Già la morte o il consiglio o la paura
da le difese ogni pagano ha tolto,
e sol non s’è da l’espugnate mura
il pertinace Argante anco rivolto.
Mostra ei la faccia intrepida e secura
e pugna pur fra gli inimici avolto,
piú che morir temendo esser respinto;
e vuol morendo anco parer non vinto.
Ma sovra ogn’altro feritore infesto
sovragiunge Tancredi e lui percote.
Ben è il circasso a riconoscer presto
al portamento, a gli atti, a l’arme note,
lui che pugnò già seco, e ’l giorno sesto
tornar promise, e le promesse ír vòte.
Onde gridò: "Cosí la fé, Tancredi,
mi servi tu? cosí a la pugna or riedi?
Tardi riedi, e non solo; io non rifiuto
però combatter teco e riprovarmi,
benché non qual guerrier, ma qui venuto
quasi inventor di machine tu parmi.
Fatti scudo de’ tuoi, trova in aiuto
novi ordigni di guerra e insolite armi,
ché non potrai da le mie mani, o forte
de le donne uccisor, fuggir la morte."
Sorrise il buon Tancredi un cotal riso
di sdegno, e in detti alteri ebbe risposto:
"Tardo è il ritorno mio, ma pur aviso
che frettoloso ti parrà ben tosto,
e bramerai che te da me diviso
o l’alpe avesse o fosse il mar fraposto;
e che del mio indugiar non fu cagione
tema o viltà, vedrai co ’l paragone.
Vienne in disparte pur tu ch’omicida
sei de’ giganti solo e de gli eroi:
l’uccisor de le femine ti sfida."
Cosí gli dice; indi si volge a i suoi
e fa ritrarli da l’offesa, e grida:
"Cessate pur di molestarlo or voi,
ch’è proprio mio piú che comun nemico
questi, ed a lui mi stringe obligo antico."
"Or discendine giú, solo o seguito
come piú vuoi"; ripiglia il fer circasso
"va’ in frequentato loco od in romito,
ché per dubbio o svantaggio io non ti lasso."
Sí fatto ed accettato il fero invito,
movon concordi a la gran lite il passo:
l’odio in un gli accompagna, e fa il rancore
l’un nemico de l’altro or difensore.
Grande è il zelo d’onor, grande il desire
che Tancredi del sangue ha del pagano,
né la sete ammorzar crede de l’ire
se n’esce stilla fuor per l’altrui mano;
e con lo scudo il copre, e: "Non ferire"
grida a quanti rincontra anco lontano;
sí che salvo il nimico infra gli amici
tragge da l’arme irate e vincitrici.
Escon de la cittade e dan le spalle
a i padiglion de le accampate genti,
e se ne van dove un girevol calle
li porta per secreti avolgimenti;
e ritrovano ombrosa angusta valle
tra piú colli giacer, non altrimenti
che se fosse un teatro o fosse ad uso
di battaglie e di caccie intorno chiuso.
Qui si fermano entrambi, e pur sospeso
volgeasi Argante a la cittade afflitta.
Vede Tancredi che ’l pagan difeso
non è di scudo, e ’l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: "Or qual pensier t’ha preso?
pensi ch’è giunta l’ora a te prescritta?
S’antivedendo ciò timido stai,
è ’l tuo timore intempestivo omai."
"Penso" risponde "a la città del regno
di Giudea antichissima regina,
che vinta or cade, e indarno esser sostegno
io procurai de la fatal ruina,
e ch’è poca vendetta al mio disdegno
il capo tuo che ’l Cielo or mi destina."
Tacque, e incontra si van con gran risguardo,
ché ben conosce l’un l’altro gagliardo.
È di corpo Tancredi agile e sciolto,
e di man velocissimo e di piede;
sovrasta a lui con l’alto capo, e molto
di grossezza di membra Argante eccede.
Girar Tancredi inchino in sé raccolto
per aventarsi e sottentrar si vede;
e con la spada sua la spada trova
nemica, e ’n disviarla usa ogni prova.
Ma disteso ed eretto il fero Argante
dimostra arte simile, atto diverso.
Quanto egli può, va co ’l gran braccio inante
e cerca il ferro no, ma il corpo averso.
Quel tenta aditi novi in ogni istante,
questi gli ha il ferro al volto ognor converso:
minaccia, e intento a proibirgli stassi
furtive entrate e súbiti trapassi.
Cosí pugna naval, quando non spira
per lo piano del mare Africo o Noto,
fra due legni ineguali egual si mira,
ch’un d’altezza preval, l’altro di moto:
l’un con volte e rivolte assale e gira
da prora a poppa, e si sta l’altro immoto;
e quando il piú leggier se gli avicina.,
d’alta parte minaccia alta ruina.
Mentre il latin di sottentrar ritenta
sviando il ferro che si vede opporre,
vibra Argante la spada e gli appresenta
la punta a gli occhi; egli al riparo accorre,
ma lei sí presta allor, sí violenta
cala il pagan che ’l difensor precorre
e ’l fère al fianco; e visto il fianco infermo,
grida: "Lo schermitor vinto è di schermo."
Fra lo sdegno Tancredi e la vergogna
si rode, e lascia i soliti riguardi,
e in cotal guisa la vendetta agogna
che sua perdita stima il vincer tardi.
Sol risponde co ’l ferro a la rampogna
e ’l drizza a l’elmo. Ove apre il passo a i guardi.
Ribatte Argante il colpo, e risoluto
Tancredi a mezza spada è già venuto.
Passa veloce allor co ’l piè sinestro
e con la manca al dritto braccio il prende,
e con la destra intanto il lato destro
di punte mortalissime gli offende.
"Questa" diceva "al vincitor maestro
il vinto schermidor risposta rende."
Freme il circasso e si contorce e scote,
ma il braccio prigionier ritrar non pote.
Alfin lasciò la spada a la catena
pendente, e sotto al buon latin si spinse.
Fe’ l’istesso Tancredi, e con gran lena
l’un calcò l’altro e l’un l’altro recinse;
né con piú forza da l’adusta arena
sospese Alcide il gran gigante e strinse,
di quella onde facean tenaci nodi
le nerborute braccia in vari modi.
Tai fur gli avolgimenti e tai le scosse
ch’ambi in un tempo il suol presser co ’l fianco.
Argante, od arte o sua ventura fosse,
sovra ha il braccio migliore e sotto il manco.
Ma la man ch’è piú atta a le percosse
sottogiace impedita al guerrier franco;
ond’ei, che ’l suo svantaggio e ’l rischio vede,
si sviluppa da l’altro e salta in piede.
Sorge piú tardi e un gran fendente, in prima
che sorto ei sia, vien sopra al saracino.
Ma come a l’Euro la frondosa cima
piega e in un tempo la solleva il pino,
cosí lui sua virtute alza e sublima
quando ei n’è già per ricader piú chino.
Or ricomincian qui colpi a vicenda:
la pugna ha manco d’arte ed è piú orrenda.
Esce a Tancredi in piú d’un loco il sangue,
ma ne versa il pagan quasi torrenti.
Già ne le sceme forze il furor langue,
sí come fiamma in deboli alimenti.
Tancredi che ’l vedea co ’l braccio essangue
girar i colpi ad or ad or piú lenti,
dal magnanimo cor deposta l’ira,
placido gli ragiona e ’l piè ritira:
"Cedimi, uom forte, o riconoscer voglia
me per tuo vincitore o la fortuna;
né ricerco da te trionfo o spoglia,
né mi riserbo in te ragione alcuna."
Terribile il pagan piú che mai soglia,
tutte le furie sue desta e raguna;
risponde: "Or dunque il meglio aver ti vante
ed osi di viltà tentare Argante?
Usa la sorte tua, ché nulla io temo
né lascierò la tua follia impunita."
Come face rinforza anzi l’estremo
le fiamme, e luminosa esce di vita,
tal riempiendo ei d’ira il sangue scemo
rinvigorí la gagliardia smarrita,
e l’ore de la morte omai vicine
volse illustrar con generoso fine.
La man sinistra a la compagna accosta,
e con ambe congiunte il ferro abbassa;
cala un fendente, e benché trovi opposta
la spada ostil, la sforza ed oltre passa,
scende a la spalla, e giú di costa in costa
molte ferite in un sol punto lassa.
Se non teme Tancredi, il petto audace
non fe’ natura di timor capace.
Quel doppia il colpo orribile, ed al vento
le forze e l’ire inutilmente ha sparte,
perché Tancredi, a la percossa intento,
se ne sottrasse e si lanciò in disparte.
Tu, dal tuo peso tratto, in giú co ’l mento
n’andasti, Argante, e non potesti aitarte:
per te cadesti, aventuroso in tanto
ch’altri non ha di tua caduta il vanto.
Il cader dilatò le piaghe aperte,
e ’l sangue espresso dilagando scese.
Punta ei la manca in terra, e si converte
ritto sovra un ginocchio a le difese.
"Renditi" grida, e gli fa nove offerte,
senza noiarlo, il vincitor cortese.
Quegli di furto intanto il ferro caccia
e su ’l tallone il fiede, indi il minaccia.
Infuriossi allor Tancredi, e disse:
"Cosí abusi, fellon, la pietà mia?"
Poi la spada gli fisse e gli rifisse
ne la visiera, ove accertò la via.
Moriva Argante, e tal moria qual visse:
minacciava morendo e non languia.
Superbi, formidabili e feroci
gli ultimi moti fur, l’ultime voci.
Ripon Tancredi il ferro, e poi devoto
ringrazia Dio del trionfal onore;
ma lasciato di forze ha quasi vòto
la sanguigna vittoria il vincitore.
Teme egli assai che del viaggio al moto
durar non possa il suo fievol vigore;
pur s’incamina, e cosí passo passo
per le già corse vie move il piè lasso.
Trar molto il debil fianco oltra non pote
e quanto piú si sforza piú s’affanna,
onde in terra s’asside e pon le gote
su la destra che par tremula canna.
Ciò che vedea pargli veder che rote,
e di tenebre il dí già gli s’appanna.
Al fin isviene; e ’l vincitor dal vinto
non ben saria nel rimirar distinto.
Mentre qui segue la solinga guerra,
che privata cagion fe’ cosí ardente,
l’ira de’ vincitor trascorre ed erra
per la città su ’l popolo nocente.
Or chi giamai de l’espugnata terra
potrebbe a pien l’imagine dolente
ritrarre in carte od adeguar parlando
lo spettacolo atroce e miserando?
Ogni cosa di strage era già pieno,
vedeansi in mucchi e in monti i corpi avolti:
là i feriti su i morti, e qui giacieno
sotto morti insepolti egri sepolti.
Fuggian premendo i pargoletti al seno
le meste madri co’ capegli sciolti,
e ’l predator, di spoglie e di rapine
carco, stringea le vergini nel crine.
Ma per le vie ch’al piú sublime colle
saglion verso occidente, ond’è il gran tempio,
tutto del sangue ostile orrido e molle
Rinaldo corre e caccia il popolo empio.
La fera spada il generoso estolle
sovra gli armati capi e ne fa scempio;
è schermo frale ogn’elmo ed ogni scudo:
difesa è qui l’esser de l’arme ignudo.
Sol contra il ferro il nobil ferro adopra,
e sdegna ne gli inermi esser feroce;
e que’ ch’ardir non armi, arme non copra,
caccia co l’ guardo e con l’orribil voce.
Vedresti, di valor mirabil opra,
come or disprezza, ora minaccia, or noce,
come con rischio disegual fugati
sono egualmente pur nudi ed armati.
Già co ’l piú imbelle vulgo anco ritratto
s’è non picciolo stuol del piú guerriero
nel tempio che, piú volte arso e disfatto,
si noma ancor, dal fondator primiero,
di Salamone; e fu per lui già fatto
di cedri, d’oro e di bei marmi altero.
Or non sí ricco già, pur saldo e forte
è d’alte torri e di ferrate porte.
Giunto il gran cavaliero ove raccolte
s’eran le turbe in loco ampio e sublime,
trovò chiuse le porte e trovò molte
difese apparecchiate in su le cime.
Alzò lo sguardo orribile e due volte
tutto il mirò da l’alte parti a l’ime,
varco angusto cercando, ed altrettante
il circondò con le veloci piante.
Qual lupo predatore a l’aer bruno
le chiuse mandre insidiando aggira,
secco l’avide fauci, e nel digiuno
da nativo odio stimulato e d’ira,
tale egli intorno spia s’adito alcuno
(piano od erto che siasi) aprir si mira;
si ferma alfin ne la gran piazza, e d’alto
stanno aspettando i miseri l’assalto.
In disparte giacea (qual che si fosse
l’uso a cui si serbava) eccelsa trave,
né cosí alte mai, né cosí grosse
spiega l’antenne sue ligura nave.
Vèr la gran porta il cavalier la mosse
con quella man cui nessun pondo è grave,
e recandosi lei di lancia in modo
urtò d’incontro impetuoso e sodo.
Restar non può marmo o metallo inanti
al duro urtare, al riurtar piú forte.
Svelse dal sasso i cardini sonanti,
ruppe i serragli ed abbatté le porte.
Non l’ariete di far piú si vanti,
non la bombarda, fulmine di morte.
Per la dischiusa via la gente inonda
quasi un diluvio, e ’l vincitor seconda.
Rende misera strage atra e funesta
l’alta magion che fu magion di Dio.
O giustizia del Ciel, quanto men presta
tanto piú grave sovra il popol rio!
Dal tuo secreto proveder fu desta
l’ira ne’ cor pietosi, e incrudelio.
Lavò co ’l sangue suo l’empio pagano
quel tempio che già fatto avea profano.
Ma intanto Soliman vèr la gran torre
ito se n’è che di David s’appella,
e qui fa de’ guerrier l’avanzo accòrre,
e sbarra intorno a questa strada e quella;
e ’l tiranno Aladino anco vi corre.
Come il Soldan lui vede, a lui favella:
"Vieni, o famoso re, vieni; e là sovra
a la rocca fortissima ricovra,
ché dal furor de le nemiche spade
guardar vi puoi la tua salute e ’l regno."
"Oimè," risponde "oimè, che la cittade
strugge dal fondo suo barbaro sdegno,
e la mia vita e ’l nostro imperio cade.
Vissi, e regnai; non vivo piú, né regno.
Ben si può dir: `Noi fummo.’ A tutti è giunto
l’ultimo dí, l’inevitabil punto."
"Ov’è, signor la tua virtute antica?"
disse il Soldan tutto cruccioso allora.
"Tolgaci i regni pur sorte nemica,
ché ’l regal pregio è nostro e ’n noi dimora.
Ma colà dentro omai da la fatica
le stanche e gravi tue membra ristora."
Cosí gli parla, e fa che si raccoglia
il vecchio re ne la guardata soglia.
Egli ferrata mazza a due man prende
e si ripon la fida spada al fianco,
e stassi al varco intrepido e difende
il chiuso de le strade al popol franco.
Eran mortali le percosse orrende:
quella che non uccide, atterra almanco.
Già fugge ognun da la sbarrata piazza,
dove appressar vede l’orribil mazza.
Ecco da fera compagnia seguito
sopragiungeva il tolosan Raimondo.
Al periglioso passo il vecchio ardito
corse, e sprezzò di quei gran colpi il pondo.
Primo ei ferí, ma invano ebbe ferito;
non ferí invano il feritor secondo,
ch’in fronte il colse, e l’atterrò co ’l peso
supin, tremante, a braccia aperte e steso.
Finalmente ritorna anco ne’ vinti
la virtú che ’l timore avea fugata,
e i Franchi vincitori o son respinti
o pur caggiono uccisi in su l’entrata.
Ma il Soldan, che giacere infra gli estinti
il tramortito duce a i piè si guata,
grida a i suoi cavalier: "Costui sia tratto
dentro a le sbarre e prigionier sia fatto."
Si movon quegli ad esseguir l’effetto,
ma trovan dura e faticosa impresa
perché non è d’alcun de’ suoi negletto
Raimondo, e corron tutti in sua difesa.
Quinci furor, quindi pietoso affetto
pugna, né vil cagione è di contesa:
di sí grand’uom la libertà, la vita,
questi a guardar, quegli a rapir invita.
Pur vinto avrebbe a lungo andar la prova
il Soldano ostinato a la vendetta,
ch’a la fulminea mazza oppor non giova
o doppio scudo o tempra d’elmo eletta;
ma grande aita a i suoi nemici e nova
di qua di là vede arrivare in fretta,
ché da duo lati opposti in un sol punto
il sopran duce e ’l gran guerriero è giunto.
Come pastor, quando fremendo intorno
il vento e i tuoni e balenando i lampi
vede oscurar di mille nubi il giorno,
ritrae le greggie da gli aperti campi,
e sollecito cerca alcun soggiorno
ove l’ira del ciel securo scampi,
ei co ’l grido indrizzando e con la verga
le mandre inanti, a gli ultimi s’atterga;
cosí il pagan, che già venir sentia
l’irreparabil turbo e la tempesta
che di fremiti orrendi il ciel feria
d’arme ingombrando e quella parte e questa
le custodite genti inanzi invia
ne la gran torre, ed egli ultimo resta:
ultimo parte, e sí cede al periglio
ch’audace appare in provido consiglio.
Pur a fatica avien che si ripari
dentro a le porte, e le riserra a pena
che già, rotte le sbarre, a i limitari
Rinaldo vien, né quivi anco s’affrena.
Desio di superar chi non ha pari
in opra d’arme, e giuramento il mena;
ché non oblia che in voto egli promise
di dar morte a colui che ’l dano uccise.
E ben allor allor l’invitta mano
tentato avria l’inespugnabil muro,
né forse colà dentro era il Soldano
dal fatal suo nemico assai securo;
ma già suona a ritratta il capitano,
già l’orizonte d’ogni intorno è scuro.
Goffredo alloggia ne la terra, e vòle
rinovar poi l’assalto al novo sole.
Diceva a i suoi lietissimo in sembienza:
"Favorito ha il gran Dio l’armi cristiane:
fatto è il sommo de’ fatti, e poco avanza
de l’opra e nulla del timor rimane.
La torre (estrema e misera speranza
degli infedeli) espugnarem dimane.
Pietà fra tanto a confortar v’inviti
con sollecito amor gli egri e i feriti.
Ite, e curate quei c’han fatto acquisto
di questa patria a noi co ’l sangue loro.
Ciò piú conviensi a i cavalier di Cristo,
che desio di vendetta o di tesoro.
Troppo, ahi! troppo di strage oggi s’è visto,
troppa in alcuni avidità de l’oro;
rapir piú oltra, e incrudelir i’ vieto.
Or divulghin le trombe il mio divieto."
Tacque, e poi se n’andò là dove il conte
riavuto dal colpo anco ne geme.
Né Soliman con meno ardita fronte
a i suoi ragiona, e ’l duol ne l’alma preme:
"Siate, o compagni, di fortuna a l’onte
invitti insin che verde è fior di speme,
ché sotto alta apparenza di fallace
spavento oggi men grave il danno giace.
Prese i nemici han sol le mura e i tetti
e ’l vulgo umil, né la cittade han presa,
ché nel capo del re, ne’ vostri petti,
ne le man vostre è la città compresa.
Veggio il re salvo e salvi i suoi piú eletti,
veggio che ne circonda alta difesa.
Vano trofeo d’abbandonata terra
abbiansi i Franchi; alfin perdran la guerra.
E certo i’ son che perderanla alfine,
ché ne la sorte prospera insolenti
fian vòlti a gli omicidi, a le rapine
ed a gli ingiuriosi abbracciamenti;
e saran di leggier tra le ruine,
tra gli stupri e le prede, oppressi e spenti,
se in tanta tracotanza omai sorgiunge
l’oste d’Egitto, e non pote esser lunge.
Intanto noi signoreggiar co’ sassi
potrem de la città gli alti edifici,
ed ogni calle onde al Sepolcro vassi
torràn le nostre machine a i nemici."
Cosí, vigor porgendo a i cor già lassi,
la speme rinovò ne gli infelici.
Or mentre qui tai cose eran passate,
errò Vafrin tra mille schiere armate.
A l’essercito avverso eletto in spia,
già dechinando il sol, partí Vafrino;
e corse oscura e solitaria via
notturno e sconosciuto peregrino.
Ascalona passò che non uscia
dal balcon d’oriente anco il mattino;
poi quando è nel meriggio il solar lampo,
a vista fu del poderoso campo.
Vide tende infinite e ventillanti
stendardi in cima azzurri e persi e gialli,
e tante udí lingue discordi e tanti
timpani e corni e barbari metalli
e voci di cameli e d’elefanti,
tra ’l nitrir de’ magnanimi cavalli,
che fra sé disse: "Qui l’Africa tutta
translata viene e qui l’Asia è condutta."
Mira egli alquanto pria come sia forte
del campo il sito, e qual vallo il circonde;
poscia non tenta vie furtive e torte,
né dal frequente popolo s’asconde,
ma per dritto sentier tra regie porte
trapassa, ed or dimanda ed or risponde.
A dimande, a risposte astute e pronte
accoppia baldanzosa audace fronte.
Di qua di là sollecito s’aggira
per le vie, per le piazze e per le tende.
I guerrier, i destrier, l’arme rimira,
l’arti e gli ordini osserva e i nomi apprende.
Né di ciò pago, a maggior cose aspira:
spia gli occulti disegni e parte intende.
Tanto s’avolge, e cosí destro e piano,
ch’adito s’apre al padiglion soprano.
Vede, mirando qui, sdruscita tela,
ond’ha varco la voce, onde si scerne,
che là proprio risponde ove son de la
stanza regal le ritirate interne,
sí che i secreti del signor mal cela
ad uom ch’ascolti da le parti esterne.
Vafrin vi guata e par ch’ad altro intenda,
come sia cura sua conciar la tenda.
Stavasi il capitan la testa ignudo,
le membra armato e con purpureo ammanto.
Lunge due paggi avean l’elmo e lo scudo:
preme egli un’asta e vi s’appoggia alquanto.
Guardava un uom di torvo aspetto e crudo,
membruto ed alto, il qual gli era da canto.
Vafrino è attento e, di Goffredo a nome
parlar sentendo, alza gli orecchi al nome.
Parla il duce a colui: "Dunque securo
sei cosí tu di dar morte a Goffredo?"
Risponde quegli: "Io sonne, e ’n corte giuro
non tornar mai se vincitor non riedo.
Preverrò ben color che meco furo
al congiurare; e premio altro non chiedo
se non ch’io possa un bel trofeo de l’armi
drizzar nel Cairo, e sottopor tai carmi:
`Queste arme in guerra al capitan francese,
distruggitor de l’Asia, Ormondo trasse
quando gli trasse l’alma, e le sospese
perché memoria ad ogni età ne passe.’"
"Non fia" l’altro dicea "che ’l re cortese
l’opera grande inonorata lasse:
ben ei darà ciò che per te si chiede,
ma congiunta l’avrai d’alta mercede.
Or apparecchia pur l’arme mentite,
ché ’l giorno omai de la battaglia è presso.
"Son" rispose "già preste." E qui, fornite
queste parole, e ’l duce tacque ed esso.
Restò Vafrino a le gran cose udite
sospeso e dubbio, e rivolgea in se stesso
qual arti di congiura e quali sieno
le mentite arme, e no ’l comprese a pieno.
Indi partissi e quella notte intera
desto passò, ch’occhio serrar non volse;
ma quando poi di novo ogni bandiera
a l’aure matutine il campo sciolse,
anch’ei marciò con l’altra gente in schiera,
fermossi anch’egli ov’ella albergo tolse,
e pur anco tornò di tenda in tenda
per udir cosa onde il ver meglio intenda.
Cercando, trova in sede alta e pomposa
fra cavalieri Armida e fra donzelle,
che stassi in sé romita e sospirosa:
fra sé co’ suoi pensier par che favelle.
Su la candida man la guancia posa,
e china a terra l’amorose stelle.
Non sa se pianga o no: ben può vederle
umidi gli occhi e gravidi di perle.
Vedele incontra il fero Adrasto assiso
che par ch’occhio non batta e che non spiri,
tanto da lei pendea, tanto in lei fiso
pasceva i suoi famelici desiri.
Ma Tisaferno, or l’uno or l’altro in viso
guardando, or vien che brami, or che s’adiri;
e segna il nobil volto or di colore
di rabbioso disdegno ed or d’amore.
Scorge poscia Altamor, ch’in cerchio accolto
fra le donzelle alquanto era in disparte.
Non lascia il desir vago a freno sciolto,
ma gira gli occhi cupidi con arte:
volge un guardo a la mano, uno al bel volto,
talora insidia piú guardata parte,
e là s’interna ove mal cauto apria
fra due mamme un bel vel secreta via.
Alza alfin gli occhi Armida, e pur alquanto
la bella fronte sua torna serena;
e repente fra i nuvoli del pianto
un soave sorriso apre e balena.
"Signor," dicea "membrando il vostro vanto
l’anima mia pote scemar la pena,
ché d’esser vendicata in breve aspetta,
e dolce è l’ira in aspettar vendetta."
Risponde l’indian: "La fronte mesta
deh, per Dio! rasserena, e ’l duolo alleggia,
ch’assai tosto averrà che l’empia testa
di quel Rinaldo a piè tronca ti veggia,
o menarolti prigionier con questa
ultrice mano, ove prigion tu ’l chieggia.
Cosí promisi in vòto." Or l’altro ch’ode,
moto non fa, ma tra suo cor si rode.
Volgendo in Tisaferno il dolce sguardo:
"Tu, che dici, signor?" colei soggiunge.
Risponde egli infingendo: "Io che son tardo
seguiterò il valor cosí da lunge
di questo tuo terribile e gagliardo."
E con tai detti amaramente il punge.
Ripiglia l’indo allor: "Ben è ragione
che lunge segua e tema il paragone."
Crollando Tisaferno il capo altero,
disse: "Oh foss’io signor del mio talento!
libero avessi in questa spada impero!
ché tosto ei si parria chi sia piú lento.
Non temo io te né tuoi gran vanti, o fero;
ma il Cielo e l’inimico Amor pavento."
Tacque; e sorgeva Adrasto a far disfida,
ma la prevenne e s’interpose Armida.
Diss’ella: "O cavalier, perché quel dono,
donatomi piú volte, anco togliete?
Miei campion sète voi, pur esser buono
dovria tal nome a por tra voi quiete.
Meco s’adira chi s’adira: io sono
ne l’offese l’offesa, e voi ’l sapete."
Cosí lor parla, e cosí avien che accordi
sotto giogo di ferro alme discordi.
È presente Vafrino e ’l tutto ascolta,
e sottrattone il vero indi si toglie.
Spia de l’alta congiura, e lei ravvolta
trova in silenzio e nulla ne raccoglie.
Chiedene improntamente anco tal volta,
e la difficoltà cresce le voglie.
O qui lasciar la vita egli è disposto,
o riportarne il gran secreto ascosto.
Mille e piú vie d’accorgimento ignote,
mille ripensa inusitate frodi,
e pur con tutto ciò non gli son note
de l’occulta congiura e l’arme e i modi.
Fortuna alfin (quel che per sé non pote)
isviluppò d’ogni suo dubbio i nodi,
si ch’ei distinto e manifesto intese
come l’insidie al pio Buglion sian tese.
Era tornato ov’è pur anco assisa
fra’ suoi campioni la nemica amante,
ch’ivi opportun l’investigarne avisa
ove traean genti sí varie e tante.
Or qui s’accosta a una donzella, in guisa
che par che v’abbia conoscenza inante;
par v’abbia d’amistade antica usanza,
e ragiona in affabile sembianza.
Egli dicea, quasi per gioco: " Anch’io
vorrei d’alcuna bella esser campione,
e troncar pensarei co ’l ferro mio
il capo o di Rinaldo o del Buglione.
Chiedila pure a me, se n’hai desio,
la testa d’alcun barbaro barone."
Cosí comincia, e pensa a poco a poco
a piú grave parlar ridur il gioco.
Ma in questo dir sorrise, e fe’ ridendo
un cotal atto suo nativo usato.
Una de l’altre allor qui sorgiungendo
l’udí, guardollo, e poi gli venne a lato;
disse: "Involarti a ciascun’altra intendo,
né ti dorrai d’amor male impiegato.
In mio campion t’eleggo; ed in disparte,
come a mio cavalier, vuo’ ragionarte."
Ritirollo, e parlò: "Riconosciuto
ho te, Vafrin; tu me conoscer déi."
Nel cor turbossi lo scudiero astuto,
pur si rivolse sorridendo a lei:
"Non t’ho (che mi sovenga) unqua veduto,
e degna pur d’esser mirata sei.
Questo so ben, ch’assai vario da quello
che tu dicesti è il nome ond’io m’appello.
Me su la piaggia di Biserta aprica
Lesbin produsse, e mi nomò Almanzorre."
Tosto disse ella: "Ho conoscenza antica
d’ogn’esser tuo, né già mi voglio apporre.
Non ti celar da me, ch’io sono amica,
ed in tuo pro vorrei la vita esporre.
Erminia son, già di re figlia, e serva
poi di Tancredi un tempo, e tua conserva.
Ne la dolce prigion due lieti mesi
pietoso prigionier m’avesti in guarda,
e mi servisti in bei modi cortesi.
Ben dessa i’ son, ben dessa i’ son; riguarda."
Lo scudier, come pria v’ha gli occhi intesi,
la bella faccia a ravvisar non tarda.
"Vivi" ella soggiungea "da me securo:
per questo ciel, per questo sol te ’l giuro.
Anzi pregar ti vo’ che, quando torni,
mi riconduca a la prigion mia cara.
Torbide notti e tenebrosi giorni,
misera, vivo in libertate amara.
E se qui per ispia forse soggiorni,
ti si fa incontro alta fortuna e rara:
saprai da me congiure, e ciò ch’altrove
malagevol sarà che tu ritrove."
Cosí gli parla, e intanto ei mira e tace;
pensa a l’essempio de la falsa Armida.
"Femina è cosa garrula e fallace:
vòle e disvòle; è folle uom che se ’n fida."
Sí tra sé volge. "Or, se venir ti piace,"
alfin le disse "io ne sarò tua guida.
Sia fermato tra noi questo e conchiuso,
serbisi il parlar d’altro a miglior uso."
Gli ordini danno di salire in sella
anzi il mover del campo allora allora.
Parte Vafrin dal padiglione, ed ella
si torna a l’altre e alquanto ivi dimora.
Di scherzar fa sembianza e pur favella
del campion novo, e se ne vien poi fora;
viene al loco prescritto e s’accompagna,
ed escon poi del campo a la campagna.
Già eran giunti in parte assai romita
e già sparian le saracine tende,
quando ei le disse: "Or di’ come a la vita
del pio Goffredo altri l’insidie tende."
Allor colei de la congiura ordita
l’iniqua tela a lui dispiega e stende.
"Son" gli divisa "otto guerrier di corte,
tra’ quali il piú famoso è Ormondo il forte.
Questi (che che lor mova, odio o disegno)
han conspirato, e l’arte lor fia tale:
quel dí ch’in lite verrà d’Asia il regno
tra’ due gran campi in gran pugna campale,
avran su l’arme de la Croce il segno,
e l’arme avranno a la francesca; e quale
la guardia di Goffredo ha bianco e d’oro
il suo vestir, sarà l’abito loro.
Ma ciascun terrà cosa in su l’elmetto
che noto a i suoi per uom pagano il faccia.
Quando fia poi rimescolato e stretto
l’un campo e l’altro, elli porransi in traccia,
e insidieranno al valoroso petto
mostrando di custodi amica faccia;
e ’l ferro armato di veneno avranno,
perché mortal sia d’ogni piaga il danno.
E perché fra’ pagani anco risassi
ch’io so vostr’usi ed arme e sopraveste,
fèr che le false insegne io divisassi;
e fui costretta ad opere moleste.
Queste son le cagion che ’l campo io lassi:
fuggo l’imperiose altrui richieste;
schivo ed aborro in qual si voglia modo
contaminarmi in atto alcun di frodo.
Queste son le cagion, ma non già sole."
E qui si tacque, e di rossor si tinse
e chinò gli occhi, e l’ultime parole
ritener volle e non ben le distinse.
Lo scudier, che da lei ritrar pur vòle
ciò ch’ella vergognando in sé ristrinse,
"Di poca fede," disse "or perché cele
le piú vere cagioni al tuo fedele?"
Ella dal petto un gran sospiro apriva,
e parlava con suon tremante e roco:
"Mal guardata vergogna intempestiva,
vattene omai, non hai tu qui piú loco;
a che pur tenti, o in van ritrosa, o schiva,
celar co ’l fuoco tuo d’amor il foco?
Debiti fur questi rispetti inante,
non or che fatta son donzella errante."
Soggiunse poi: "La notte a me fatale
ed a la patria mia che giacque oppressa,
perdei piú che non parve; e ’l mio gran male
non ebbi in lei, ma derivò da essa.
Leve perdita è il regno, io co ’l regale
mio alto stato anco perdei me stessa:
per mai non ricovrarla, allor perdei
la mente, folle, e ’l core e i sensi miei.
Vafrin, tu sai che timidetta accorsi,
tanta strage vedendo e tante prede,
al tuo signor e mio, che prima i’ scorsi
armato por ne la mia reggia il piede;
e chinandomi a lui tai voci porsi:
`Invitto vincitor, pietà, mercede!
non prego io te per la mia vita: il fiore
salvami sol del verginale onore.’
Egli, la sua porgendo a la mia mano,
non aspettò che ’l mio pregar fornisse:
`Vergine bella, non ricorri in vano,
io ne sarò tuo difensor’ mi disse.
Allor un non so che soave e piano
sentii ch’al cor mi scese e vi s’affisse,
che serpendomi poi per l’alma vaga,
non so come, divenne incendio e piaga.
Visitommi poi spesso e ’n dolce suono
consolando il mio duol, meco si dolse.
Dicea: `L’intera libertà ti dono’
e de le spoglie mie spoglia non volse.
Oimè! che fu rapina e parve dono,
ché rendendomi a me da me mi tolse.
Quel mi rendé ch’è via men caro e degno,
ma s’usurpò del core a forza il regno.
Mal amor si nasconde. A te sovente
desiosa chiedea del mio signore.
Veggendo i segni tu d’inferma mente:
`Erminia,’ mi dicesti `ardi d’amore.’
Io te ’l negai, ma un mio sospiro ardente
fu piú verace testimon del core;
e ’n vece forse della lingua, il guardo
manifestava il foco onde tutt’ardo.
Sfortunato silenzio! avessi almeno
chiesta allor medicina al gran martire,
s’esser poscia dovea lentato il freno,
quando non giovarebbe, ai mio desire.
Partimmi in somma, e le mie piaghe in seno
portai celate e ne credei morire.
Al fin cercando al viver mio soccorso,
mi sciolse amor d’ogni rispetto il morso;
sí ch’a trovarne il mio signor io mossi
ch’egra mi fece e mi potea far sana.
Ma tra via fero intoppo attraversossi
di gente inclementissima e villana.
Poco mancò che preda lor non fossi,
pur in parte fuggimmi erma e lontana;
e colà vissi in solitaria cella,
cittadina de’ boschi e pastorella.
Ma poi che quel desio che fu ripresso
molti dí per la tema anco risorse,
tornarmi ritentando al loco stesso,
la medesma sciagura anco m’occorse.
Fuggir non potei già, ch’era omai presso
predatrice masnada e troppo corse.
Cosí fui presa, e quei che mi rapiro
Egizi fur ch’a Gaza indi se ’n giro,
e ’n don menàrmi al capitano, a cui
diedi di me contezza, e ’l persuasi
sí ch’onorata e inviolata fui
quei dí che con Armida ivi rimasi.
Cosí venni piú volte in forza altrui,
e me ’n sottrassi. Ecco i miei duri casi.
Pur le prime catene anco riserva
la tante volte liberata e serva.
Oh, pur colui che circondolle intorno
a l’alma, sí che non fia chi le scioglia,
non dica: `Errante ancella, altro soggiorno
cércati pure,’ e me seco non voglia;
ma pietoso gradisca il mio ritorno
e ne l’antica mia prigion m’accoglia!"
Cosí diceagli Erminia, e insieme andaro
la notte e ’l giorno ragionando a paro.
Il piú usato sentier lasciò Vafrino,
calle cercando o piú securo o corto.
Giunsero in loco a la città vicino
quando è il sol ne l’occaso e imbruna l’orto,
e trovaron di sangue atro il camino;
e poi vider nel sangue un guerrier morto
che le vie tutte ingombra, e la gran faccia
tien volta ai cielo e morto anco minaccia.
L’uso de l’arme e ’l portamento estrano
pagàn mostràrlo, e lo scudier trascorse;
un altro alquanto ne giacea lontano
che tosto a gli occhi di Vafrino occorse.
Egli disse fra sé: "Questi è cristiano."
Piú il mise poscia il vestir bruno in forse.
Salta di sella e gli discopre il viso,
ed: "Oimè," grida "è qui Tancredi ucciso."
A riguardar sovra il guerrier feroce
la male aventurosa era fermata,
quando dal suon de la dolente voce
per lo mezzo del cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
accorse in guisa d’ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
non scese no, precipitò di sella;
e in lui versò d’inessicabil vena
lacrime e voce di sospiri mista:
"In che misero punto or qui mi mena
fortuna? a che veduta amara e trista?
Dopo gran tempo i’ ti ritrovo a pena,
Tancredi, e ti riveggio e non son vista:
vista non son da te benché presente,
e trovando ti perdo eternamente.
Misera! non credea ch’a gli occhi miei
potessi in alcun tempo esser noioso.
Or cieca farmi volentier torrei
per non vederti, e riguardar non oso.
Oimè, de’ lumi già sí dolci e rei
ov’è la fiamma? ov’è il bel raggio ascoso?
de le fiorite guancie il bel vermiglio
ov’è fuggito? ov’è il seren del ciglio?
Ma che? squallido e scuro anco mi piaci.
Anima bella, se quinci entro gire,
s’odi il mio pianto, a le mie voglie audaci
perdona il furto e ’l temerario ardire:
da le pallide labra i freddi baci,
che piú caldi sperai, vuo’ pur rapire;
parte torrò di sue ragioni a morte,
baciando queste labra essangui e smorte.
Pietosa bocca che solevi in vita
consolar il mio duol di tue parole,
lecito sia ch’anzi la mia partita
d’alcun tuo caro bacio io mi console;
e forse allor, s’era a cercarlo ardita,
quel davi tu ch’ora conven ch’invole.
Lecito sia ch’ora ti stringa e poi
versi lo spirto mio fra i labri tuoi.
Raccogli tu l’anima mia seguace,
drizzala tu dove la tua se ’n gio."
Cosí parla gemendo, e si disface
quasi per gli occhi, e par conversa in rio.
Rivenne quegli a quell’umor vivace
e le languide labra alquanto aprio:
aprí le labra e con le luci chiuse
un suo sospir con que’ di lei confuse.
Sente la donna il cavalier che geme,
e forza è pur che si conforti alquanto:
"Apri gli occhi, Tancredi, a queste estreme
essequie" grida "ch’io ti fo co ’l pianto;
riguarda me che vuo’ venirne insieme
la lunga strada e vuo’ morirti a canto.
Riguarda me, non te ’n fuggir sí presto:
l’ultimo don ch’io ti dimando è questo."
Apre Tancredi gli occhi e poi gli abbassa
torbidi e gravi, ed ella pur si lagna.
Dice Vafrino a lei: "Questi non passa:
curisi adunque prima, e poi si piagna."
Egli il disarma, ella tremante e lassa
porge la mano a l’opere compagna,
mira e tratta le piaghe e, di ferute
giudice esperta, spera indi salute.
Vede che ’l mal da la stanchezza nasce
e da gli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha fuor ch’un velo onde gli fasce
le sue ferite, in sí solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
e di pietà le insegna insolite arti:
l’asciugò con le chiome e rilegolle
pur con le chiome che troncar si volle,
però che ’l velo suo bastar non pote
breve e sottile a le sí spesse piaghe.
Dittamo e croco non avea, ma note
per uso tal sapea potenti e maghe.
Già il mortifero sonno ei da sé scote,
già può le luci alzar mobili e vaghe.
Vede il suo servo, e la pietosa donna
sopra si mira in peregrina gonna.
Chiede: "O Vafrin, qui come giungi e quando?
E tu chi sei, medica mia pietosa?"
Ella, fra lieta e dubbia sospirando,
tinse il bel volto di color di rosa:
"Saprai" rispose "il tutto, or (te ’l comando
come medica tua) taci e riposa.
Salute avrai, prepara il guiderdone."
Ed al suo capo il grembo indi suppone.
Pensa intanto Vafrin come a l’ostello
agiato il porti anzi piú fosca sera,
ed ecco di guerrier giunge un drapello:
conosce ei ben che di Tancredi è schiera.
Quando affrontò il circasso e per appello
di battaglia chiamollo, insieme egli era;
non seguí lui perché non volse allora,
poi dubbioso il cercò de la dimora.
Seguian molti altri la medesma inchiesta,
ma ritrovarlo avien che lor succeda.
De le stesse lor braccia essi han contesta
quasi una sede ov’ei s’appoggi e sieda.
Disse Tancredi allora: "Adunque resta
il valoroso Argante a i corvi in preda?
Ah per Dio non si lasci, e non si frodi
o de la sepoltura o de le lodi.
Nessuna a me co ’l busto essangue e muto
riman piú guerra; egli morí qual forte,
onde a ragion gli è quell’onor devuto
che solo in terra avanzo è de la morte."
Cosí da molti ricevendo aiuto
fa che ’l nemico suo dietro si porte.
Vafrino al fianco di colei si pose,
sí come uom sòle a le guardate cose.
Soggiunse il prence: "A la città regale,
non a le tende mie, vuo’ che si vada,
ché s’umano accidente a questa frale
vita sovrasta, è ben ch’ivi m’accada;
ché ’l loco ove morí l’Uomo immortale
può forse al Cielo agevolar la strada,
e sarà pago un mio pensier devoto
d’aver peregrinato al fin del voto."
Disse, e colà portato egli fu posto
sovra le piume, e ’l prese un sonno cheto.
Vafrino a la donzella, e non discosto,
ritrova albergo assai chiuso e secreto.
Quinci s’invia dov’è Goffredo, e tosto
entra, ché non gli è fatto alcun divieto,
se ben allor de la futura impresa
in bilance i consigli appende e pesa.
Del letto, ove la stanca egra persona
posa Raimondo, il duce è su la sponda,
e d’ogn’intorno nobile corona
de’ piú potenti e piú saggi il circonda.
Or, mentre lo scudiero a lui ragiona,
non v’è chi d’altro chieda o chi risponda.
"Signor," dicea "come imponesti, andai
tra gli infedeli e ’l campo lor cercai.
Ma non aspettar già che di quell’oste
l’innumerabil numero ti conti.
I’ vidi ch’al passar le valli ascoste
sotto e’ teneva e i piani tutti e i monti;
vidi che dove giunga, ove s’accoste,
spoglia la terra e secca i fiumi e i fonti,
perché non bastan l’acque a la lor sete,
e poco è lor ciò che la Siria miete.
Ma sí de’ cavalier, sí de’ pedoni
sono in gran parte inutili le schiere:
gente che non intende ordini o suoni,
né stringe ferro e di lontan sol fère.
Ben ve ne sono alquanti eletti e buoni
che seguite di Persia han le bandiere,
e forse squadra anco migliore è quella
che la squadra immortal del re s’appella.
Ella è detta immortal perché difetto
in quel numero mai non fu pur d’uno,
ma empie il loco vòto e sempre eletto
sottentra uom novo ove ne manchi alcuno.
Il capitan del campo, Emiren detto,
pari ha in senno e valor pochi o nessuno,
e gli commanda il re che provocarti
debba a pugna campal con tutte l’arti.
Né credo già ch’al dí secondo tardi
l’essercito nemico a comparire.
Ma tu, Rinaldo, assai conven che guardi
il capo, ond’è fra lor tanto desire,
ché i piú famosi in arme e i piú gagliardi
gli hanno incontra arrotato il ferro e l’ire;
perché Armida se stessa in guiderdone
a qual di loro il troncherà propone.
Fra questi è il valoroso e nobil perso:
dico Altamoro, il re di Sarmacante,
Adrasto v’è, c’ha il regno suo là verso
i confin de l’aurora ed è gigante,
uom d’ogni umanità cosí diverso
che frena per cavallo un elefante.
V’è Tisaferno, a cui ne l’esser prode
concorde fama dà sovrana lode."
Cosí dice egli, e ’l giovenetto in volto
tutto scintilla ed ha negli occhi il foco.
Vorria già tra’ nemici essere avolto,
né cape in sé, né ritrovar può loco.
Quinci Vafrino al capitan rivolto:
"Signor," soggiunse "il sin qui detto è poco;
la somma de le cose or qui si chiuda:
impugneransi in te l’arme di Giuda."
Di parte in parte poi tutto gli espose
ciò che di fraudolente in lui si tesse:
l’arme e ’l venen, l’insegne insidiose,
il vanto udito, i premi e le promesse.
Molto chiesto gli fu, molto rispose;
breve tra lor silenzio indi successe,
poscia inalzando il capitano il ciglio
chiede a Raimondo: "Or qual è il tuo consiglio?"
Ed egli: "È mio parer ch’a i novi albori,
come concluso fu, piú non s’assaglia,
ma si stringa la torre, onde uscir fuori
quel ch’è là dentro a suo piacer non vaglia,
e posi il nostro campo e si ristori
fra tanto ad uopo di maggior battaglia.
Pensa poi tu s’è meglio usar la spada
con forza aperta o ’l gir tenendo a bada.
Mio giudizio è però che a te convegna
di te stesso curar sovra ogni cura,
ché per te vince l’oste e per te regna.
Chi senza te l’indrizza e l’assecura?
E perché i traditor non celi insegna,
mutar l’insegne a’ tuoi guerrier procura.
Cosí la fraude a te palese fatta
sarà da quel medesmo in chi s’appiatta."
Risponde il capitan: "Come hai per uso,
mostri amico voler e saggia mente;
ma quel che dubbio lasci, or fia conchiuso.
Uscirem contra a la nemica gente,
né già star deve in muro o ’n vallo chiuso
il campo domator de l’Oriente.
Sia da quegli empi il valor nostro esperto
ne la piú aperta luce, in loco aperto.
Non sosterran de le vittorie il nome,
non che de’ vincitor l’aspetto altero,
non che l’arme; e lor forze saran dome,
fermo stabilimento al nostro impero.
La torre o tosto renderassi o, come
altri no ’l vieti, il prenderla è leggiero."
Qui il magnanimo tace e fa partita,
ché ’l cader de le stelle al sonno invita.