma il morso.
Maraviglie dirò: s’aduna e stringe
l’aer d’intorno in nuvolo raccolto,
sí che ’l gran carro ne ricopre e cinge,
ma non appar la nube o poco o molto,
né sasso, che mural machina spinge,
penetraria per lo suo chiuso e folto;
ben veder ponno i duo dal curvo seno
la nebbia intorno e fuori il ciel sereno.
Stupido il cavalier le ciglia inarca,
ed increspa la fronte, e mira fiso
la nube e ’l carro ch’ogni intoppo varca
veloce sí che di volar gli è aviso.
L’altro, che di stupor l’anima carca
gli scorge a l’atto de l’immobil viso,
gli rompe quel silenzio e lui rappella,
ond’ei si scote e poi cosí favella:
"O chiunque tu sia, che fuor d’ogni uso
pieghi natura ad opre altere e strane,
e spiando i secreti, entro al piú chiuso
spazii a tua voglia de le menti umane,
s’arrivi co ’l saper, ch’è d’alto infuso,
a le cose remote anco e lontane,
deh! dimmi qual riposo o qual ruina
ai gran moti de l’Asia il Ciel destina.
Ma pria dimmi il tuo nome, e con qual arte
far cose tu sí inusitate soglia,
ché se pria lo stupor da me non parte,
com’esser può ch’io gli altri detti accoglia?"
Sorrise il vecchio, e disse: "In una parte
mi sarà leve l’adempir tua voglia.
Son detto Ismeno, e i Siri appellan mago
me che de l’arti incognite son vago.
Ma ch’io scopra il futuro e ch’io dispieghi
de l’occulto destin gli eterni annali,
troppo è audace desio, troppo alti preghi:
non è tanto concesso a noi mortali.
Ciascun qua giú le forze e ’l senno impieghi
per avanzar fra le sciagure e i mali,
ché sovente adivien che ’l saggio e ’l forte
fabro a se stesso è di beata sorte.
Tu questa destra invitta, a cui fia poco
scoter le forze del francese impero,
non che munir, non che guardar il loco
che strettamente oppugna il popol fero,
contra l’arme apparecchia e contra ’l foco:
osa, soffri, confida; io bene spero.
Ma pur dirò, perché piacer ti debbia,
ciò che oscuro vegg’io quasi per nebbia.
Veggio o parmi vedere, anzi che lustri
molti rivolga il gran pianeta eterno,
uom che l’Asia ornerà co’ fatti illustri,
e del fecondo Egitto avrà il governo.
Taccio i pregi de l’ozio e l’arti industri,
mille virtú che non ben tutte io scerno;
basti sol questo a te, che da lui scosse
non pur saranno le cristiane posse,
ma insin dal fondo suo l’imperio ingiusto
svelto sarà ne l’ultime contese,
e le afflitte reliquie entro uno angusto
giro sospinte e sol dal mar difese.
Questi fia del tuo sangue." E qui il vetusto
mago si tacque, e quegli a dir riprese:
"O lui felice, eletto a tanta lode!"
e parte ne l’invidia e parte gode.
Soggiunse poi: "Girisi pur Fortuna
o buona o rea, come è là su prescritto,
ché non ha sovra me ragione alcuna
e non mi vedrà mai se non invitto.
Prima dal corso distornar la luna
e le stelle potrà, che dal diritto
torcere un sol mio passo." E in questo dire
sfavillò tutto di focoso ardire.
Cosí gír ragionando insin che furo
là ’ve presso vedean le tende alzarse.
Che spettacolo fu crudele e duro!
E in quante forme ivi la morte apparse!
Si fe’ ne gli occhl allor torbido e scuro,
e di doglia il Soldano il volto sparse.
Ahi con quanto dispregio ivi le degne
mirò giacer sue già temute insegne!
E scorrer lieti i Franchi, e i petti e i volti
spesso calcar de’ suoi piú noti amici,
e con fasto superbo a gli insepolti
l’arme spogliare e gli abiti infelici;
molti onorare in lunga pompa accolti
gli amati corpi de gli estremi uffici,
altri suppor le fiamme, e ’l vulgo misto
d’Arabi e Turchi a un foco arder ha visto.
Sospirò dal profondo, e ’l ferro trasse
e dal carro lanciossi e correr volle,
ma il vecchio incantatore a sé il ritrasse
sgridando, e raffrenò l’impeto folle;
e fatto che di novo ei rimontasse,
drizzò il suo corso al piú sublime colle.
Cosí alquanto n’andaro, insin ch’a tergo
lasciàr de’ Franchi il militare albergo.
Smontaro allor del carro, e quel repente
sparve; e presono a piedi insieme il calle
ne la solita nube occultamente
discendendo a sinistra in una valle,
sin che giunsero là dove al ponente
l’alto monte Siòn volge le spalle.
Quivi si ferma il mago e poi s’accosta
quasi mirando, a la scoscesa costa.
Cava grotta s’apria nel duro sasso,
di lunghissimi tempi avanti fatta;
ma disusando, or riturato il passo
era tra i pruni e l’erbe ove s’appiatta.
Sgombra il mago gli intoppi, e curvo e basso
per l’angusto sentiero a gir s’adatta,
e l’una man precede e il varco tenta,
l’altra per guida al principe appresenta.
Dice allora il Soldan: "Qual via furtiva
è questa tua, dove convien ch’io vada?
Altra forse miglior io me n’apriva,
se ’l concedevi tu, con la mia spada."
"Non sdegnar," gli risponde "anima schiva,
premer co ’l forte piè la buia strada,
ché già solea calcarla il grande Erode,
quel c’ha ne l’arme ancor sí chiara lode.
Cavò questa spelonca allor che porre
volse freno a i soggetti il re ch’io dico,
e per essa potea da quella torre,
ch’egli Antonia appellò dal chiaro amico,
invisibile a tutti il piè raccòrre
dentro la soglia del gran tempio antico,
e quindi occulto uscir de la cittate
e trarne genti ed introdur celate.
Ma nota è questa via solinga e bruna
or solo a me de gli uomini viventi.
Per questa andremo al loco ove raguna
i piú saggi a conciglio e i piú potenti
il re ch’al minacciar de la fortuna,
piú forse che non dée, par che paventi.
Ben tu giungi a grand’uopo: ascolta e taci,
poi movi a tempo le parole audaci."
Cosí gli disse, e ’l cavaliero allotta
co ’l gran corpo ingombrò l’umil caverna,
e per le vie dove mai sempre annotta
seguí colui che ’l suo camin governa.
Chini pria se n’andàr, ma quella grotta
piú si dilata quanto piú s’interna,
sí ch’asceser con agio e tosto furo
a mezzo quasi di quell’antro oscuro.
Apriva allora un picciol uscio Ismeno,
e se ne gian per disusata scala
a cui luce mal certo e mal sereno
l’aer che giú d’alto spiraglio cala.
In sotterraneo chiostro al fin venieno,
e salian quindi in chiara e nobil sala.
Qui con lo scettro e co ’l diadema in testa
mesto sedeasi il re fra gente mesta.
Da la concava nube il turco fero
non veduto rimira e spia d’intorno,
e ode il re fra tanto, il qual primiero
incomincia cosí dal seggio adorno:
"Veramente, o miei fidi, al nostro impero
fu il trapassato assai dannoso giorno;
e caduti d’altissima speranza,
sol l’aiuto d’Egitto omai n’avanza.
Ma ben vedete voi quanto la speme
lontana sia da sí vicin periglio.
Dunque voi tutti ho qui raccolti insieme
perch’ognun porti in mezzo il suo consiglio."
Qui tace, e quasi in bosco aura che freme
suona d’intorno un picciolo bisbiglio.
Ma con la faccia baldanzosa e lieta
sorgendo Argante il mormorare accheta.
"O magnanimo re," fu la risposta
del cavaliero indomito e feroce
"perché ci tenti? e cosa a nullo ascosta
chiedi, ch’uopo non ha di nostra voce?
Pur dirò: sia la speme in noi sol posta;
e s’egli è ver che nulla a virtú noce,
di questa armiamci, a lei chiediamo aita,
né piú ch’ella si voglia amiam la vita.
Né parlo io già cosí perch’io dispere
de l’aiuto certissimo d’Egitto,
ché dubitar, se le promesse vere
fian del mio re, non lece e non è dritto;
ma il dico sol perché desio vedere
in alcuni di noi spirto piú invitto,
ch’egualmente apprestato ad ogni sorte
si prometta vittoria e sprezzi morte."
Tanto sol disse il generoso Argante
quasi uom che parli di non dubbia cosa.
Poi sorse in autorevole sembiante
Orcano, uom d’alta nobiltà famosa,
e già ne l’arme d’alcun pregio inante;
ma or congiunto a giovanetta sposa,
e lieto omai di figli, era invilito
ne gli affetti di padre e di marito.
Disse questi: "O signor, già non accuso
il fervor di magnifiche parole,
quando nasce d’ardir che star rinchiuso
tra i confini del cor non può né vòle;
però se ’l buon circasso a te per uso
troppo in vero parlar fervido sòle,
ciò si conceda a lui che poi ne l’opre
il medesmo fervor non meno scopre.
Ma si conviene a te, cui fatto il corso
de le cose e de’ tempi han sí prudente,
impor colà de’ tuoi consigli il morso
dove costui se ne trascorre ardente,
librar la speme del lontan soccorso
co ’l periglio vicino, anzi presente,
e con l’arme e con l’impeto nemico
i tuoi novi ripari e ’l muro antico.
Noi (se lece a me dir quel ch’io ne sento)
siamo in forte città di sito e d’arte,
ma di machine grande e violento
apparato si fa da l’altra parte.
Quel che sarà, non so; spero e pavento
i giudizi incertissimi di Marte,
e temo che s’a noi piú fia ristretto
l’assedio, al fin di cibo avrem difetto.
Però che quegli armenti e quelle biade
ch’ieri tu ricettasti entro le mura,
mentre nel campo a insanguinar le spade
s’attendea solo, e fu alta ventura,
picciol esca a gran fame, ampia cittade
nutrir mal ponno se l’assedio dura;
e forza è pur che duri, ancor che vegna
l’oste d’Egitto il dí ch’ella disegna.
Ma che fia, se piú tarda? Or sú, concedo
che tua speme prevegna e sue promesse;
la vittoria però, però non vedo
liberate, o signor, le mura oppresse.
Combattremo, o buon re, con quel Goffredo
e con que’ duci e con le genti istesse
che tante volte han già rotti e dispersi
gli Arabi, i Turchi, i Soriani e i Persi.
E quali sian, tu ’l sai, che lor cedesti
sí spesso il campo, o valoroso Argante,
e sí spesso le spalle anco volgesti
fidando assai ne le veloci piante;
e ’l sa Clorinda teco ed io con questi
ch’un piú de l’altro non convien si vante.
Né incolpo alcuno io già, ché vi fu mostro
quanto potea maggiore il valor nostro.
E dirò pur (benché costui di morte
bieco minacci e ’l vero udir si sdegni):
veggio portar da inevitabil sorte
il nemico fatale a certi segni,
né gente potrà mai, né muro forte
impedirlo cosí ch’al fin non regni;
ciò mi fa dir (sia testimonio il Cielo)
del signor, de la patria, amore e zelo.
Oh saggio il re di Tripoli, che pace
seppe impetrar da i Franchi e regno insieme!
Ma il Soldano ostinato o morto or giace,
or pur servil catena il piè gli preme,
o ne l’essiglio timido e fugace
si va serbando a le miserie estreme;
e pur, cedendo parte, avria potuto
parte salvar co’ doni e co ’l tributo."
Cosí diceva, e s’avolgea costui
con giro di parole obliquo e incerto,
ch’a chieder pace, a farsi uom ligio altrui
già non ardia di consigliarlo aperto.
Ma sdegnoso il Soldano i detti sui
non potea omai piú sostener coperto,
quando il mago gli disse: "Or vuoi tu darli
agio, signor, ch’in tal materia parli?"
"Io per me" gli risponde "or qui mi celo
contra mio grado, e d’ira ardo e di scorno."
Ciò disse a pena, e immantinente il velo
de la nube, che stesa è lor d’intorno,
si fende e purga ne l’aperto cielo,
ed ei riman nel luminoso giorno,
e magnanimamente in fero viso
rifulge in mezzo, e lor parla improviso:
"Io, di cui si ragiona, or son presente,
non fugace e non timido Soldano,
ed a costui ch’egli è codardo e mente
m’offero di provar con questa mano.
Io che sparsi di sangue ampio torrente,
che montagne di strage alzai su ’l piano,
chiuso nel vallo de’ nemici e privo
al fin d’ogni compagno, io fuggitivo?
Ma se piú questi o s’altri a lui simíle,
a la sua patria, a la sua fede infido,
motto osa far d’accordo infame e vile,
buon re, sia con tua pace, io qui l’uccido.
Gli agni e i lupi fian giunti in un ovile
e le colombe e i serpi in un sol nido,
prima che mai di non discorde voglia
noi co’ Francesi alcuna terra accoglia."
Tien su la spada, mentre ei sí favella,
la fera destra in minaccievol atto.
Riman ciascuno a quel parlar, a quella
orribil faccia, muto e stupefatto.
Poscia con vista men turbata e fella
cortesemente inverso il re s’è tratto:
"Spera," gli dice "alto signor, ch’io reco
non poco aiuto: or Solimano è teco."
Aladin, ch’a lui contra era già sorto,
risponde: "Oh come lieto or qui ti veggio,
diletto amico! Or del mio stuol ch’è morto
non sento il danno; assai temea di peggio.
Tu lo mio stabilire e in tempo corto
puoi ridrizzar il tuo caduto seggio,
se ’l Ciel no ’l vieta." Indi le braccia al collo,
cosí detto, gli stese e circondollo.
Finita l’accoglienza, il re concede
il suo medesmo soglio al gran niceno.
Egli poscia a sinistra in nobil sede
si pone, ed al suo fianco alluoga Ismeno,
e mentre seco parla ed a lui chiede
di lor venuta, ed ei risponde a pieno,
l’alta donzella ad onorar in pria
vien Solimano; ogn’altro indi seguia.
Seguí fra gl’altri Ormusse, il qual la schiera
di quegli Arabi suoi a guidar tolse;
e mentre la battaglia ardea piú fera,
per disusate vie cosí s’avolse
ch’aiutando il silenzio e l’aria nera
lei salva al fin nella città raccolse,
e con le biade e con rapiti armenti
aita porse a l’affamate genti.
Sol con la faccia torva e disdegnosa
tacito si rimase il fer circasso,
a guisa di leon quando si posa,
girando gli occhi e non movendo il passo.
Ma nel Soldan feroce alzar non osa
Orcano il volto, e ’l tien pensoso e basso.
Cosí a conciglio il palestin tiranno
e ’l re de’ Turchi e i cavalier qui stanno.
Ma il pio Goffredo la vittoria e i vinti
avea seguiti, e libere le vie,
e fatto intanto a i suoi guerrieri estinti
l’ultimo onor di sacre essequie e pie;
ed ora a gli altri impon che siano accinti
a dar l’assalto nel secondo die,
e con maggiore e piú terribil faccia
di guerra i chiusi barbari minaccia.
E perché conosciuto avea il drapello,
ch’aiutò lui contra la gente infida,
esser de’ suoi piú cari ed esser quello
che già seguí l’insidiosa guida,
e Tancredi con lor, che nel castello
prigion restò de la fallace Armida,
ne la presenza sol de l’Eremita
e d’alcuni piú saggi a sé gli invita;
e dice lor: "Prego ch’alcun racconti
de’ vostri brevi errori il dubbio corso,
e come poscia vi trovaste pronti
in sí grand’uopo a dar sí gran soccorso."
Vergognando tenean basse le fronti,
ch’era al cor picciol fallo amaro morso.
Al fin del re britanno il chiaro figlio
ruppe il silenzio, e disse alzando il ciglio:
"Partimmo noi che fuor de l’urna a sorte
tratti non fummo, ognun per sé nascoso,
d’Amor, no ’l nego, le fallaci scorte
seguendo e d’un bel volto insidioso.
Per vie ne trasse disusate e torte
fra noi discordi, e in sé ciascun geloso.
Nutrian gli amori e i nostri sdegni (ah! tardi
troppo il conosco) or parolette, or guardi.
Al fin giungemmo al loco ove già scese
fiamma dal cielo in dilatate falde,
e di natura vendicò l’offese
sovra le genti in mal oprar sí salde.
Fu già terra feconda, almo paese,
or acque son bituminose e calde
e steril lago; e quanto ei torpe e gira,
compressa è l’aria e grave il puzzo spira.
Questo è lo stagno in cui nulla di greve
si getta mai che giunga insino al basso,
ma in guisa pur d’abete o d’orno leve
l’uom vi sornuota e ’l duro ferro e ’l sasso.
Siede in esso un castello, e stretto e breve
ponte concede a’ peregrini il passo.
Ivi n’accolse, e non so con qual arte
vaga è là dentro e ride ogni sua parte.
V’è l’aura molle e ’l ciel sereno e lieti
gli alberi e i prati e pure e dolci l’onde,
ove fra gli amenissimi mirteti
sorge una fonte e un fiumicel diffonde:
piovono in grembo a l ’erbe i sonni queti
con un soave mormorio di fronde,
cantan gli augelli: i marmi io taccio e l’oro
meravigliosi d’arte e di lavoro.
Apprestar su l’erbetta, ov’è piú densa
l’ombra e vicino al suon de l’acque chiare,
fece di sculti vasi altera mensa
e ricca di vivande elette e care.
Era qui ciò ch’ogni stagion dispensa,
ciò che dona la terra o manda il mare,
ciò che l’arte condisce; e cento belle
servivano al convito accorte ancelle.
Ella d’un parlar dolce e d’un bel riso
temprava altrui cibo mortale e rio.
Or mentre ancor ciascuno a mensa assiso
beve con lungo incendio un lungo oblio,
sorse e disse: `Or qui riedo.’ E con un viso
ritornò poi non sí tranquillo e pio.
Con una man picciola verga scote,
tien l’altra un libro, e legge in basse note.
Legge la maga, ed io pensiero e voglia
sento mutar, mutar vita ed albergo.
(Strana virtú) novo pensier m’invoglia:
salto ne l’acqua, e mi vi tuffo e immergo.
Non so come ogni gamba entro s’accoglia,
come l’un braccio e l’altro entri nel tergo,
m’accorcio e stringo, e su la pelle cresce
squamoso il cuoio; e d’uom son fatto un pesce.
Cosí ciascun de gli altri anco fu vòlto
e guizzò meco in quel vivace argento.
Quale allor mi foss’io, come di stolto
vano e torbido sogno, or me ’n rammento.
Piacquele al fin tornarci il proprio volto;
ma tra la meraviglia e lo spavento
muti eravam, quando turbata in vista
in tal guisa ne parla e ne contrista:
`Ecco, a voi noto è il mio poter’ ne dice
`e quanto sopra voi l’imperio ho pieno.
Pende dal mio voler ch’altri infelice
perda in prigione eterna il ciel sereno,
altri divenga augello, altri radice
faccia e germogli nel terrestre seno,
o che s’induri in scelce, o in molle fonte
si liquefaccia, o vesta irsuta fronte.
Ben potete schivar l’aspro mio sdegno,
quando servire al mio piacer v’aggrade:
farvi pagani, e per lo nostro regno
contra l’empio Buglion mover le spade.’
Ricusàr tutti ed aborrír l’indegno
patto; solo a Rambaldo il persuade.
Noi (ché non val difesa) entro una buca
di lacci avolse ove non è che luca.
Poi nel castello istesso a sorte venne
Tancredi, ed egli ancor fu prigioniero.
Ma poco tempo in carcere ci tenne
la falsa maga; e (s’io n’intesi il vero)
di seco trarne da quell’empia ottenne
del signor di Damasco un messaggiero,
ch’al re d’Egitto in don fra cento armati
ne conduceva inermi e incatenati.
Cosí ce n’andavamo; e come l’alta
providenza del Cielo ordina e move,
il buon Rinaldo, il qual piú sempre essalta
la gloria sua con opre eccelse e nove,
in noi s’aviene, e i cavalieri assalta
nostri custodi e fa l’usate prove:
gli uccide e vince, e di quell’arme loro
fa noi vestir che nostre in prima foro.
Io ’l vidi, e ’l vider questi; e da lui porta
ci fu la destra, e fu sua voce udita.
Falso è il romor che qui risuona e porta
sí rea novella, e salva è la sua vita;
ed oggi è il terzo dí che con la scorta
d’un peregrin fece da noi partita
per girne in Antiochia, e pria depose
l’arme che rotte aveva e sanguinose."
Cosí parlava, e l’Eremita intanto
volgeva al cielo l’una e l’altra luce.
Non un color, non serba un volto: oh quanto
piú sacro e venerabile or riluce!
Pieno di Dio, rapto dal zelo, a canto
a l’angeliche menti ei si conduce;
gli si svela il futuro, e ne l’eterna
serie de gli anni e de l’età s’interna.
e la bocca sciogliendo in maggior suono
scopre le cose altrui ch’indi verranno.
Tutti conversi a le sembianze, al tuono
de l’insolita voce attenti stanno.
"Vive" dice "Rinaldo, e l’altre sono
arti e bugie di femminile inganno.
Vive, e la vita giovanetta acerba
a piú mature glorie il Ciel riserba.
Presagi sono e fanciulleschi affanni
questi ond’or l’Asia lui conosce e noma.
Ecco chiaro vegg’io, correndo gli anni,
ch’egli s’oppone a l’empio Augusto e ’l doma
e sotto l’ombra de gli argentei vanni
l’aquila sua copre la Chiesa e Roma,
che de la fèra avrà tolte a gli artigli;
e ben di lui nasceran degni i figli.
De’ figli i figli, e chi verrà da quelli,
quinci avran chiari e memorandi essempi;
e da’ Cesari ingiusti e da’ rubelli
difenderan le mitre e i sacri tèmpi.
Premer gli alteri e sollevar gli imbelli,
difender gli innocenti e punir gli empi,
fian l’arti lor: cosí verrà che vóle
l’aquila estense oltra le vie del sole.
E dritto è ben che, se ’l ver mira e ’l lume,
ministri a Pietro i folgori mortali.
U’ per Cristo si pugni, ivi le piume
spiegar dée sempre invitte e trionfali,
ché ciò per suo nativo alto costume
dielle il Cielo e per leggi a lei fatali.
Onde piace là su che in questa degna
impresa, onde partí, chiamato vegna."
Qui dal soggetto vinto il saggio Piero
stupido tace, e ’l cor ne l’alma faccia
troppo gran cose de l’estense altero
valor ragiona, onde tutto altro spiaccia.
Sorge intanto la notte, e ’l velo nero
per l’aria spiega e l’ampia terra abbraccia;
vansene gli altri e dan le membra al sonno,
ma i suoi pensieri in lui dormir non ponno.