Giunto Rinaldo ove Goffredo è sorto
ad incontrarlo, incominciò: "Signore,
a vendicarmi del guerrier ch’è morto
cura mi spinse di geloso onore;
e s’io n’offesi te, ben disconforto
ne sentii poscia e penitenza al core.
Or vegno a’ tuoi richiami, ed ogni emenda
son pronto a far, che grato a te mi renda."
A lui ch’umil gli s’inchinò, le braccia
stese al collo Goffredo e gli rispose:
"Ogni trista memoria omai si taccia,
e pongansi in oblio l’andate cose.
E per emenda io vorrò sol che faccia
quai per uso faresti, opre famose;
e ’n danno de’ nemici e ’n pro de’ nostri
vincer convienti de la selva i mostri.
L’antichissima selva, onde fu inanti
de’ nostri ordigni la materia tratta,
qual si sia la cagione, ora è d’incanti
secreta stanza e formidabil fatta,
né v’è chi legno di troncar si vanti,
né vuol ragion che la città si batta
senza tali instrumenti: or colà dove
paventan gli altri, il tuo valor si prove."
Cosí disse egli, e il cavalier s’offerse
con brevi detti al rischio, a la fatica;
ma ne gli atti magnanimi si scerse
ch’assai farà, benché non molto ei dica.
E verso gli altri poi lieto converse
la destra e ’l volto a l’accoglienza amica:
qui Guelfo, qui Tancredi, e qui già tutti
s’eran de l’oste i principi ridutti.
Poi che le dimostranze oneste e care
con que’ soprani egli iterò piú volte,
placido affabilmente e popolare
l’altre genti minori ebbe raccolte.
Non saria già piú allegro il militare
grido o le turbe intorno a lui piú folte
se, vinto l’Oriente e ’l Mezzogiorno,
trionfando n’andasse in carro adorno.
Cosí ne va sino al suo albergo, e siede,
in cerchio quivi a i cari amici a canto,
e molto lor risponde e molto chiede
or de la guerra, or del silvestre incanto.
Ma quando ognun partendo agio lor diede,
cosí gli disse l’Eremita santo:
"Ben gran cose, signor, e lungo corso
(mirabil peregrino) errando hai scorso.
Quanto devi al gran Re che ’l mondo regge!
Tratto egli t’ha da l’incantate soglie:
ei te smarrito agnel fra le sue gregge
or riconduce e nel suo ovil accoglie,
e per la voce del Buglion t’elegge
secondo essecutor de le sue voglie.
Ma non conviensi già ch’ancor profano
ne’ suoi gran magisteri armi la mano,
ché sei de la caligine del mondo
e de la carne tu di modo asperso
che ’l Nilo e ’l Gange o l’ocean profondo
non ti potrebbe far candido e terso.
Sol la grazia del Ciel quanto hai d’immondo
può render puro: al Ciel dunque converso,
riverente perdon richiedi e spiega
le tue tacite colpe, e piangi e prega."
Cosí gli disse; e quel prima in se stesso
pianse i superbi sdegni e i folli amori,
poi chinato a’ suoi piè mesto e dimesso
tutti scoprigli i giovenili errori.
Il ministro del Ciel, dopo il concesso
perdono, a lui dicea: "Co’ novi albori
ad orar te n’andrai là su quel monte
ch’al raggio matutin volge la fronte.
Quivi al bosco t’invia, dove cotanti
son fantasmi ingannevoli e bugiardi.
Vincerai (questo so) mostri e giganti,
pur ch’altro folle error non ti ritardi.
Deh! né voce che dolce o pianga o canti,
né beltà che soave o rida o guardi,
con tenere lusinghe il cor ti pieghi,
ma sprezza i finti aspetti e i finti preghi."
Cosí il consiglia; e ’l cavalier s’appresta,
desiando e sperando, a l’alta lmpresa.
Passa pensoso il dí, pensosa e mesta
la notte; e pria ch’in ciel sia l’alba accesa,
le belle arme si cinge, e sopravesta
nova ed estrania di color s’ha presa,
e tutto solo e tacito e pedone
lascia i compagni e lascia il padiglione.
Era ne la stagion ch’anco non cede
libero ogni confin la notte al giorno,
ma l’oriente rosseggiar si vede
ed anco è il ciel d’alcuna stella adorno;
quando ei drizzò vèr l’Oliveto il piede,
con gli occhi alzati contemplando intorno
quinci notturne e quindi mattutine
bellezze incorrottibili e divine.
Fra se stesso pensava: "O quante belle
luci il tempio celeste in sé raguna!
Ha il suo gran carro il dí, l’aurate stelle
spiega la notte e l’argentata luna;
ma non è chi vagheggi o questa o quelle,
e miriam noi torbida luce e bruna
ch’un girar d’occhi, un balenar di riso,
scopre in breve confin di fragil viso."
Cosí pensando, a le piú eccelse cime
ascese; e quivi, inchino e riverente,
alzò il pensier sovra ogni ciel sublime
e le luci fissò ne l’oriente:
"La prima vita e le mie colpe prime
mira con occhio di pietà clemente,
Padre e Signor, e in me tua grazia piovi,
sí che ’l mio vecchio Adam purghi e rinovi."
Cosí pregava, e gli sorgeva a fronte
fatta già d’auro la vermiglia aurora
che l’elmo e l’arme e intorno a lui del monte
le verdi cime illuminando indora;
e ventillar nel petto e ne la fronte
sentia gli spirti di piacevol òra,
che sovra il capo suo scotea dal grembo
de la bell’alba un rugiadoso nembo.
La rugiada del ciel su le sue spoglie
cade, che parean cenere al colore,
e sí l’asperge che ’l pallor ne toglie
e induce in esse un lucido candore;
tal rabbellisce le smarrite foglie
a i matutini geli arido fiore,
e tal di vaga gioventú ritorna
lieto il serpente e di novo or s’adorna.
Il bel candor de la mutata vesta
egli medesmo riguardando ammira,
poscia verso l’antica alta foresta
con secura baldanza i passi gira.
Era là giunto ove i men forti arresta
solo il terror che di sua vista spira;
pur né spiacente a lui né pauroso
il bosco par, ma lietamente ombroso.
Passa piú oltre, e ode un suono intanto
che dolcissimamente si diffonde.
Vi sente d’un ruscello il roco pianto
e ’l sospirar de l’aura infra le fronde
e di musico cigno il flebil canto
e l’usignol che plora e gli risponde,
organi e cetre e voci umane in rime:
tanti e sí fatti suoni un suono esprime.
Il cavalier, pur come a gli altri aviene,
n’attendeva un gran tuon d’alto spavento,
e v’ode poi di ninfe e di sirene,
d’aure, d’acque, d’augei dolce concento,
onde meravigliando il piè ritiene,
e poi se ’n va tutto sospeso e lento;
e fra via non ritrova altro divieto
che quel d’un fiume trapassante e cheto.
L’un margo e l’altro del bel fiume, adorno
di vaghezze e d’odori, olezza e ride.
Ei stende tanto il suo girevol corno
che tra ’l suo giro il gran bosco s’asside,
né pur gli fa dolce ghirlanda intorno,
ma un canaletto suo v’entra e ’l divide:
bagna egli il bosco e ’l bosco il fiume adombra
con bel cambio fra lor d’umore e d’ombra.
Mentre mira il guerriero ove si guade,
ecco un ponte mirabile appariva:
un ricco ponte d’or che larghe strade
su gli archi stabilissimi gli offriva.
Passa il dorato varco, e quel giú cade
tosto che ’l piè toccata ha l’altra riva;
e se ne ’l porta in giú l’acqua repente,
l’acqua ch’è d’un bel rio fatta un torrente.
Ei si rivolge e dilatato il mira
e gonfio assai quasi per nevi sciolte,
che ’n se stesso volubil si raggira
con mille rapidissime rivolte.
Ma pur desio di novitade il tira
a spiar tra le piante antiche e folte,
e ’n quelle solitudini selvagge
sempre a sé nova meraviglia il tragge.
Dove in passando le vestigia ei posa,
par ch’ivi scaturisca o che germoglie:
là s’apre il giglio e qui spunta la rosa,
qui sorge un fonte, ivi un ruscel si scioglie,
e sovra e intorno a lui la selva annosa
tutte parea ringiovenir le foglie;
s’ammolliscon le scorze e si rinverde
piú lietamente in ogni pianta il verde.
Rugiadosa di manna era ogni fronda,
e distillava de le scorze il mèle,
e di novo s’udia quella gioconda
strana armonia di canto e di querele;
ma il coro uman, ch’a i cigni, a l’aura, a l’onda
facea tenor, non sa dove si cele:
non sa veder chi formi umani accenti,
né dove siano i musici stromenti.
Mentre riguarda, e fede il pensier nega
a quel che ’l senso gli offeria per vero,
vede un mirto in disparte, e là si piega
ove in gran piazza termina un sentiero.
L’estranio mirto i suoi gran rami spiega,
piú del cipresso e de la palma altero,
e sovra tutti gli arbori frondeggia;
ed ivi par del bosco esser la reggia.
Fermo il guerrier ne la gran piazza, affisa
a maggior novitate allor le ciglia.
Quercia gli appar che per se stessa incisa
apre feconda il cavo ventre e figlia,
e n’esce fuor vestita in strana guisa
ninfa d’età cresciuta (oh meraviglia!);
e vede insieme poi cento altre piante
cento ninfe produr dal sen pregnante.
Quai le mostra la scena o quai dipinte
tal volta rimiriam dèe boscareccie,
nude le braccia e l’abito succinte,
con bei coturni e con disciolte treccie,
tali in sembianza si vedean le finte
figlie de le selvatiche corteccie;
se non che in vece d’arco o di faretra,
chi tien leuto, e chi viola o cetra.
E cominciàr costor danze e carole,
e di se stesse una corona ordiro
e cinsero il guerrier, sí come sòle
esser punto rinchiuso entro il suo giro.
Cinser la pianta ancora, e tai parole
nel dolce canto lor da lui s’udiro:
"Ben caro giungi in queste chiostre amene
o de la donna nostra amore e spene.
Giungi aspettato a dar salute a l’egra,
d’amoroso pensiero arsa e ferita.
Questa selva che dianzi era sí negra,
stanza conforme a la dolente vita,
vedi che tutta al tuo venir s’allegra
e ’n piú leggiadre forme è rivestita."
Tale era il canto; e poi dal mirto uscia
un dolcissimo tuono, e quel s’apria.
Già ne l’aprir d’un rustico sileno
meraviglie vedea l’antica etade,
ma quel gran mirto da l’aperto seno
imagini mostrò piú belle e rade:
donna mostrò ch’assomigliava a pieno
nel falso aspetto angelica beltade.
Rinaldo guata, e di veder gli è aviso
le sembianze d’Armida e il dolce viso.
Quella lui mira in un lieta e dolente:
mille affetti in un guardo appaion misti.
Poi dice: "Io pur ti veggio, e finalmente
pur ritorni a colei da chi fuggisti.
A che ne vieni? a consolar presente
le mie vedove notti e i giorni tristi?
o vieni a mover guerra, a discacciarme,
che mi celi il bel volto e mostri l’arme?
giungi amante o nemico? Il ricco ponte
io già non preparava ad uom nemico,
né gli apriva i ruscelli, i fior, la fonte,
sgombrando i dumi e ciò ch’a’ passi è intrico.
Togli questo elmo omai, scopri la fronte
e gli occhi a gli occhi miei, s’arrivi amico;
giungi i labri a le labra, il seno al seno,
porgi la destra a la mia destra almeno."
Seguia parlando, e in bei pietosi giri
volgeva i lumi e scoloria i sembianti,
falseggiando i dolcissimi sospiri
e i soavi singulti e i vaghi pianti,
tal che incauta pietade a quei martíri
intenerir potea gli aspri diamanti;
ma il cavaliero, accorto sí, non crudo,
piú non v’attende, e stringe il ferro ignudo.
Vassene al mirto; allor colei s’abbraccia
al caro tronco, e s’interpone e grida:
"Ah non sarà mai ver che tu mi faccia
oltraggio tal, che l’arbor mio recida!
Deponi il ferro, o dispietato, o il caccia
pria ne le vene a l’infelice Armida:
per questo sen, per questo cor la spada
solo al bel mirto mio trovar può strada."
Egli alza il ferro, e ’l suo pregar non cura;
ma colei si trasmuta (oh novi mostri!)
sí come avien che d’una altra figura,
trasformando repente, il sogno mostri.
Cosí ingrossò le membra, e tornò oscura
la faccia e vi sparír gli avori e gli ostri;
crebbe in gigante altissimo, e si feo
con cento armate braccia un Briareo.
Cinquanta spade impugna e con cinquanta
scudi risuona, e minacciando freme.
Ogn’altra ninfa ancor d’arme s’ammanta,
fatta un ciclope orrendo; ed ei non teme:
raddoppia i colpi e la difesa pianta
che pur, come animata, a i colpi geme.
Sembran de l’aria i campi i campi stigi,
tanti appaion in lor mostri e prodigi.
Sopra il turbato ciel, sotto la terra
tuona: e fulmina quello, e trema questa;
vengono i venti e le procelle in guerra,
e gli soffiano al volto aspra tempesta.
Ma pur mai colpo il cavalier non erra,
né per tanto furor punto s’arresta;
tronca la noce: è noce, e mirto parve.
Qui l’incanto forní, sparír le larve.
Tornò sereno il cielo e l’aura cheta,
tornò la selva al natural suo stato:
non d’incanti terribile né lieta,
piena d’orror ma de l’orror innato.
Ritenta il vincitor s’altro piú vieta
ch’esser non possa il bosco omai troncato;
poscia sorride, e fra sé dice: "Oh vane
sembianze! e folle chi per voi rimane!"
Quinci s’invia verso le tende, e intanto
colà gridava il solitario Piero:
"Già vinto è de la selva il fero incanto,
già se ’n ritorna il vincitor guerriero:
vedilo." Ed ei da lunge in bianco manto
comparia venerabile e severo,
e de l’aquila sua l’argentee piume
splendeano al sol d’inusitato lume.
Ei dal campo gioioso alto saluto
ha con sonoro replicar di gridi;
e poi con lieto onore è ricevuto
dal pio Buglione, e non è chi l’invídi.
Disse al duce il guerriero: "A quel temuto
bosco n’andai, come imponesti, e ’l vidi:
vidi, e vinsi gli incanti; or vadan pure
le genti là, ché son le vie secure."
Vassi a l’antica selva, e quindi è tolta
materia tal qual buon giudicio elesse;
e bench’oscuro fabro arte non molta
por ne le prime machine sapesse,
pur artefice illustre a questa volta
è colui ch’a le travi i vinchi intesse:
Guglielmo, il duce ligure, che pria
signor del mare corseggiar solia,
poi sforzato a ritrarsi ei cesse i regni
al gran navilio saracin de’ mari,
ed ora al campo conducea da i legni
e le maritime arme e i marinari;
ed era questi infra i piú industri ingegni
ne’ mecanici ordigni uom senza pari,
e cento seco avea fabri minori,
di ciò ch’egli disegna essecutori.
Costui non solo incominciò a comporre
catapulte, balliste ed arieti,
onde a le mura le difese tòrre
possa e spezzar le sode alte pareti;
ma fece opra maggior: mirabil torre
ch’entro di pin tessuta era e d’abeti,
e ne le cuoia avolto ha quel di fuore
per ischermirsi da lanciato ardore.
Si commette la mole e ricompone
con sottili giunture in un congiunta,
e la trave che testa ha di montone
da l’ime parti sue cozzando spunta;
lancia dal mezzo un ponte, e spesso il pone
su l’opposta muraglia a prima giunta,
e fuor da lei su per la cima n’esce
torre minor ch’in suso è spinta e cresce.
Per le facili vie destra, e corrente
sovra ben cento sue volubil rote,
gravida d’arme e gravida di gente,
senza molta fatica ella gir pote.
Stanno le schiere in rimirando intente
la prestezza de’ fabri e l’arti ignote,
e due torri in quel punto anco son fatte
de la prima ad imagine ritratte.
Ma non eran fra tanto a i saracini
l’opre ch’ivi si fean del tutto ascoste,
perché ne l’alte mura a i piú vicini
lochi le guardie ad ispiar son poste.
Questi gran salmerie d’orni e di pini
vedean dal bosco esser condotte a l’oste,
e machine vedean; ma non a pieno
riconoscer la forma indi potieno.
Fan lor machine anch’essi e con molt’arte
rinforzano le torri e la muraglia,
e l’alzaron cosí da quella parte
ov’è men atta a sostener battaglia,
ch’a lor credenza omai sforzo di Marte
esser non può ch’ad espugnarla vaglia;
ma sovra ogni difesa Ismen prepara
copia di fochi inusitata e rara.
Mesce il mago fellon zolfi e bitume,
che dal lago di Sodoma ha raccolto;
e fu’ credo, in inferno, e dal gran fiume
che nove volte il cerchia anco n’ha tolto.
Cosí fa che quel foco e puta e fume,
e che s’aventi fiammeggiando al volto.
E ben co’ feri incendi egli s’avisa
di vendicar la cara selva incisa.
Mentre il campo e l’assalto e la cittade
s’apparecchia in tal modo a le difese,
una colomba per l’aeree strade
vista è passar sovra lo stuol francese,
che non dimena i presti vanni e rade
quelle liquide vie con l’ali tese;
e già la messaggiera peregrina
da l’alte nubi a la città s’inchina,
quando di non so donde esce un falcone
d’adunco rostro armato e di grand’ugna
che fra ’l campo e le mura a lei s’oppone.
Non aspetta ella del crudel la pugna;
quegli, d’alto volando, al padiglione
maggior l’incalza e par ch’omai l’aggiugna,
ed al tenero capo il piede ha sovra:
essa nel grembo al pio Buglion ricovra.
La raccoglie Goffredo, e la difende;
poi scorge, in lei guardando, estrania cosa,
ché dal collo ad un filo avinta pende
rinchiusa carta, e sotto un’ala ascosa.
La disserra e dispiega, e bene intende
quella ch’in sé contien non lunga prosa:
"Al signor di Giudea" dice lo scritto
"invia salute il capitan d’Egitto.
Non sbigottir, signor: resisti e dura
insino al quarto o insino al giorno quinto,
ch’io vengo a liberar coteste mura,
e vedrai tosto il tuo nemico vinto."
Questo il secreto fu che la scrittura
in barbariche note avea distinto
dato in custodia al portator volante,
ché tai messi in quel tempo usò il Levante.
Libera il prence la colomba; e quella,
che de’ secreti fu rivelatrice,
come esser creda al suo signor rubella,
non ardí piú tornar nunzia infelice.
Ma il sopran duce i minor duci appella,
e lor mostra la carta e cosí dice:
"Vedete come il tutto a noi riveli
la providenza del Signor de’ cieli.
Già piú da ritardar tempo non parmi:
nova spianata or cominciar potrassi,
e fatica e sudor non si risparmi
per superar d’inverso l’Austro i sassi.
Duro fia sí far colà strada a l’armi,
pur far si può: notato ho il loco e i passi.
E ben quel muro che assecura il sito,
d’arme e d’opre men deve esser munito.
Tu, Raimondo, vogl’io che da quel lato
con le machine tue le mura offenda,
vuo’ che de l’arme mie l’alto apparato
contra la porta Aquilonar si stenda
sí che il nemico il vegga ed ingannato
indi il maggior impeto nostro attenda;
poi la gran torre mia, ch’agevol move,
trascorra alquanto e porti guerra altrove.
Tu drizzarai, Camillo, al tempo stesso
non lontana da me la terza torre."
Tacque; e Raimondo, che gli siede appresso
e che, parlando lui, fra sé discorre,
disse: "Al consiglio da Goffredo espresso
nulla giunger si pote e nulla tòrre.
Lodo solo, oltra ciò, ch’alcun s’invii
nel campo ostil ch’i suoi secreti spii,
e ne ridica il numero e ’l pensiero,
quanto raccòr potrà, certo e verace."
Sogiunge allor Tancredi: "Ho un mio scudiero
che a questo uffizio di propor mi piace:
uom pronto e destro e sovra i piè leggiero,
audace sí, ma cautamente audace,
che parla in molte lingue, e varia il noto
suon de la voce e ’l portamento e ’l moto."
Venne colui, chiamato; e poi ch’intese
ciò che Goffredo e ’l suo signor desia,
alzò ridendo il volto ed intraprese
la cura e disse: "Or or mi pongo in via.
Tosto sarò dove quel campo tese
le tende avrà, non conosciuta spia;
vuo’ penetrar di mezzodí nel vallo,
e numerarvi ogn’uomo, ogni cavallo.
Quanta e qual sia quell’oste, e ciò che pensi
il duce loro, a voi ridir prometto:
vantomi in lui scoprir gli intimi sensi
e i secreti pensier trargli del petto."
Cosí parla Vafrino e non trattiensi,
ma cangia in lungo manto il suo farsetto,
e mostra fa del nudo collo, e prende
d’intorno al capo attorcigliate bende;
la faretra s’adatta e l’arco siro,
e barbarico sembra ogni suo gesto.
Stupiron quei che favellar l’udiro
ed in diverse lingue esser sí presto
ch’egizio in Menfi o pur fenice in Tiro
l’avria creduto e quel popolo e questo.
Egli se ’n va sovra un destrier ch’a pena
segna nel corso la piú molle arena.
Ma i Franchi, pria che ’l terzo dí sia giunto,
appianaron le vie scoscese e rotte,
e fornír gli instromenti anco in quel punto,
ché non fur le fatiche unqua interrotte;
anzi a l’opre de’ giorni avean congiunto,
togliendola al riposo, anco la notte,
né cosa è piú che ritardar li possa
dal far l’estremo omai d’ogni lor possa.
Del dí cui de l’assalto il dí successe,
gran parte orando il pio Buglion dispensa;
e impon ch’ogn’altro i falli suoi confesse
e pasca il pan de l’alme a la gran mensa.
Machine ed arme poscia ivi piú spesse
dimostra ove adoprarle egli men pensa;
e ’l deluso pagan si riconforta,
ch’oppor le vede a la munita porta.
Co ’l buio de la notte è poi la vasta
agil machina sua colà traslata
ove è men curvo il muro e men contrasta,
ch’angulosa non fa parte e piegata.
E d’in su ’l colle e la città sovrasta
Raimondo ancor con la sua torre armata,
la sua Camillo a quel lato avicina
che dal Borea a l’occaso alquanto inchina.
Ma come furo in oriente apparsi
i matutini messaggier del sole,
s’avidero i pagani (e ben turbàrsi)
che la torre non è dove esser sòle;
e miràr quinci e quindi anco inalzarsi
non piú veduta una ed un’altra mole,
e in numero infinito anco son viste
catapulte, monton, gatti e balliste.
Non è la turba de’ pagan già lenta
a trasportarne là molte difese
ove il Buglion le machine appresenta,
da quella parte ove primier l’attese.
Ma il capitan, ch’a tergo aver rammenta
l’oste d’Egitto, ha quelle vie già prese;
e Guelfo e i due Roberti a sé chiamati:
"State" dice "a cavallo in sella armati,
e procurate voi che, mentre ascendo
colà dove quel muro appar men forte,
schiera non sia che súbita venendo
s’atterghi a gli occupati e guerra porte."
Tacque, e già da tre lati assalto orrendo
movon le tre sí valorose scorte;
e da tre lati ha il re sue genti opposte,
che riprese quel dí l’arme deposte.
Egli medesmo al corpo omai tremante
per gli anni, e grave del suo proprio pondo,
l’arme che disusò gran tempo inante,
circonda, e se ne va contra Raimondo.
Solimano a Goffredo e ’l fero Argante
al buon Camillo oppon, che di Boemondo
seco ha il nipote; e lui fortuna or guida,
perché ’l nemico a sé dovuto uccida.
Incominciaro a saettar gli arcieri
infette di veneno arme mortali,
ed adombrato il ciel par che s’anneri
sotto un immenso nuvolo di strali.
Ma con forza maggior colpi piú feri
ne venian da le machine murali:
indi gran palle uscian marmoree e gravi,
e con punta d’acciar ferrate travi.
Par fulmine ogni sasso, e cosí trita
l’armatura e le membra a chi n’è colto,
che gli toglie non pur l’alma e la vita,
ma la forma del corpo anco e del volto.
Non si ferma la lancia a la ferita;
dopo il colpo, del corso avanza molto:
entra da un lato e fuor per l’altro passa
fuggendo, e nel fuggir la morte lassa.
Ma non togliea però da la difesa
tanto furor le saracine genti:
contra quelle percosse avean già tesa
pieghevol tela e cose altre cedenti;
l’impeto, che ’n lor cade, ivi contesa
non trova, e vien che vi si fiacchi e lenti;
essi, ove miran piú la calca esposta,
fan con l’arme volanti aspra risposta.
Con tutto ciò d’andarne oltre non cessa
l’assalitor, che tripartito move;
e chi va sotto gatti, ove la spessa
gragnuola di saette indarno piove,
e chi le torri a l’alto muro appressa
che da sé loro a suo poter rimove:
tenta ogni torre omai lanciare il ponte,
cozza il monton con la ferrata fronte.
Rinaldo intanto irresoluto bada,
ché quel rischio di sé degno non era,
e stima onor plebeo quand’egli vada
per le comuni vie co ’l vulgo in schiera.
E volge intorno gli occhi, e quella strada
sol gli piace tentar ch’altri dispera.
Là dove il muro piú munito ed alto
in pace stassi, ei vuol portar assalto.
E volgendosi a quegli, i quai già furo
guidati da Dudon, guerrier famosi:
"Oh vergogna," dicea "che là quel muro
fra cotant’arme in pace or si riposi!
Ogni rischio al valor sempre è securo,
tutte le vie son piane a gli animosi:
moviam là guerra, e contra a i colpi crudi
faciam densa testugine di scudi."
Giunsersi tutti seco a questo detto;
tutti gli scudi alzàr sovra la testa,
e gli uniron cosí che ferreo tetto
facean contra l’orribile tempesta.
Sotto il coperchio il fero stuol ristretto
va di gran corso, e nulla il corso arresta,
ché la soda testugine sostiene
ciò che di ruinoso in giú ne viene.
Son già sotto le mura: allor Rinaldo
scala drizzò di cento gradi e cento,
e lei con braccio maneggiò sí saldo
ch’agile è men picciola canna al vento.
Or lancia o trave, or gran colonna o spaldo
d’alto discende: ei non va su piú lento;
ma, intrepido ed invitto ad ogni scossa,
sprezzaria, se cadesse, Olimpo ed Ossa.
Una selva di strali e di ruine
sostien su ’l dosso, e su lo scudo un monte:
scote una man le mura a sé vicine,
l’altra sospesa in guardia è de la fronte.
L’essempio a l’opre ardite e pellegrine
spinge i compagni: ei non è sol che monte,
ché molti appoggian seco eccelse scale;
ma ’l valore e la sorte è diseguale.
More alcuno, altri cade: egli sublime
poggia, e questi conforta e quei minaccia;
tanto è già in su che le merlate cime
pote afferrar con le distese braccia.
Gran gente allor vi trae; l’urta, il reprime,
cerca precipitarlo, e pur no ’l caccia.
Mirabil vista! a un grande e fermo stuolo
resister può, sospeso in aria, un solo.
E resiste e s’avanza e si rinforza;
e come palma suol cui pondo aggreva,
suo valor combattuto ha maggior forza
e ne la oppression piú si solleva.
E vince alfin tutti i nemici, e sforza
l’aste e gli intoppi che d’incontro aveva;
e sale il muro e ’l signoreggia, e ’l rende
sgombro e securo a chi diretro ascende.
Ed egli stesso a l’ultimo germano
del pio Buglion, ch’è di cadere in forse,
stesa la vincitrice amica mano,
di salirne secondo aita porse.
Fra tanto erano altrove al capitano
varie fortune e perigliose occorse;
ch’ivi non pur fra gli uomini si pugna,
ma le machine insieme anco fan pugna.
Su ’l muro aveano i Siri un tronco alzato
ch’antenna un tempo esser solea di nave,
e sovra lui co ’l capo aspro e ferrato
per traverso sospesa è grossa trave;
e indietro quel da canapi tirato,
poi torna inanti impetuoso e grave:
talor rientra nel suo guscio, ed ora
la testugin rimanda il collo fora.
Urtò la trave immensa, e cosí dure
ne la torre addoppiò le sue percosse
che le ben teste in lei salde giunture
lentando aperse, e la respinse e scosse.
La torre a quel bisogno armi secure
avea già in punto, e due gran falci mosse
ch’aventate con arte incontra al legno
quelle funi tagliàr ch’eran sostegno.
Qual gran sasso talor, ch’o la vecchiezza
solve da un monte o svelle ira de’ venti,
ruinoso dirupa, e porta e spezza
le selve e con le case anco gli armenti,
tal giú traea da la sublime altezza
l’orribil trave e merli ed arme e genti;
diè la torre a quel moto uno e duo crolli,
tremàr le mura e rimbombaro i colli.
Passa il Buglion vittorioso inanti
e già le mura d’occupar si crede,
ma fiamme allora fetide e fumanti
lanciarsi incontra immantinente ei vede;
né dal sulfureo sen fochi mai tanti
il cavernoso Mongibel fuor diede,
né mai cotanti ne gli estivi ardori
piovve l’indico ciel caldi vapori.
Qui vasi e cerchi ed aste ardenti sono,
qual fiamma nera e qual sanguigna splende.
L’odore appuzza, assorda il bombo e ’l tuono
accieca il fumo, il foco arde e s’apprende.
L’umido cuoio alfin saria mal buono
schermo a la torre, a pena or la difende.
Già suda e si rincrespa; e se piú tarda
il soccorso del Ciel, conven pur ch’arda.
Il magnanimo duce inanzi a tutti
stassi, e non muta né color né loco;
e quei conforta che su i cuoi asciutti
versan l’onde apprestate incontra al foco.
In tale stato eran costor ridutti,
e già de l’acque rimanea lor poco,
quando ecco un vento, ch’improviso spira,
contra gli autori suoi l’incendio gira.
Vien contro al foco il turbo; e indietro vòlto
il foco ove i pagan le tele alzaro,
quella molle materia in sé raccolto
l’ha immantinente, e n’arde ogni riparo.
Oh glorioso capitano! oh molto
dal gran Dio custodito, al gran Dio caro!
A te guerreggia il Cielo; ed ubidienti
vengon, chiamati a suon di trombe, i venti.
Ma l’empio Ismen, che le sulfuree faci
vide da Borea incontra sé converse,
ritentar volle l’arti sue fallaci
per sforzar la natura e l’aure averse,
e fra due maghe, che di lui seguaci
si fèr, su ’l muro a gli occhi altrui s’offerse;
e torvo e nero e squallido e barbuto
fra due furie parea Caronte o Pluto.
Già il mormorar s’udia de le parole
di cui teme Cocito e Flegetonte,
già si vedea l’aria turbar e ’l sole
cinger d’oscuri nuvoli la fronte,
quando aventato fu da l’alta mole
un gran sasso, che fu parte d’un monte;
e tra lor colse sí ch’una percossa
sparse di tutti insieme il sangue e l’ossa.
In pezzi minutissimi e sanguigni
si disperser cosí l’inique teste,
che di sotto a i pesanti aspri macigni
soglion poco le biade uscir piú peste.
Lasciàr gemendo i tre spirti maligni
l’aria serena e ’l bel raggio celeste,
e se ’n fuggìr tra l’ombre empie infernali.
Apprendete pietà quinci, o mortali.
In questo mezzo, a la città la torre,
cui da l’incendio il turbine assecura,
s’avicina cosí che può ben porre
e fermare il suo ponte in su le mura;
ma Solimano intrepido v’accorre,
e ’l passo angusto di tagliar procura,
e doppia i colpi: e ben l’avria reciso;
ma un’altra torre apparse a l’improviso.
La gran mole crescente oltra i confini
de’ piú alti edifici in aria passa.
Attoniti a quel mostro i saracini
restàr, vedendo la città piú bassa.
Ma il fero turco, ancor ch’in lui ruini
di pietre un nembo, il loco suo non lassa;
né di tagliar il ponte anco diffida,
e gli altri che temean rincora e sgrida.
S’offerse a gli occhi di Goffredo allora,
invisibile altrui, l’agnol Michele
cinto d’armi celesti; e vinto fòra
il sol da lui, cui nulla nube vele.
"Ecco," disse "Goffredo, è giunta l’ora
ch’esca Siòn di servitú crudele.
Non chinar, non chinar gli occhi smarriti;
mira con quante forze il Ciel t’aiti.
Drizza pur gli occhi a riguardar l’immenso
essercito immortal ch’è in aria accolto,
ch’io dinanzi torrotti il nuvol denso
di vostra umanità, ch’intorno avolto
adombrando t’appanna il mortal senso,
sí che vedrai gli ignudi spirti in volto;
e sostener per breve spazio i rai
de l’angeliche forme anco potrai.
Mira di quei che fur campion di Cristo
l’anime fatte in Cielo or cittadine,
che pugnan teco e di sí alto acquisto
si trovan teco al glorioso fine.
Là ’ve ondeggiar la polve e ’l fumo misto
vedi e di rotte moli alte ruine,
tra quella folta nebbia Ugon combatte
e de le torri i fondamenti abbatte.
Ecco poi là Dudon, che l’alta porta
Aquilonar con ferro e fiamma assale:
ministra l’arme a i combattenti, essorta
ch’altrui su monti, e drizza e tien le scale.
Quel ch’è su ’l colle, e ’l sacro abito porta
e la corona a i crin sacerdotale,
è il pastore Ademaro, alma felice:
vedi ch’ancor vi segna e benedice.
Leva piú in su l’ardite luci, e tutta
la grande oste del ciel congiunta guata."
Egli alzò il guardo, e vide in un ridutta
milizia innumerabile ed alata.
Tre folte squadre, ed ogni squadra instrutta
in tre ordini gira e si dilata;
ma si dilata piú quanto piú in fòri
i cerchi son: son gli intimi i minori.
Qui chinò vinti i lumi e gli alzò poi,
né lo spettacol grande ei piú rivide;
ma riguardando d’ogni parte i suoi,
scorge che a tutti la vittoria arride.
Molti dietro a Rinaldo illustri eroi
saliano; ei già salito i Siri uccide.
Il capitan, che piú indugiar si sdegna,
toglie di mano al fido alfier l’insegna,
e passa primo il ponte, ed impedita
gli è a mezzo il corso dal Soldan la via.
Un picciol ponte è campo ad infinita
virtú, ch’in pochi colpi ivi apparia.
Grida il fer Solimano: "A l’altrui vita
dono e consacro io la vita mia.
Tagliate, amici, a le mie spalle or questo
ponte, ché qui non facil preda i’ resto."
Ma venirne Rinaldo in volto orrendo
e fuggirne ciascun vedea lontano:
"Or che farò? se qui la vita spendo,
la spando" disse "e la disperdo invano."
E, in sé nove difese anco volgendo,
cedea libero il passo al capitano,
che minacciando il segue e de la santa
Croce il vessillo in su le mura pianta.
La vincitrice insegna in mille giri
alteramente si rivolge intorno;
e par che in lei piú riverente spiri
l’aura, e che splenda in lei piú chiaro il giorno;
ch’ogni dardo, ogni stral ch’in lei si tiri,
o la declini, o faccia indi ritorno:
par che Siòn, par che l’opposto monte
lieto l’adori, e inchini a lei la fronte.
Allor tutte le squadre il grido alzaro
de la vittoria altissimo e festante,
e risonaro i monti e replicaro
gli ultimi accenti; e quasi in quello istante
ruppe e vinse Tancredi ogni riparo
che gli aveva a l’incontro opposto Argante,
e lanciando il suo ponte anch’ei veloce
passò nel muro e v’inalzò la Croce.
Ma verso il mezzogiorno, ove il canuto
Raimondo pugna e ’l palestin tiranno,
i guerrier di Guascogna anco potuto
giunger la torre a la città non hanno,
ché ’l nerbo de le genti ha il re in aiuto
ed ostinati a la difesa stanno;
e se ben quivi il muro era men fermo,
di machine v’avea maggior lo schermo.
Oltra che men ch’altrove in questo canto
la gran mole il sentier trovò spedito,
né tanto arte poté che pur alquanto
di sua natura non ritegna il sito.
Fu l’alto segno di vittoria intanto
da i difensori e da i Guasconi udito,
ed avisò il tiranno e ’l tolosano
che la città già presa è verso il piano.
Onde Raimondo a i suoi: "Da l’altra parte,"
grida "o compagni, è la città già presa.
Vinta ancor ne resiste? or soli a parte
non sarem noi di sí onorata presa?"
Ma il re cedendo alfin di là si parte
perch’ivi disperata è la difesa,
e se ’n rifugge in loco forte ed alto
ove egli spera sostener l’assalto.
Entra allor vincitore il campo tutto
per le mura non sol, ma per le porte;
ch’è già aperto, abbattuto, arso e destrutto
ciò che lor s’opponea rinchiuso e forte.
Spazia l’ira del ferro; e va co ’l lutto
e con l’orror, compagni suoi, la morte.
Ristagna il sangue in gorghi, e corre in rivi
pieni di corpi estinti e di mal vivi.