Già il sole avea desti i mortali a l’opre,
già diece ore del giorno eran trascorse,
quando lo stuol ch’a la gran torre è sopre
un non so che da lunge ombroso scorse,
quasi nebbia ch’a sera il mondo copre,
e ch’era il campo amico al fin s’accorse,
che tutto intorno il ciel di polve adombra
e i colli sotto e le campagne ingombra.
Alzano allor da l’alta cima i gridi
insino al ciel l’assediate genti,
con quel romor con che da i traci nidi
vanno a stormi le gru ne’ giorni algenti
e tra le nubi a piú tepidi lidi
fuggon stridendo inanzi a i freddi venti,
ch’or la giunta speranza in lor fa pronte
la mano al saettar, la lingua a l’onte.
Ben s’avisaro i Franchi onde de l’ire
l’impeto novo e ’l minacciar procede,
e miran d’alta parte; ed apparire
il poderoso campo indi si vede.
Súbito avampa il generoso ardire
in que’ petti feroci e pugna chiede.
La gioventute altera accolta insieme:
"Dà" grida "il segno, invitto duce," e freme.
Ma nega il saggio offrir battaglia inante
a i novi albori e tien gli audaci a freno,
né pur con pugna instabile e vagante
vuol che si tentin gl’inimici almeno.
"Ben è ragion" dicea "che dopo tante
fatiche un giorno io vi ristori a pieno."
Forse ne’ suoi nemici anco la folle
credenza di se stessi ei nudrir volle.
Si prepara ciascun, de la novella
luce aspettando cupido il ritorno.
Non fu mai l’aria sí serena e bella
come a l’uscir del memorabil giorno:
l’alba lieta rideva, e parea ch’ella
tutti i raggi del sole avesse intorno;
e ’l lume usato accrebbe, e senza velo
volse mirar l’opere grandi il cielo.
Come vide spuntar l’aureo mattino,
mena fuori Goffredo il campo instrutto.
Ma pon Raimondo intorno al palestino
tiranno e de’ fedeli il popol tutto
che dal paese di Soria vicino
a’ suoi liberator s’era condutto:
numero grande; e pur non questo solo,
ma di Guasconi ancor lascia uno stuolo.
Vassene, e tal è in vista il sommo duce
ch’altri certa vittoria indi presume.
Novo favor del Cielo in lui riluce
e ’l fa grande ed augusto oltra il costume:
gli empie d’onor la faccia e vi riduce
di giovenezza il bel purpureo lume,
e ne l’atto de gli occhi e de le membra
altro che mortal cosa egli rassembra.
Ma non lunge se ’n va che giunge a fronte
de l’attendato essercito pagano,
e prender fa, ne l’arrivar, un monte
ch’egli ha da tergo e da sinistra mano;
e l’ordinanza poi, larga di fronte,
di fianchi angusta, spiega inverso il piano,
stringe in mezzo i pedoni e rende alati
con l’ale de’ cavalli entrambi i lati.
Nel corno manco, il qual s’appressa a l’erto
de l’occupato colle e s’assecura,
pon l’un e l’altro prencipe Roberto,
dà le parti di mezzo al frate in cura.
Egli a destra s’alluoga, ove è l’aperto
e ’l periglioso piú de la pianura,
ove il nemico, che di gente avanza,
di circondarlo aver potea speranza.
E qui i suoi Loteringhi e qui dispone
le meglio armate genti e le piú elette,
qui tra cavalli arcieri alcun pedone
uso a pugnar tra’ cavalier framette.
Poscia d’aventurier forma un squadrone
e d’altri altronde scelti, e presso il mette;
mette loro in disparte al lato destro,
e Rinaldo ne fa duce e maestro.
Ed a lui dice: "In te, signor, riposta
la vittoria e la somma è de le cose.
Tieni tu la tua schiera alquanto ascosta
dietro a queste ali grandi e spaziose.
Quando appressa il nemico, e tu di costa
l’assali e rendi van quanto e’ propose.
Proposto avrà, se ’l mio pensier non falle,
girando a i fianchi urtarci ed a le spalle."
Quindi sovra un corsier di schiera in schiera
parea volar tra’ cavalier, tra’ fanti.
Tutto il volto scopria per la visiera:
fulminava ne gli occhi e ne’ sembianti.
Confortò il dubbio e confermò chi spera
ed a l’audace rammentò i suoi vanti
e le sue prove al forte: a chi maggiori
gli stipendi promise, a chi gli onori.
Al fin colà fermossi ove le prime
e piú nobili squadre erano accolte,
e cominciò da loco assai sublime
parlare, ond’è rapito ogn’uom ch’ascolte.
Come in torrenti da l’alpestri cime
soglion giú derivar le nevi sciolte,
cosí correan volubili e veloci
da la sua bocca le canore voci.
"O de’ nemici di Giesú flagello,
campo mio, domator de l’Oriente,
ecco l’ultimo giorno, ecco pur quello
che già tanto bramaste omai presente.
Né senza alta cagion ch’il suo rubello
popolo or si raccolga il Ciel consente:
ogni vostro nimico ha qui congiunto
per fornir molte guerre in un sol punto.
Noi raccorrem molte vittorie in una,
né fia maggiore il rischio o la fatica.
Non sia, non sia tra voi temenza alcuna
in veder cosí grande oste nimica,
ché discorde fra sé mal si raguna
e ne gli ordini suoi se stessa intrica,
e di chi pugni il numero fia poco:
mancherà il core a molti, a molti il loco.
Quei che incontra verranci, uomini ignudi
fian per lo piú senza vigor, senz’arte,
che dal lor ozio o da i servili studi
sol violenza or allontana e parte.
Le spade omai tremar, tremar gli scudi,
tremar veggio l’insegne in quella parte,
conosco i suoni incerti e i dubbi moti:
veggio la morte loro a i segni noti.
Quel capitan che cinto d’ostro e d’oro
dispon le squadre, e par sí fero in vista,
vinse forse talor l’Arabo o ’l Moro,
ma il suo valor non fia ch’a noi resista.
Che farà, benché saggio, in tanta loro
confusione e sí torbida e mista?
Mal noto è, credo, e mal conosce i sui,
ed a pochi può dir: `Tu fosti, io fui.’
Ma capitano i’ son di gente eletta:
pugnammo un tempo e trionfammo insieme,
e poscia un tempo a mio voler l’ho retta.
Di chi di voi non so la patria o ’l seme?
quale spada m’è ignota? o qual saetta,
benché per l’aria ancor sospesa treme,
non saprei dir se franca o se d’Irlanda,
e quale a punto il braccio è che la manda?
Chiedo solite cose: ognun qui sembri
quel medesmo ch’altrove i’ l’ho già visto;
e l’usato suo zelo abbia, e rimembri
l’onor suo, l’onor mio, l’onor di Cristo.
Ite, abbattete gli empi; e i tronchi membri
calcate, e stabilite il santo acquisto.
Ché piú vi tengo a bada? assai distinto
ne gli occhi vostri il veggio: avete vinto."
Parve che nel fornir di tai parole
scendesse un lampo lucido e sereno,
come tal volta estiva notte sòle
scoter dal manto suo stella o baleno.
Ma questo creder si potea che ’l sole
giuso il mandasse dal piú interno seno;
e parve al capo irgli girando, e segno
alcun pensollo di futuro regno.
Forse (se deve infra celesti arcani
prosuntuosa entrar lingua mortale)
agnol custode fu che da i soprani
cori discese, e ’l circondò con l’ale.
Mentre ordinò Goffredo i suoi cristiani
e parlò fra le schiere in guisa tale,
l’egizio capitan lento non fue
ad ordinare, a confortar le sue.
Trasse le squadre fuor, come veduto
fu da lunge venirne il popol franco,
e fece anch’ei l’essercito cornuto,
co’ fanti in mezzo e i cavalieri al fianco.
E per sé il corno destro ha ritenuto,
e prepose Altamoro al lato manco;
Muleasse fra loro i fanti guida,
e in mezzo è poi de la battaglia Armida.
Co ’l duce a destra è il re de gli Indiani
e Tisaferno e tutto il regio stuolo.
Ma dove stender può ne’ larghi piani
l’ala sinistra piú spedito il volo,
Altamoro ha i re persi e i re africani
e i duo che manda il piú fervente suolo.
Quinci le frombe e le balestre e gli archi
esser tutti dovean rotati e scarchi.
Cosí Emiren gli schiera, e corre anch’esso
per le parti di mezzo e per gli estremi:
per interpreti or parla, or per se stesso,
mesce lodi e rampogne e pene e premi.
Talor dice ad alcun: "Perché dimesso
mostri, soldato, il volto? e di che temi?
che pote un contra cento? io mi confido
sol con l’ombra fugarli e sol co ’l grido."
Ad altri: "O valoroso, or via con questa
faccia a ritòr la preda a noi rapita."
L’imagine ad alcuno in mente desta,
glie la figura quasi e glie l’addita,
de la pregante patria e de la mesta
supplice famigliuola sbigottita.
"Credi" dicea "che la tua patria spieghi
per la mia lingua in tai parole i preghi:
`Guarda tu le mie leggi e i sacri tèmpi
fa’ ch’io del sangue mio non bagni e lavi;
assecura le vergini da gli empi,
e i sepolcri e le ceneri de gli avi.’
A te, piangendo i lor passati tempi,
mostran la bianca chioma i vecchi gravi,
a te la moglie le mammelle e ’l petto,
le cune e i figli e ’l marital suo letto."
A molti poi dicea: "L’Asia campioni
vi fa de l’onor suo; da voi s’aspetta
contra que’ pochi barbari ladroni
acerba, ma giustissima vendetta.
Cosí con arti varie, in vari suoni
le varie genti a la battaglia alletta.
Ma già tacciono i duci, e le vicine
schiere non parte omai largo confine.
Grande e mirabil cosa era il vedere
quando quel campo e questo a fronte venne
come, spiegate in ordine le schiere,
di mover già, già d’assalire accenne;
sparse al vento ondeggiando ir le bandiere
e ventolar su i gran cimier le penne:
abiti e fregi, imprese, arme e colori,
d’oro e di ferro al sol lampi e fulgori.
Sembra d’alberi densi alta foresta
l’un campo e l’altro, di tant’aste abbonda.
Son tesi gli archi e son le lancie in resta,
vibransi i dardi e rotasi ogni fionda;
ogni cavallo in guerra anco s’appresta;
gli odii e ’l furor del suo signor seconda,
raspa, batte, nitrisce e si raggira,
gonfia le nari e fumo e foco spira.
Bello in sí bella vista anco è l’orrore,
e di mezzo la tema esce il diletto.
Né men le trombe orribili e canore
sono a gli orecchi lieto e fero oggetto.
Pur il campo fedel, benché minore,
par di suon piú mirabile e d’aspetto,
e canta in piú guerriero e chiaro carme
ogni sua tromba, e maggior luce han l’arme.
Fèr le trombe cristiane il primo invito,
risposer l’altre ed accettàr la guerra.
S’inginocchiaro i Franchi e riverito
da lor fu il Cielo, indi baciàr la terra.
Decresce in mezzo il campo; ecco è sparito:
l’un con l’altro nemico omai si serra.
Già fera zuffa è ne le corna, e inanti
spingonsi già con lor battaglia i fanti.
Or chi fu il primo feritor cristiano
che facesse d’onor lodati acquisti?
Fosti, Gildippe, tu che ’l grande ircano,
che regnava in Ormús, prima feristi
(tanto di gloria a la feminea mano
concesse il Cielo) e ’l petto a lui partisti.
Cade il trafitto, e nel cadere egli ode
dar gridando i nemici al colpo lode.
Con la destra viril la donna stringe,
poi c’ha rotto il troncon, la buona spada,
e contra i Persi il corridor sospinge
e ’l folto de le schiere apre e dirada.
Coglie Zopiro là dove uom si cinge
e fa che quasi bipartito ei cada,
poi fèr la gola e tronca al crudo Alarco
de la voce e del cibo il doppio varco.
D’un mandritto Artaserse, Argeo di punta,
l’uno atterra stordito e l’altro uccide.
Poscia i pieghevol nodi, ond’è congiunta
la manca al braccio, ad Ismael recide.
Lascia, cadendo, il fren la man disgiunta,
su gli orecchi al destriero il colpo stride;
ei, che si sente in suo poter la briglia,
fugge a traverso e gli ordini scompiglia.
Questi e molti altri, ch’in silenzio preme
l’età vetusta, ella di vita toglie.
Stringonsi i Persi e vanle adosso insieme,
vaghi d’aver le gloriose spoglie.
Ma lo sposo fedel, che di lei teme,
corre in soccorso a la diletta moglie.
Cosí congiunta, la concorde coppia
ne la fida union le forze addoppia.
Arte di schermo nova e non piú udita
a i magnanimi amanti usar vedresti:
oblia di sé la guardia, e l’altrui vita
difende intentamente e quella e questi.
Ribatte i colpi la guerriera ardita
che vengono al suo caro aspri e molesti;
egli a l’arme a lei dritte oppon lo scudo,
v’opporria, s’uopo fosse, il capo ignudo.
Propria l’altrui difesa, e propria face
l’uno e l’altro di lor l’altrui vendetta.
Egli dà morte ad Artabano audace,
per cui di Boecàn l’isola è retta,
e per l’istessa mano Alvante giace,
ch’osò pur di colpir la sua diletta.
Ella fra ciglio e ciglio ad Arimonte,
che ’l suo fedel battea, partí la fronte.
Tal fean de’ Persi strage, e via maggiore
la fea de’ Franchi il re di Sarmacante,
ch’ove il ferro volgeva o ’l corridore,
uccideva, abbattea cavallo o fante.
Felice è qui colui che prima more,
né geme poi sotto il destrier pesante,
perché il destrier, se da la spada resta
alcun mal vivo avanzo, il morde e pesta.
Riman da i colpi d’Altamoro ucciso
Brunellone il membruto, Ardonio il grande.
L’elmetto a l’uno e ’l capo è sí diviso
ch’ei ne pende su gli omeri a due bande.
Trafitto è l’altro insin là dove il riso
ha suo principio, e ’l cor dilata e spande,
talché (strano spettacolo ed orrendo!)
ridea sforzato e si moria ridendo.
Né solamente discacciò costoro
la spada micidial dal dolce mondo,
ma spinti insieme a crudel morte foro
Gentonio, Guasco, Guido e ’l buon Rosmondo.
Or chi narrar potria quanti Altamoro
n’abbatte, e frange il suo destrier co ’l pondo?
chi dire i nomi de le genti uccise?
chi del ferir, chi del morir le guise?
Non è chi con quel fero omai s’affronte,
né chi pur lunge d’assalirlo accenne.
Sol rivolse Gildippe in lui la fronte,
né da quel dubbio paragon s’astenne.
Nulla Amazone mai su ’l Termodonte
imbracciò scudo o maneggiò bipenne
audace sí, com’ella audace inverso
al furor va del formidabil perso.
Ferillo ove splendea d’oro e di smalto
barbarico diadema in su l’elmetto,
e ’l ruppe e sparse, onde il superbo ed alto
suo capo a forza egli è chinar constretto.
Ben di robusta man parve l’assalto
al re pagano, e n’ebbe onta e dispetto,
né tardò in vendicar l’ingiurie sue,
ché l’onta e la vendetta a un tempo fue.
Quasi in quel punto in fronte egli percosse
la donna di percossa in modo fella
che d’ogni senso e di vigor la scosse:
cadea, ma ’l suo fedel la tenne in sella.
Fortuna loro o sua virtú pur fosse,
tanto bastogli e non ferí piú in ella,
quasi leon magnanimo che lassi,
sdegnando, uom che si giaccia, e guardi e passi.
Ormondo intanto, a le cui fere mani
era commessa la spietata cura,
misto con false insegne è fra’ cristiani,
e i compagni con lui di sua congiura;
cosí lupi notturni, i quai di cani
mostrin sembianza, per la nebbia oscura
vanno a le mandre e spian come in lor s’entre,
la dubbia coda ristringendo al ventre.
Giansi appressando, e non lontano al fianco
del pio Goffredo il fer pagan si mise.
Ma come il capitan l’orato e ’l bianco
vide apparir de le sospette assise:
"Ecco" gridò "quel traditor che franco
cerca mostrarsi in simulate guise,
ecco i suoi conguirati in me già mossi."
Cosí dicendo, al perfido aventossi.
Mortalmente piagollo, e quel fellone
non fère, non fa schermo e non s’arretra;
ma, come inanzi a gli occhi abbia ’l Gorgone
(e fu cotanto audace), or gela e impètra.
Ogni spada ed ogn’asta a lor s’oppone,
e si vòta in lor soli ogni faretra.
Va in tanti pezzi Ormondo e i suoi consorti,
che ’l cadavero pur non resta a i morti.
Poi che di sangue ostil si vede asperso,
entra in guerra Goffredo, e là si volve
ove appresso vedea che ’l duce perso
le piú ristrette squadre apre e dissolve,
sí che ’l suo stuolo omai n’andria disperso
come anzi l’Austro l’africana polve.
Vèr lui si drizza, e i suoi sgrida e minaccia;
e fermando chi fugge, assal chi caccia.
Comincian qui le due feroci destre
pugna qual mai non vide Ida né Xanto.
Ma segue altrove aspra tenzon pedestre
fra Baldovino e Muleasse intanto,
né ferve men l’altra battaglia equestre
appresso il colle, a l’altro estremo canto,
ove il barbaro duce de le genti
pugna in persona e seco ha i duo potenti.
Il rettor de le turbe e l’un Roberto
fan crudel zuffa, e lor virtú s’agguaglia.
Ma l’indian de l’altro ha l’elmo aperto,
e l’arme tuttavia gli fende e smaglia.
Tisaferno non ha nemico certo
che gli sia paragon degno in battaglia,
ma scorre ove la calca appar piú folta,
e mesce varia uccisione e molta.
Cosí si combatteva, e ’n dubbia lance
co ’l timor le speranze eran sospese.
Pien tutto il campo è di spezzate lance,
di rotti scudi e di troncato arnese,
di spade a i petti, a le squarciate pance
altre confitte, altre per terra stese,
di corpi, altri supini, altri co’ volti,
quasi mordendo il suolo, al suol, rivolti.
Giace il cavallo al suo signore appresso,
giace il compagno appo il compagno estinto,
giace il nemico appo il nemico, e spesso
su ’l morto il vivo, il vincitor su ’l vinto.
Non v’è silenzio e non v’è grido espresso,
ma odi un non so che roco e indistinto:
fremiti di furor, mormori d’ira,
gemiti di chi langue e di chi spira.
L’arme, che già sí liete in vista foro,
faceano or mostra paventosa e mesta:
perduti ha i lampi il ferro, i raggi l’oro,
nulla vaghezza a i bei color piú resta.
Quanto apparia d’adorno e di decoro
ne’ cimieri e ne’ fregi, or si calpesta;
la polve ingombra ciò ch’al sangue avanza,
tanto i campi mutata avean sembianza.
Gli Arabi allora, e gli Etiòpi e i Mori,
che l’estremo tenean del lato manco,
giansi spiegando e distendendo in fòri,
giravan poi de gli inimici al fianco;
ed omai saggittari e frombatori
molestavan da lunge il popol franco,
quando Rinaldo e ’l suo drapel si mosse,
e parve che tremoto e tuono fosse.
Assimiro di Mèroe infra l’adusto
stuol d’Etiopia era il primier de’ forti.
Rinaldo il colse ove s’annoda al busto
il nero collo, e ’l fe’ cader tra’ morti.
Poich’eccitò de la vittoria il gusto
l’appetito del sangue e de le morti
nel fero vincitore, egli fe’ cose
incredibili, orrende e monstruose.
Diè piú morti che colpi, e pur frequente
de’ suoi gran colpi la tempesta cade.
Qual tre lingue vibrar sembra il serpente,
ché la prestezza d’una il persuade,
tal credea lui la sbigottita gente
con la rapida man girar tre spade.
L’occhio al moto deluso il falso crede,
e ’l terrore a que’ mostri accresce fede.
I libici tiranni e i negri regi
l’un nel sangue de l’altro a morte stese.
Dièr sovra gli altri i suoi compagni egregi,
che d’emulo furor l’essempio accese.
Cadeane con orribili dispregi
l’infedel plebe, e non facea difese.
Pugna questa non è, ma strage sola,
ché quinci oprano il ferro, indi la gola.
Ma non lunga stagion volgon la faccia,
ricevendo le piaghe in nobil parte.
Fuggon le turbe, e sí il timor le caccia
ch’ogni ordinanza lor scompagna e parte.
Ma segue pur senza lasciar la traccia
sin che l’ha in tutto dissipate e sparte,
poi si raccoglie il vincitor veloce
che sovra i piú fugaci è men feroce.
Qual vento, a cui s’oppone o selva o colle,
doppia ne la contesa i soffi e l’ira,
ma con fiato piú placido e piú molle
per le campagne libere poi spira;
come fra scogli il mar spuma e ribolle,
e ne l’aperto onde piú chete aggira,
cosí quanto contrasto avea men saldo,
tanto scemava il suo furor Rinaldo.
Poi che sdegnossi in fuggitivo dorso
le nobil ire ir consumando invano,
verso la fanteria voltò il suo corso,
ch’ebbe l’Arabo al fianco e l’Africano,
or nuda è da quel lato, e chi soccorso
dar le doveva o giace od è lontano.
Vien da traverso, e le pedestri schiere
la gente d’arme impetuosa fère.
Ruppe l’aste e gli intoppi, il violento
impeto vinse e penetrò fra esse,
le sparse e l’atterrò; tempesta o vento
men tosto abbatte la pieghevol messe.
Lastricato co ’l sangue è il pavimento
d’arme e di membra perforate e fesse;
e la cavalleria correndo il calca
senza ritegno, e fera oltra se ’n valca.
Giunse Rinaldo ove su ’l carro aurato
stavasi Armida in militar sembianti,
e nobil guardia avea da ciascun lato
de’ baroni seguaci e de gli amanti.
Noto a piú segni, egli è da lei mirato
con occhi d’ira e di desio tremanti:
ei si tramuta in volto un cotal poco,
ella si fa di gel, divien poi foco.
Declina il carro il cavaliero e passa,
e fa sembiante d’uom cui d’altro cale;
ma senza pugna già passar non lassa
il drapel congiurato il suo rivale.
Chi il ferro stringe in lui, chi l’asta abbassa;
ella stessa in su l’arco ha già lo strale:
spingea le mani, e incrudelia lo sdegno,
ma le placava e n’era amor ritegno.
Sorse amor contra l’ira, e fe’ palese
che vive il foco suo ch’ascoso tenne.
La man tre volte a saettar distese,
tre volte essa inchinolla, e si ritenne.
Pur vinse al fin lo sdegno, e l’arco tese
e fe’ volar del suo quadrel le penne.
Lo stral volò, ma con lo strale un voto
súbito uscí, che vada il colpo a vòto.
Torria ben ella che il quadrel pungente
tornasse indietro, e le tornasse al core;
tanto poteva in lei, benché perdente
(or che potria vittorioso?), Amore.
Ma di tal suo pensier poi si ripente,
e nel discorde sen cresce il furore.
Cosí or paventa ed or desia che tocchi
a pieno il colpo, e ’l segue pur con gli occhi.
Ma non fu la percossa in van diretta
ch’al cavalier su ’l duro usbergo è giunta,
duro ben troppo a feminil saetta,
che di pungere in vece ivi si spunta.
Egli le volge il fianco; ella, negletta
esser credendo, e d’ira arsa e compunta,
scocca l’arco piú volte e non fa piaga:
e mentre ella saetta, Amor lei piaga.
"Sí dunque impenetrabile è costui,"
fra sé dicea "che forza ostil non cura?
Vestirebbe mai forse i membri sui
di quel diaspro ond’ei l’alma ha sí dura?
Colpo d’occhio o di man non pote in lui,
di tai tempre è il rigor che lo assecura;
e inerme io vinta sono, e vinta armata:
nemica, amante, egualmente sprezzata.
Or qual arte novella e qual m’avanza
nova forma in cui possa anco mutarmi?
Misera! e nulla aver degg’io speranza
ne’ cavalieri miei, ché veder parmi,
anzi pur veggio, a la costui possanza
tutte le forze frali e tutte l’armi."
E ben vedea de’ suoi campioni estinti
altri giacerne, altri abbattuti e vinti.
Soletta a sua difesa ella non basta,
e già le pare esser prigiona e serva;
né s’assecura (e presso l’arco ha l’asta)
ne l’arme di Diana o di Minerva.
Qual è il timido cigno a cui sovrasta
co ’l fero artiglio l’aquila proterva,
ch’a terra si rannicchia e china l’ali,
i suoi timidi moti eran cotali.
Ma il principe Altamor, che sino allora
fermar de’ Persi procurò lo stuolo
(ch’era già in piega e ’n fuga ito se ’n fòra,
ma ’l ritenea, bench’a fatica, ei solo),
or tal veggendo lei ch’amando adora,
là si volge di corso, anzi di volo,
e ’l suo onor abbandona e la sua schiera:
pur che costei si salvi, il mondo pèra.
Al mal difeso carro egli fa scorta
e co ’l ferro le vie gli sgombra inante,
ma da Rinaldo e da Goffredo è morta
e fugata sua schiera in quell’istante.
Il misero se ’l vede e se ’l comporta
assai miglior che capitano, amante.
Scorge Armida in securo, e torna poi,
intempestiva aita, a i vinti suoi,
ché da quel lato de’ pagani il campo
irreparabilmente è sparso e sciolto;
ma da l’opposto, abbandonando il campo
a gli infedeli, i nostri il tergo han vòlto.
Ebbe l’un de’ Roberti a pena scampo,
ferito dal nemico il petto e ’l volto,
l’altro è prigion d’Adrasto. In cotal guisa
la sconfitta egualmente era divisa.
Prende Goffredo allor tempo opportuno:
riordina sue squadre e fa ritorno
senza indugio a la pugna; e cosí l’uno
viene ad urtar ne l’altro intero corno.
Tinto se ’n vien di sangue ostil ciascuno,
ciascun di spoglie trionfali adorno.
La vittoria e l’onor vien da ogni parte,
sta dubbia in mezzo la Fortuna e Marte.
Or mentre in guisa tal fera tenzone
è tra ’l fedel essercito e ’l pagano,
salse in cima a la torre ad un balcone
e mirò, benché lunge, il fer Soldano;
mirò, quasi in teatro od in agone,
l’aspra tragedia de lo stato umano:
i vari assalti e ’l fero orror di morte,
e i gran giochi del caso e de la sorte.
Stette attonito alquanto e stupefatto
a quelle prime viste; e poi s’accese,
e desiò trovarsi anch’egli in atto
nel periglioso campo a l’alte imprese.
Né pose indugio al suo desir, ma ratto
d’elmo s’armò, ch’aveva ogn’altro arnese:
"Su su," gridò "non piú, non piú dimora:
convien ch’oggi si vinca o che si mora."
O che sia forse il proveder divino
che spira in lui la furiosa mente,
perché quel giorno sian del palestino
imperio le reliquie in tutto spente;
o che sia ch’a la morte omai vicino
d’andarle incontra stimolar si sente,
impetuoso e rapido disserra
la porta, e porta inaspettata guerra.
E non aspetta pur che i feri inviti
accettino i compagni; esce sol esso,
e sfida sol mille nimici uniti,
e sol fra mille intrepido s’è messo.
Ma da l’impeto suo quasi rapiti
seguon poi gli altri ed Aladino stesso.
Chi fu vil, chi fu cauto, or nulla teme:
opera di furor piú che di speme.
Quei che prima ritrova il turco atroce
caggiono a i colpi orribili improvisi,
e in condur loro a morte è sí veloce
ch’uom non li vede uccidere, ma uccisi.
Da i primieri a i sezzai, di voce in voce,
passa il terror, vanno i dolenti avisi,
tal che ’l vulgo fedel de la Soria
tumultuando già quasi fuggia.
Ma con men di terrore e di scompiglio
l’ordine e ’l loco suo fu ritenuto
dal Guascon, benché prossimo al periglio
a l’improvviso ei sia colto e battuto.
Nessun dente giamai, nessun artiglio
o di silvestre o d’animal pennuto
insanguinossi in mandra o tra gli augelli,
come la spada del pagan tra quelli.
Sembra quasi famelica e vorace,
pasce le membra quasi e ’l sangue sugge.
Seco Aladin, seco lo stuol seguace
gli assediatori suoi percote e strugge.
Ma il buon Raimondo accorre ove disface
Soliman le sue squadre e già no ’l fugge,
se ben la fera destra ei riconosce
onde percosso ebbe mortali angosce.
Pur di novo l’affronta e pur ricade,
pur ripercosso ove fu prima offeso;
e colpa è sol de la soverchia etade,
a cui soverchio è de’ gran colpi il peso.
Da cento scudi fu, da cento spade
oppugnato in quel tempo anco e difeso.
Ma trascorre il Soldano, o che se ’l creda
morto del tutto, o ’l pensi agevol preda.
Sovra gli altri ferisce e tronca e svena,
e ’n poca piazza fa mirabil prove;
ricerca poi, come furor il mena,
a nova uccision materia altrove.
Qual da povera mensa a ricca cena
uom stimolato dal digiun si move,
tal vanne a maggior guerra ov’egli sbrame
la sua di sangue infuriata fame.
Scende egli giú per le abbattute mura
e s’indirizza a la gran pugna in fretta.
Ma ’l furor ne’ compagni e la paura
riman ch’i suoi nemici han già concetta;
e l’una schiera d’asseguir procura
quella vittoria ch’ei lasciò imperfetta,
l’altra resiste sí, ma non è senza
segno di fuga omai la resistenza.
Il Guascon ritirandosi cedeva,
ma se ne gía disperso il popol siro.
Eran presso a l’albergo ove giaceva
il buon Tancredi, e i gridi entro s’udiro.
Dal letto il fianco infermo egli solleva,
vien su la vetta e volge gli occhi in giro;
vede, giacendo il conte, altri ritrarsi,
altri del tutto già fugati e sparsi.
Virtú, ch’a’ valorosi unqua non manca,
perché languisca il corpo fral non langue,
ma le piagate membra in lui rinfranca
quasi in vece di spirito e di sangue.
Del gravissimo scudo arma ei la manca,
e non par grave il peso al braccio essangue.
Prende con l’altra man l’ignuda spada
(tanto basta a l’uom forte) e piú non bada,
ma giú se ’n viene e grida: "Ove fuggite,
lasciando il signor vostro in preda altrui?
dunque i barbari chiostri e le meschite
spiegheran per trofeo l’arme di lui?
Or, tornando in Guascogna, al figlio dite
che morí il padre onde fuggiste vui."
Cosí lor parla, e ’l petto nudo e infermo
a mille armati e vigorosi è schermo.
E co ’l grave suo scudo, il qual di sette
dure cuoia di tauro era composto
e che a le terga poi di tempre elette
un coperchio d’acciaio ha sopraposto,
tien da le spade e tien da le saette,
tien da tutte arme il buon Raimondo ascosto,
e co ’l ferro i nemici intorno sgombra
sí che giace securo e quasi a l’ombra.
Respirando risorge in tempo poco
sotto il fido riparo il vecchio accolto,
e si sente avampar di doppio foco,
di sdegno il core e di vergogna il volto;
e drizza gli occhi accesi a ciascun loco
per riveder quel fero onde fu colto,
ma no ’l vedendo freme, e far prepara
ne’ seguaci di lui vendetta amara.
Ritornan gli Aquitani e tutti insieme
seguono il duce al vendicarsi intento.
Lo stuol ch’inanzi osava tanto, or teme:
audacia passa ov’era pria spavento.
Cede chi rincalzò; chi cesse, or preme:
cosí varian le cose in un momento.
Ben fa Raimondo or sua vendetta, e sconta
pur di sua man con cento morti un’onta.
Mentre Raimondo il vergognoso sdegno
ne’ piú nobili capi sfogar tenta,
vede l’usurpator del nobil regno,
che fra’ primi combatte, e gli s’aventa;
e ’l fère in fronte e nel medesmo segno
tocca e ritocca, e ’l suo colpir non lenta,
onde il re cade e con singulto orrendo
la terra ove regnò morde morendo.
Poich’una scorta è lunge e l’altra uccisa,
in color che restàr vario è l’affetto:
alcun, di belva infuriata in guisa,
disperato nel ferro urta co ’l petto;
altri, temendo, di campar s’avisa,
e là rifugge ov’ebbe pria ricetto.
Ma tra’ fuggenti il vincitor commisto
entra, e fin pone al glorioso acquisto.
Presa è la rocca, e su per l’alte scale
chi fugge è morto o ’n su le prime soglie;
e nel sommo di lei Raimondo sale
e ne la destra il gran vessillo toglie,
e incontra a i due gran campi il trionfale
segno de la vittoria al vento scioglie.
Ma non già il guarda il fer Soldan che lunge
è di là fatto ed a la pugna giunge.
Giunge in campagna tepida e vermiglia
che d’ora in ora piú di sangue ondeggia,
sí che il regno di morte omai somiglia
ch’ivi i trionfi suoi spiega e passeggia.
Vede un destrier che con pendente briglia,
senza rettor, trascorso è fuor di greggia;
gli gitta al fren la mano e ’l vòto dorso
montando preme e poi lo spinge al corso.
Grande ma breve aita apportò questi
a i saracini impauriti e lassi.
Grande ma breve fulmine il diresti
ch’inaspettato sopragiunga e passi,
ma del suo corso momentaneo resti
vestigio eterno in dirupati sassi.
Cento ei n’uccise e piú, pur di due soli
non fia che la memoria il tempo involi.
Gildippe ed Odoardo, i casi vostri
duri ed acerbi e i fatti onesti e degni
(se tanto lice a i miei toscani inchiostri)
consacrerò fra’ peregrini ingegni,
sí ch’ogn’età quasi ben nati mostri
di virtude e d’amor v’additi e segni,
e co ’l suo pianto alcun servo d’Amore
la morte vostra e le mie rime onore.
La magnanima donna il destrier volse
dove le genti distruggea quel crudo,
e di due gran fendenti a pieno il colse:
ferigli il fianco e gli partí lo scudo.
Grida il crudel, ch’a l’abito raccolse
chi costei fosse: "Ecco la putta e ’l drudo:
meglio per te s’avessi il fuso e l’ago,
ch’in tua difesa aver la spada e ’l vago."
Qui tacque, e di furor piú che mai pieno
drizzò percossa temeraria e fera
ch’osò, rompendo ogn’arme, entrar nel seno
che de’ colpi d’Amor segno sol era.
Ella, repente abbandonando il freno,
sembiante fa d’uom che languisca e pèra;
e ben se ’l vede il misero Odoardo,
mal fortunato difensor, non tardo.
Che far dée nel gran caso? Ira e pietade
a varie parti in un tempo l’affretta:
questa a l’appoggio del suo ben che cade,
quella a pigliar del percussor vendetta.
Amore indifferente il persuade
che non sia l’ira o la pietà negletta.
Con la sinistra man corre al sostegno,
l’altra ministra ei fa del suo disdegno.
Ma voler e poter che si divida
bastar non può contra il pagan sí forte
tal che non sostien lei, né l’omicida
de la dolce alma sua conduce a morte.
Anzi avien che ’l Soldano a lui recida
il braccio, appoggio a la fedel consorte,
onde cader lasciolla, ed egli presse
le membra a lei con le sue membra stesse.
Come olmo a cui la pampinosa pianta
cupida s’aviticchi e si marite,
se ferro il tronca o turbine lo schianta
trae seco a terra la compagna vite,
ed egli stesso il verde onde s’ammanta
le sfronda e pesta l’uve sue gradite,
par che se ’n dolga, e piú che ’l proprio fato
di lei gl’incresca che gli more a lato;
cosí cade egli, e sol di lei gli duole
che ’l cielo eterna sua compagna fece.
Vorrian formar né pòn formar parole,
forman sospiri di parole in vece:
l’un mira l’altro, e l’un pur come sòle
si stringe a l’altro, mentre ancor ciò lece:
e si cela in un punto ad ambi il die,
e congiunte se ’n van l’anime pie.
Allor scioglie la Fama i vanni al volo,
le lingue al grido, e ’l duro caso accerta;
né pur n’ode Rinaldo il romor solo,
ma d’un messaggio ancor nova piú certa.
Sdegno, dover, benivolenza e duolo
fan ch’a l’alta vendetta ei si converta,
ma il sentier gli attraversa e fa contrasto
su gli occhi del Soldano il grande Adrasto.
Gridava il re feroce: "A i segni noti
tu sei pur quegli al fin ch’io cerco e bramo:
scudo non è che non riguardi e noti,
ed a nome tutt’oggi invan ti chiamo.
Or solverò de la vendetta i voti
co ’l tuo capo al mio nume. Omai facciamo
di valor, di furor qui paragone,
tu nemico d’Armida ed io campione."
Cosí lo sfida, e di percosse orrende
pria su la tempia il fère, indi nel collo.
L’elmo fatal (ché non si può) non fende,
ma lo scote in arcion con piú d’un crollo.
Rinaldo lui su ’l fianco in guisa offende
che vana vi saria l’arte d’Apollo:
cade l’uom smisurato, il rege invitto,
e n’è l’onore ad un sol colpo ascritto.
Lo stupor, di spavento e d’orror misto,
il sangue e i cori a i circostanti agghiaccia,
e Soliman, ch’estranio colpo ha visto,
nel cor si turba e impallidisce in faccia,
e chiaramente il suo morir previsto,
non si risolve e non sa quel che faccia;
cosa insolita in lui, ma che non regge
de gli affari qua giú l’eterna legge?
Come vede talor torbidi sogni
ne’ brevi sonni suoi l’egro o l’insano,
pargli ch’al corso avidamente agogni
stender le membra, e che s’affanni invano,
ché ne’ maggiori sforzi a’ suoi bisogni
non corrisponde il piè stanco e la mano,
scioglier talor la lingua e parlar vòle,
ma non seguon la voce o le parole;
cosí allora il Soldan vorria rapire
pur se stesso a l’assalto e se ne sforza,
ma non conosce in sé le solite ire,
né sé conosce a la scemata forza.
Quante scintille in lui sorgon d’ardire,
tante un secreto suo terror n’ammorza:
volgonsi nel suo cor diversi sensi,
non che fuggir, non che ritrarsi pensi.
Giunge all’irresoluto il vincitore,
e in arrivando (o che gli pare) avanza
e di velocitade e di furore
e di grandezza ogni mortal sembianza.
Poco ripugna quel; pur mentre more,
già non oblia la generosa usanza:
non fugge i colpi e gemito non spande,
né atto fa se non se altero e grande.
Poi che ’l Soldan, che spesso in lunga guerra
quasi novello Anteo cadde e risorse
piú fero ognora, al fin calcò la terra
per giacer sempre, intorno il suon ne corse;
e Fortuna, che varia e instabil erra,
piú non osò por la vittoria in forse,
ma fermò i giri, e sotto i duci stessi
s’uní co’ Franchi e militò con essi.
Fugge, non ch’altri, omai la regia schiera
ov’è de l’Oriente accolto il nerbo.
Già fu detta immortale, or vien che pèra
ad onta di quel titolo superbo.
Emireno a colui c’ha la bandiera
tronca la fuga e parla in modo acerbo:
"Or se’ tu quel ch’a sostener gli eccelsi
segni dei mio signor fra mille i’ scelsi?
Rimedon, questa insegna a te non diedi
acciò che indietro tu la riportassi.
Dunque, codardo, il capitan tuo vedi
in zuffa co’ nemici, e solo il lassi?
che brami? di salvarti? or meco riedi,
ché per la strada presa a morte vassi.
Combatta qui chi di campar desia:
la via d’onor de la salute è via."
Riede in guerra colui ch’arde di scorno.
Usa ei con gli altri poi sermon piú grave:
talor minaccia e fère, onde ritorno
fa contra il ferro chi del ferro pave.
Cosí rintegra del fiaccato corno
la miglior parte, e speme anco pur have.
E Tisaferno piú ch’altri il rincora,
ch’orma non torse per ritrarsi ancora.
Meraviglie quel dí fe’ Tisaferno:
i Normandi per lui furon disfatti,
fe’ di Fiammenghi strano empio governo,
Gernier, Ruggier, Gherardo a morte ha tratti.
Poi ch’a le mète de l’onor eterno
la vita breve prolungò co’ fatti,
quasi di viver piú poco gli caglia,
cerca il rischio maggior de la battaglia.
Vide ei Rinaldo; e benché omai vermigli
gli azzurri suoi color sian divenuti,
e insanguinati l’aquila gli artigli
e ’l rostro s’abbia, i segni ha conosciuti.
"Ecco" disse "i grandissimi perigli;
qui prego il ciel che ’l mio ardimento aiuti,
e veggia Armida il desiato scempio:
Macon, s’io vinco, i’ voto l’arme al tempio."
Cosí pregava, e le preghiere ír vòte,
ché ’l sordo suo Macon nulla n’udiva.
Qual il leon si sferza e si percote
per isvegliar la ferità nativa,
tale ei suoi sdegni desta, ed a la cote
d’amor gli aguzza ed a le fiamme avviva.
Tutte sue forze aduna e si ristringe
sotto l’arme a l’assalto, e ’l destrier spinge.
Spinse il suo contra lui, che in atto scerse
d’assalitore, il cavalier latino.
Fe’ lor gran piazza in mezzo e si converse
a lo spettacol fero ogni vicino.
Tante fur le percosse e sí diverse
de l’italico eroe, del saracino,
ch’altri per meraviglia obliò quasi
l’ire e gli affetti propri e i propri casi.
Ma l’un percote sol; percote e impiaga
l’altro, ch’ha maggior forza, armi piú ferme.
Tisaferno di sangue il campo allaga,
con l’elmo aperto e de lo scudo inerme.
Mira del suo campion la bella maga
rotti gli arnesi, e piú le membra inferme,
e gli altri tutti impauriti in modo
che frale omai gli stringe e debil nodo.
Già di tanti guerrier cinta e munita,
or rimasa nel carro era soletta:
teme di servitute, odia la vita,
dispera la vittoria e la vendetta.
Mezza tra furiosa e sbigottita
scende, ed ascende un suo destriero in fretta;
vassene e fugge, e van seco pur anco
Sdegno ed Amor quasi due veltri al fianco.
Tal Cleopatra al secolo vetusto
sola fuggia da la tenzon crudele
lasciando incontra al fortunato Augusto
ne’ maritimi rischi il suo fedele,
che per amor fatto a se stesso ingiusto
tosto seguí le solitarie vele.
E ben la fuga di costei secreta
Tisaferno seguia, ma l’altro il vieta.
Al pagan, poi che sparve il suo conforto,
sembra ch’insieme il giorno e ’l sol tramonte
ed a lui che ’l ritiene a sí gran torto
disperato si volge e ’l fiede in fronte.
A fabricar il fulmine ritorto
via piú leggier cade il martel di Bronte,
e co ’l grave fendente in modo il carca
che ’l percosso la testa al petto inarca.
Tosto Rinaldo si dirizza ed erge
e vibra il ferro e, rotto il grosso usbergo,
gli apre le coste e l’aspra punta immerge
in mezzo ’l cor dove ha la vita albergo.
Tanto oltra va che piaga doppia asperge
quinci al pagano il petto e quindi il tergo,
e largamente a l’anima fugace
piú d’una via nel suo partir si face.
Allor si ferma a rimirar Rinaldo
ove drizzi gli assalti, ove gli aiuti
e de’ pagan non vede ordine saldo,
ma gli stendardi lor tutti caduti.
Qui pon fine a le morti, e in lui quel caldo
disdegno marzial par che s’attuti.
Placido è fatto, e gli si reca a mente
la donna che fuggia sola e dolente.
Ben rimirò la fuga; or da lui chiede
pietà che n’abbia cura e cortesia,
e gli sovien che si promise in fede
suo cavalier quando da lei partia.
Si drizza ov’ella fugge, ov’egli vede
il piè del palafren segnar la via.
Giunge ella intanto in chiusa opaca chiostra
ch’a solitaria morte atta si mostra.
Piacquele assai che ’n quelle valli ombrose
l’orme sue erranti il caso abbia condutte.
Qui scese dal destriero e qui depose
e l’arco e la faretra e l’armi tutte.
"Armi infelici" disse "e vergognose,
ch’usciste fuor de la battaglia asciutte,
qui vi depongo; e qui sepolte state
poiché l’ingiurie mie mal vendicate.
Ah! ma non fia che fra tant’armi e tante
una di sangue oggi si bagni almeno?
S’ogn’altro petto a voi par di diamante,
osarete piagar feminil seno?
In questo mio, che vi sta nudo avante,
i pregi vostri e le vittorie sieno.
Tenero a i colpi è questo mio: ben sallo
Amor che mai non vi saetta in fallo.
Dimostratevi in me (ch’io vi perdono
la passata viltà) forti ed acute.
Misera Armida, in qual fortuna or sono,
se sol da voi posso sperar salute?
Poi ch’ogn’altro rimedio è in me non buono
se non sol di ferute a le ferute,
sani piaga di stral piaga d’amore,
e sia la morte medicina al core.
Felice me, se nel morir non reco
questa mia peste ad infettar l’inferno!
Restine Amor; venga sol Sdegno or meco
e sia de l’ombra mia compagno eterno,
o ritorni con lui dal regno cieco
a colui che di me fe’ l’empio scherno,
e se gli mostri tal che ’n fere notti
abbia riposi orribili e ’nterrotti."
Qui tacque e, stabilito il suo pensiero,
strale sceglieva il piú pungente e forte,
quando giunse e mirolla il cavaliero
tanto vicina a l’estrema sua sorte,
già compostasi in atto atroce e fero,
già tinta in viso di pallor di morte.
Da tergo ei se le aventa e ’l braccio prende
che già la fera punta al petto stende.
Si volse Armida e ’l rimirò improviso,
ché no ’l sentí quando da prima ei venne:
alzò le strida, e da l’amato viso
torse le luci disdegnosa e svenne.
Ella cadea, quasi fior mezzo inciso,
piegando il lento collo; ei la sostenne,
le fe’ d’un braccio al bel fianco colonna
e’ ntanto al sen le rallentò la gonna,
e ’l bel volto e ’l bel seno a la meschina
bagnò d’alcuna lagrima pietosa.
Qual a pioggia d’argento e matutina
si rabbellisce scolorita rosa,
tal ella rivenendo alzò la china
faccia, del non suo pianto or lagrimosa.
Tre volte alzò le luci e tre chinolle
dal caro oggetto, e rimirar no ’l volle.
E con man languidetta il forte braccio,
ch’era sostegno suo, schiva respinse;
tentò piú volte e non uscí d’impaccio,
ché via piú stretta ei rilegolla e cinse.
Al fin raccolta entro quel caro laccio,
che le fu caro forse e se n’infinse,
parlando incominciò di spander fiumi,
senza mai dirizzargli al volto i lumi.
"O sempre, e quando parti e quando torni
egualmente crudele, or chi ti guida?
Gran meraviglia che ’l morir distorni
e di vita cagion sia l’omicida.
Tu di salvarmi cerchi? a quali scorni,
a quali pene è riservata Armida?
Conosco l’arti del fellone ignote,
ma ben può nulla chi morir non pote.
Certo è scorno al tuo onor, se non s’addita
incatenata al tuo trionfo inanti
femina or presa a forza e pria tradita:
quest’è ’l maggior de’ titoli e de’ vanti.
Tempo fu ch’io ti chiesi e pace e vita,
dolce or saria con morte uscir de’ pianti;
ma non la chiedo a te, ché non è cosa
ch’essendo dono tuo non mi sia odiosa.
Per me stessa, crudel, spero sottrarmi
a la tua feritade in alcun modo.
E, s’a l’incatenata il tòsco e l’armi
pur mancheranno e i precipizi e ’l nodo,
veggio secure vie che tu vietarmi
il morir non potresti, e ’l ciel ne lodo.
Cessa omai da’ tuoi vezzi. Ah! par ch’ei finga:
deh, come le speranze egre lusinga!"
Cosí doleasi, e con le flebil onde,
ch’amor e sdegno da’ begli occhi stilla,
l’affettuoso pianto egli confonde
in cui pudica la pietà sfavilla;
e con modi dolcissimi risponde:
"Armida, il cor turbato omai tranquilla:
non a gli scherni, al regno io ti riservo;
nemico no, ma tuo campione e servo.
Mira ne gli occhi miei, s’al dir non vuoi
fede prestar, de la mia fede il zelo.
Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi,
riporti giuro; ed oh piacesse al Cielo
ch’a la tua mente alcun de’ raggi suoi
del paganesmo dissolvesse il velo,
com’io farei che ’n Oriente alcuna
non t’agguagliasse di regal fortuna."
Sí parla e prega, e i preghi bagna e scalda
or di lagrime rare, or di sospiri;
onde sí come suol nevosa falda
dov’arda il sole o tepid’aura spiri,
cosí l’ira che ’n lei parea sí salda
solvesi e restan sol gli altri desiri.
"Ecco l’ancilla tua; d’essa a tuo senno
dispon," gli disse "e le fia legge il cenno."
In questo mezzo il capitan d’Egitto
a terra vede il suo regal stendardo,
e vede a un colpo di Goffredo invitto
cadere insieme Rimedon gagliardo
e l’altro popol suo morto e sconfitto;
né vuol nel duro fin parer codardo,
ma va cercando (e non la cerca invano)
illustre morte da famosa mano.
Contra il maggior Buglione il destrier punge,
ché nemico veder non sa piú degno,
e mostra, ove egli passa, ove egli giunge
di valor disperato ultimo segno.
Ma pria ch’arrivi a lui, grida da lunge:
"Ecco, per le tue mani a morir vegno;
ma tentarò ne la caduta estrema
che la ruina mia ti colga e prema."
Cosí gli disse, e in un medesmo punto
l’un verso l’altro per ferir si lancia.
Rotto lo scudo, e disarmato e punto
è ’l manco braccio al capitan di Francia;
l’altro da lui con sí gran colpo è giunto
sovra i confin de la sinistra guancia
che ne stordisce in su la sella, e mentre
risorger vuol, cade trafitto il ventre.
Morto il duce Emireno, omai sol resta
picciol avanzo del gran campo, estinto.
Segue i vinti Goffredo e poi s’arresta,
ch’Altamor vede a piè di sangue tinto,
con mezza spada e con mezzo elmo in testa
da cento lancie ripercosso e cinto.
Grida egli a’ suoi: "Cessate; e tu, barone,
renditi, io son Goffredo, a me prigione."
Colui che sino allor l’animo grande
ad alcun atto d’umiltà non torse,
ora ch’ode quel nome, onde si spande
sí chiaro il suon da gli Etiòpi a l’Orse,
gli risponde: "Farò quanto dimande,
ché ne sei degno:" e l’arme in man gli porse
"ma la vittoria tua sovra Altamoro
né di gloria fia povera, né d’oro.
Me l’oro del mio regno e me le gemme
ricompreran de la pietosa moglie."
Replica a lui Goffredo: "Il ciel non diemme
animo tal che di tesor s’invoglie.
Ciò che ti vien da l’indiche maremme
abbiti pure, e ciò che Persia accoglie,
ché de la vita altrui prezzo non cerco:
guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco."
Tace, ed a’ suoi custodi in cura dallo
e segue il corso poi de’ fuggitivi.
Fuggon quegli a i ripari, ed intervallo
da la morte trovar non ponno quivi.
Preso è repente e pien di strage il vallo,
corre di tenda in tenda il sangue in rivi,
e vi macchia le prede e vi corrompe
gli ornamenti barbarici e le pompe.
Cosí vince Goffredo, ed a lui tanto
avanza ancor de la diurna luce
ch’a la città già liberata, al santo
ostel di Cristo i vincitor conduce.
Né pur deposto il sanguinoso manto,
viene al tempio con gli altri il sommo duce;
e qui l’arme sospende, e qui devoto
il gran Sepolcro adora e scioglie il voto.