Gaza è città de la Giudea nel fine,
su quella via ch’invèr Pelusio mena,
posta in riva del mare, ed ha vicine
immense solitudini d’arena,
le quai, come Austro suol l’onde marine,
mesce il turbo spirante, onde a gran pena
ritrova il peregrin riparo o scampo
ne le tempeste de l’instabil campo.
Del re d’Egitto è la città frontiera,
da lui gran tempo inanzi a i Turchi tolta,
e però ch’opportuna e prossima era
a l’alta impresa ove la mente ha vòlta,
lasciando Egitto e la sua regia altera
qui traslato il gran seggio e qui raccolta
già da varie provincie insieme avea
l’innumerabil oste a l’assemblea.
Musa, quale stagione e qual là fosse
stato di cose or tu mi reca a mente:
qual arme il grande imperator, quai posse,
qual serva avesse e qual compagna gente,
quando del Mezzogiorno in guerra mosse
le forze e i regi e l’ultimo Oriente;
tu sol le schiere e i duci e sotto l’arme
mezzo il mondo raccolto, or puoi dettarme.
Poscia che ribellante al greco impero
si sottrasse l’Egitto e mutò fede,
del sangue di Macon nato un guerriero
se ’n fe’ tiranno e vi fondò la sede.
Ei fu detto Califfo, e del primiero
chi n’ha lo scettro al nome anco succede.
Cosí per ordin lungo il Nilo i suoi
Faraon vide e i Tolomei dopoi.
Volgendo gli anni, il regno è stabilito
ed accresciuto in guisa tal che viene,
Asia e Libia ingombrando, al sirio lito
da’ marmarici fini e da Cirene,
e passa a dentro incontra a l’infinito
corso del Nilo assai sovra Siene,
e quinci a le campagne inabitate
va de la sabbia e quindi al grande Eufrate.
A destra ed a sinistra in sé comprende
l’odorata maremma e ’l ricco mare,
e fuor de l’Eritreo molto si stende
incontra al sol che matutino appare.
L’imperio ha in sé gran forze, e piú le rende
il re ch’or lo governa illustri e chiare,
ch’è per sangue signor, ma piú per merto,
ne l’arti regie e militari esperto.
Questi or co’ Turchi, or con le genti perse
piú guerre fe’: le mosse e le respinse;
fu perdente e vincente, e ne le averse
fortune fu maggior che quando vinse.
Poi che la grave età piú non sofferse
de l’armi il peso, alfin la spada scinse;
ma non depose il suo guerriero ingegno,
e d’onor il desio vasto e di regno.
Ancor guerreggia per ministri, ed have
tanto vigor di mente e di parole,
che de la monarchia la soma grave
non sembra a gli anni suoi soverchia mole.
Sparsa in minuti regni Africa pave
tutta al suo nome e ’l remoto Indo il cole,
e gli porge altri volontario aiuto
d’armate genti ed altri d’or tributo.
Tanto e sí fatto re l’arme raguna,
anzi pur adunate omai l’affretta
contra il sorgente imperio e la fortuna
franca, ne le vittorie omai sospetta.
Armida ultima vien: giunge opportuna
ne l’ora a punto a la rassegna eletta.
Fuor de le mura in spazioso campo
passa dinanzi a lui schierato il campo.
Egli in sublime soglio, a cui per cento
gradi eburnei s’ascende, altero siede;
e sotto l’ombra d’un gran ciel d’argento
porpora intesta d’or preme co ’l piede,
e ricco di barbarico ornamento
in abito regal splender si vede:
fan torti in mille fascie i bianchi lini
alto diadema in nova forma a i crini.
Lo scettro ha ne la destra e per canuta
barba appar venerabile e severo;
e da gli occhi, ch’etade ancor non muta,
spira l’ardire e ’l suo vigor primiero,
e ben da ciascun atto è sostenuta
la maestà de gli anni e de l’impero.
Apelle forse o Fidia in tal sembiante
Giove formò, ma Giove allor tonante.
Stannogli, a destra l’un, l’altro a sinistra,
due satrapi, i maggiori: alza il piú degno
la nuda spada, del rigor ministra,
l’altro il sigillo ha del suo ufficio in segno.
Custode un de’ secreti, al re ministra
opra civil ne’ grandi affar del regno,
ma prence de gli esserciti e con piena
possanza è l’altro ordinator di pena.
Sotto, folta corona al seggio fanno
con fedel guardia i suoi Circassi astati,
ed oltre l’aste hanno corazze ed hanno
spade lunghe e ricurve a l’un de’ lati.
Cosí sedea, cosí scopria il tiranno
d’eccelsa parte i popoli adunati;
tutte a’ suoi piè nel trapassar le schiere
chinan, quasi adorando, armi e bandiere.
Il popol de l’Egitto in ordin primo
fa di sé mostra, e quattro i duci sono:
duo de l’alto paese e duo de l’imo,
ch’è del celeste Nilo opera e dono.
Al mare usurpò il letto il fertil limo,
e rassodato al cultivar fu buono;
sí crebbe Egitto: oh quanto a dentro è posto
quel che fu lido a i naviganti esposto!
Nel primiero squadron appar la gente
ch’abitò d’Alessandria il ricco piano,
ch’abitò il lido vòlto a l’occidente
ch’esser comincia omai lido africano.
Araspe è il duce lor, duce potente
d’ingegno piú che di vigor di mano:
ei di furtivi aguati è mastro egregio,
e d’ogn’arte moresca in guerra ha il pregio.
Secondan quei che posti invèr l’aurora
ne la costa asiatica albergaro,
e li guida Arontèo cui nulla onora
pregio o virtú, ma i titoli il fan chiaro.
Non sudò il molle sotto l’elmo ancora,
né matutine trombe anco il destaro,
ma da gli agi e da l’ombra a dura vita
intempestiva ambizion l’invita.
Quella che terza è poi, squadra non pare
ma un’oste immensa, e campi e lidi tiene;
non crederai ch’Egitto mieta ed are
per tanti, e pur da una città sua viene:
città, ch’a le provincie emula e pare,
mille cittadinanze in sé contiene.
Del Cairo i’ parlo; indi il gran vulgo adduce,
vulgo a l’arme restio, Campsone il duce.
Vengon sotto Gazèl quei che le biade
segaron nel vicin campo fecondo,
e piú suso insin là dove ricade
il fiume al precipizio suo secondo.
La turba egizia avea sol archi e spade,
né sosterria d’elmo o corazza il pondo:
d’abito è ricca, onde altrui vien che porte
desio di preda e non timor di morte.
Poi la plebe di Barca, e nuda, e inerme
quasi, sotto Alarcon passar si vede,
che la vita famelica ne l’erme
piaggie gran tempo sostentò di prede.
Con istuol manco reo ma inetto a ferme
battaglie, di Zumara il re succede;
quel di Tripoli poscia: e l’uno e l’altro
nel pugnar volteggiando è dotto e scaltro.
Diretro ad essi apparvero i cultori
de l’Arabia Petrea, de la Felice,
che ’l soverchio del gelo e de gli ardori
non sente mai, se ’l ver la fama dice;
ove nascon gl’incensi e gli altri odori,
ove rinasce l’immortal fenice,
ch’in quella ricca fabrica ch’aduna
a l’essequie, a i natali, ha tomba e cuna.
L’abito di costoro è meno adorno,
ma l’armi a quei d’Egitto han simiglianti.
Ecco altri Arabi poi, che di soggiorno
certo non sono stabili abitanti:
peregrini perpetui usano intorno
trarne gli alberghi e le cittadi erranti.
Han questi voce e femminil statura,
crin lungo e negro, e negra faccia e scura.
E gran canne indiane arman di corte
punte di ferro, e ’n su destrier correnti
diresti ben che un turbine lor porte,
se pur han turbo sí veloce i venti.
Da Siface le prime erano scòrte,
Aldino in guardia ha le seconde genti,
le terze guida Albiazàr ch’è fiero
omicida ladron, non cavaliero.
La turba è appresso che lasciate avea
l’isole cinte da l’arabiche onde,
da cui pescando già raccòr solea
conche di perle gravide e feconde.
Sono i Negri con lor su l’eritrea
marina posti a le sinistre sponde.
Quegli Agricalte e questi Osmida regge,
che schernisce ogni fede ed ogni legge.
Gli Etiòpi di Mèroe indi seguiro:
Mèroe, che quindi il Nilo isola face
ed Astrabora quinci, il cui gran giro
è di tre regni e di due fé capace.
Li conducea Canario ed Assimiro,
re l’uno e l’altro e di Macon seguace
e tributario al Califé; ma tenne
santa credenza il terzo e qui non venne.
Poi due regi soggetti anco venieno
con squadre d’arco armate e di quadrella:
un, soldano è d’Ormús, che dal gran seno
persico è cinta, nobil terra e bella;
l’altro, di Boecan; questa è nel seno
del gran flusso marino isola anch’ella,
ma quando poi scemando il mar s’abbassa,
co ’l piede asciutto il peregrin vi passa.
Né te, Altamoro, entro al pudico letto
potuto ha ritener la sposa amata.
Pianse, percosse il biondo crine e ’l petto
per distornar la tua fatale andata:
"Dunque," dicea "crudel, piú che ’l mio aspetto,
del mar l’orrida faccia a te fia grata?
fia l’arme al braccio tuo piú caro peso
che ’l picciol figlio a i dolci scherzi inteso?"
È questi re di Sarmacante; e ’l manco
ch’in lui si pregi, è il libero diadema,
cosí dotto è ne l’arme, e cosí franco
ardir congiunge a gagliardia suprema.
Saprallo ben (l’annunzio) il popol franco,
ed è ragion che insino ad or ne tema.
I suoi guerrieri indosso han la corazza,
la spada al fianco ed a l’arcion la mazza.
Ecco poi fin da gl’Indi e da l’albergo
de l’aurora venuto Adrasto il fero,
che di serpenti indosso ha per usbergo
il cuoio verde e maculato a nero,
e smisurato a un elefante il tergo
preme cosí come si suol destriero.
Gente guida costui di qua dal Gange
che si lava nel mar che l’Indo frange.
Ne la squadra che segue è scelto il fiore
de la regal milizia, e v’ha que’ tutti
che con regal mercé, con degno onore,
e per guerra e per pace eran condutti,
ch’armati a securezza ed a terrore
vengono in su i destrier possenti instrutti;
e de’ purpurei manti e de la luce
de l’acciaio e de l’oro il ciel riluce.
Fra questi è il crudo Alarco ed Odemaro
ordinator di squadre ed Idraorte,
e Rimedon che per l’audacia è chiaro,
sprezzator de’ mortali e de la morte;
e Tigrane e Rapoldo il gran corsaro,
già de’ mari tiranno; e Ormondo il forte,
e Marlabusto arabico a chi il nome
l’Arabie dièr che ribellanti ha dome.
Evvi Orindo, Arimon, Pirga, Brimarte
espugnator de le città, Sifante
domator de’ cavalli; e tu de l’arte
de la lotta maestro, Aridamante;
e Tisaferno, il folgore di Marte,
a cui non è chi d’agguagliar si vante
o se in arcione o se pedon contrasta,
o se rota la spada o corre l’asta.
Ma duce è un prence armeno il qual tragitto
al paganesmo ne l’età novella
fe’ da la vera fede, ed ove ditto
fu già Clemente, ora Emiren s’appella;
per altro, uom fido e caro al re d’Egitto
sovra quanti per lui calcàr mai sella:
è duce insieme e cavalier soprano
per cor, per senno e per valor di mano.
Nessun piú rimanea, quando improvisa
Armida apparve e dimostrò sua schiera.
Venia sublime in un gran carro assisa,
succinta in gonna e faretrata arciera;
e mescolato il novo sdegno in guisa
co ’l natio dolce in quel bel volto s’era,
che vigor dàlle, e cruda ed acerbetta
par che minacci e minacciando alletta.
Somiglia il carro a quel che porta il giorno,
lucido di piropi e di giacinti;
e frena il dotto auriga al giogo adorno
quattro unicorni a coppia a coppia avinti.
Cento donzelle e cento paggi intorno
pur di faretra gli omeri van cinti,
ed a i bianchi destrier premono il dorso
che sono al giro pronti e lievi al corso.
Segue il suo stuolo, ed Aradin con quello
ch’Idraote assoldò ne la Soria.
Come allor che ’l rinato unico augello
i suo’ Etiòpi a visitar s’invia
vario e vago la piuma, e ricco e bello
di monil, di corona aurea natia,
stupisce il mondo e va dietro ed a i lati,
meravigliando, essercito d’alati,
cosí passa costei, meravigliosa
d’abito, di maniere e di sembiante.
Non è allor sí inumana o sí ritrosa
alma d’amor che non divegna amante.
Veduta a pena e in gravità sdegnosa,
invaghir può genti sí varie e tante;
che sarà poi, quando in piú lieto viso
co’ begli occhi lusinghi e co ’l bel riso?
Ma poi ch’ella è passata, il re de’ regi
comanda ch’Emireno a sé ne vegna,
ché lui preporre a tutti i duci egregi
e duce farlo universal disegna.
Quel, già presago, a i meritati pregi
con fronte vien che ben del grado è degna:
la guardia de’ Circassi in due si fende
e gli fa strada al seggio, ed ei v’ascende;
e chino il capo e le ginocchia, al petto
giunge la destra. Il re cosí gli dice:
"Te’ questo scettro; a te, Emiren, commetto
le genti, e tu sostieni in lor mia vice,
e porta, liberando il re soggetto,
su’ Franchi l’ira mia vendicatrice.
Va’, vedi e vinci; e non lasciar de’ vinti
avanzo, e mena presi i non estinti."
Cosí parlò il tiranno, e del soprano
imperio il cavalier la verga prese:
"Prendo scettro, signor, d’invitta mano,"
disse "e vo co’ tuo’ auspici a l’alte imprese,
e spero, in tua virtú tuo capitano,
de l’Asia vendicar le gravi offese;
né tornerò se vincitor non torno,
e la perdita avrà morte, non scorno.
Ben prego il Ciel che, s’ordinato male
(ch’io già no ’l credo) di là su minaccia,
tutta su ’l capo mio quella fatale
tempesta accolta di sfogar gli piaccia;
e salvo rieda il campo, e ’n trionfale
piú che in funebre pompa il duce giaccia."
Tacque, e seguí co’ popolari accenti
misto un gran suon de’ barbari instrumenti.
E fra le grida ei suoni in mezzo a densa
nobile turba il re de’ re si parte;
e giunto a la gran tenda, a lieta mensa
raccoglie i duci e siede egli in disparte,
ond’or cibo, or parole altrui dispensa,
né lascia inonorata alcuna parte.
Armida a l’arte sue ben trova loco
quivi opportun fra l’allegrezza e ’l gioco.
Ma già tolte le mense, ella che vede
tutte le viste in sé fisse ed intente,
e ch’a’ segni ben noti omai s’avvede
che sparso è il suo venen per ogni mente,
sorge e si volge al re da la sua sede
con atto insieme altero e riverente,
e quanto può magnanima e feroce
cerca parer nel volto e ne la voce.
"O re supremo," dice "anch’io ne vegno
per la fé, per la patria ad impiegarmi.
Donna son io, ma regal donna: indegno
già di reina il guerreggiar non parmi.
Usi ogn’arte regal chi vuol il regno,
dansi a l’istessa man lo scettro e l’armi;
saprà la mia (né torpe al ferro o langue)
ferir e trar da le ferite il sangue.
Né creder che sia questo il dí primiero
ch’a ciò nobil m’invoglia alta vaghezza,
ché in pro di nostra legge e del tuo impero
son io già prima a militar avezza.
Ben rammentar déi tu s’io dico il vero,
ché d’alcun’opra nostra hai pur contezza,
e sai che molti de’ maggior campioni
che dispieghin la Croce io fèi prigioni.
Da me presi ed avinti, e da me furo
in magnifico dono a te mandati;
ed ancor si stariano in fondo oscuro
di perpetua prigion per te guardati,
e saresti ora tu via piú securo
di terminar vincendo i tuoi gran piati,
se non che ’l fier Rinaldo, il qual uccise
i miei guerrieri, in libertà li mise.
Chi sia Rinaldo è noto; e qui di lui
lunga istoria di cose anco si conta:
questo è il crudel ond’aspramente fui
offesa poi, né vendicata ho l’onta;
onde sdegno a ragione aggiunge i sui
stimoli, e piú mi rende a l’arme pronta.
Ma qual sia la mia ingiuria, a lungo detta
saravvi; or tanto basti: io vuo’ vendetta.
E la procurerò, che non invano
soglion portarne ogni saetta i venti,
e la destra del Ciel di giusta mano
drizza l’arme talor contra i nocenti;
ma s’alcun fia ch’al barbaro inumano
tronchi il capo odioso e me ’l presenti,
a grado avrò questa vendetta ancora,
benché fatta da me piú nobil fòra,
a grado sí che gli sarà concessa
quella ch’io posso dar maggior mercede:
me d’un tesor dotata e di me stessa
in moglie avrà, s’in guiderdon mi chiede.
Cosí ne faccio qui stabil promessa,
cosí ne giuro inviolabil fede.
Or s’alcun è che stimi i premi nostri
degni del rischio, parli e si dimostri."
Mentre la donna in guisa tal favella,
Adrasto affigge in lei cupidi gli occhi:
"Tolga il Ciel" dice poi "che le quadrella
nel barbaro omicida unqua tu scocchi,
ché non è degno un cor villano, o bella
saettatrice, che tuo colpo il tocchi.
Atto de l’ira tua ministro sono,
ed io del capo suo ti farò dono.
Io sterparogli il core, io darò in pasto
le membra lacerate a gli avoltoi."
Cosí parlava l’indiano Adrasto,
né soffrí Tisaferno i vanti suoi:
"E chi sei," disse "tu, che sí gran fasto
mostri, presente il re, presenti noi?
Forse è qui tal ch’ogni tuo vanto audace
supererà co’ fatti, e pur si tace."
Rispose l’indo fero: "Io mi son uno
ch’appo l’opre il parlare ho scarso e scemo.
Ma s’altrove che qui cosí importuno
parlavi, tu parlavi il detto estremo."
Seguito avrian, ma raffrenò ciascuno
dimostrando la destra il re supremo.
Disse ad Armida poi: "Donna gentile,
ben hai tu cor magnanimo e virile;
e ben sei degna a cui suoi sdegni ed ire
l’uno e l’altro di lor conceda e done,
perché tu poscia a voglia tua le gire
contra quel forte predator fellone.
Là fian meglio impiegate, e ’l vostro ardire
là può chiaro mostrarsi in paragone."
Tacque, ciò detto; e quegli offerta nova
fecero a lei di vendicarla a prova.
Né quelli pur, ma qual piú in guerra è chiaro
la lingua al vanto ha baldanzosa e presta.
S’offerser tutti a lei, tutti giuraro
vendetta far su l’essecrabil testa,
tante contra il guerrier ch’ebbe sí caro
armi or costei commove e sdegni desta.
Ma esso, poi ch’abbandonò la riva,
felicemente al gran corso veniva.
Per le medesme vie ch’in prima corse,
la navicella indietro si raggira;
e l’aura, ch’a le vele il volo porse,
non men seconda al ritornar vi spira.
Il giovenetto or guarda il polo e l’Orse
ed or le stelle rilucenti mira,
via de l’opaca notte, or fiumi e monti
che sporgono su ’l mar l’alpestre fronti;
or lo stato del campo, or il costume
di varie genti investigando intende.
E tanto van per le salate spume,
che lor da l’orto il quarto sol risplende;
e quando omai n’è disparito il lume,
la nave terra finalmente prende.
Disse la donna allor. "Le palestine
piaggie son qui: qui del viaggio è il fine."
Quinci i tre cavalier su ’l lito spose,
e sparve in men che non si forma un detto.
Sorgea la notte intanto, e de le cose
confondea i vari aspetti un solo aspetto.
E in quelle solitudini arenose
essi veder non ponno o muro o tetto,
né d’uomo o di destriero appaion l’orme
o d’altro pur che del camin gli informe.
Poi che stati sospesi alquanto foro,
mossero i passi e dièr le spalle al mare.
Ed ecco di lontano a gli occhi loro
un non so che di luminoso appare,
che con raggi d’argento e lampi d’oro
la notte illustra e fa l’ombre piú rare.
Essi ne vanno allor contra la luce,
e già veggion che sia quel che sí luce.
Veggiono a un grosso tronco armi novelle
incontra i raggi de la luna appese,
e fiammeggiar, piú che nel ciel le stelle,
gemme ne l’elmo aurato e ne l’arnese;
e scoprono a quel lume imagin belle
nel grande scudo in lungo ordine stese.
Presso, quasi custode, un vecchio siede
che contra lor se ’n va, come li vede.
Ben è da’ due guerrier riconosciuto
di saggio amico il venerabil volto.
Ma, poi che ricevé lieto saluto
e ch’ebbe lor cortesemente accolto,
al giovenetto, il qual tacito e muto
il riguardava, il ragionar rivolto:
"Signor, te sol" gli disse "io qui soletto
in cotal ora desiando aspetto,
ché, se no ’l sai, ti sono amico; e quanto
curi le cose tue chiedilo a questi,
ch’essi, scòrti da me, vinser l’incanto
ove tua vita misera traesti.
Or odi i detti miei, contrari al canto
de le sirene, e non ti sian molesti,
ma gli serba nel cor fin che distingua
meglio a te il ver piú saggia e santa lingua.
Signor, non sotto l’ombra in piaggia molle
tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
ma in cima a l’erto e faticoso colle
de la virtú riposto è il nostro bene.
Chi non gela e non suda e non s’estolle
da le vie del piacer, là non perviene.
Or vorrai tu lungi da l’alte cime
giacer, quasi tra valli augel sublime?
T’alzò natura inverso il ciel la fronte,
e ti diè spirti generosi ed alti,
perché in su miri e con illustri e conte
opre te stesso al sommo pregio essalti;
e ti diè l’ire ancor veloci e pronte,
non perché l’usi ne’ civili assalti
né perché sian di desideri ingordi
elle ministre, ed a ragion discordi,
ma perché il tuo valore, armato d’esse,
piú fero assalga gli aversari esterni,
e sian con maggior forza indi ripresse
le cupidigie, empi nemici interni.
Dunque ne l’uso per cui fur concesse
l’impieghi il saggio duce e le governi,
ed a suo senno or tepide or ardenti
le faccia, ed or le affretti ed or le allenti."
Cosí parlava; e l’altro, attento e cheto
a le parole sue d’alto consiglio,
fea de’ detti conserva, e mansueto
volgeva a terra e vergognoso il ciglio.
Ben vide il mago veglio il suo secreto,
e gli soggiunse: "Alza la fronte, o figlio,
e in questo scudo affissa gli occhi omai,
ch’ivi de’ tuoi maggior l’opre vedrai.
Vedrai de gli avi il divulgato onore,
lunge precorso in loco erto e solingo;
tu dietro anco riman’, lento cursore,
per questo de la gloria illustre arringo.
Su su, te stesso incita: al tuo valore
sia sferza e spron quel ch’io colà dipingo."
Cosí diceva; e ’l cavalier affisse
lo sguardo là, mentre colui sí disse.
Con sottil magistero in campo angusto
forme infinite espresse il fabro dotto,
del sangue d’Azio, glorioso, augusto
l’ordin vi si vedea, nulla interrotto:
vedeasi dal roman fonte vetusto
i suoi rivi dedur puro e incorrotto.
Stan coronati i principi d’alloro,
mostra il vecchio le guerre e i pregi loro.
Mostragli Caio, allor ch’a strane genti
va prima in preda il già inclinato impero,
prendere il fren de’ popoli volenti
e farsi d’Esti il principe primiero,
ed a lui ricovrarsi i men potenti
vicini a cui rettor facea mestiero.
Poscia, quando ripassa il varco noto,
a gli inviti d’Onorio, il fero goto,
e quando sembra che piú avampi e ferva
di barbarico incendio Italia tutta,
e quando Roma, prigioniera e serva,
sin dal profondo teme esser destrutta,
mostra ch’Aurelio in libertà conserva
la gente sotto al suo scettro ridutta.
Mostragli poi Foresto che s’oppone
a l’unno regnator de l’Aquilone.
Ben si conosce al volto Attila il fello,
ché con occhi di drago ei par che guati,
ed ha faccia di cane, ed a vedello
dirai che ringhi e udir credi i latrati;
poi vinto il fero in singolar duello
mirasi rifuggir fra gli altri armati,
e la difesa d’Aquilea poi tòrre
il buon Foresto, de l’Italia Ettorre.
Altrove è la sua morte, e ’l suo destino
è destin de la patria. Ecco l’erede
del padre grande il gran figlio Acarino,
ch’a l’italico onor campion succede.
Cedeva a i fati, e non a gli Unni, Altino,
poi riparava in piú secura sede;
poi raccoglieva una città di mille
in val di Po case disperse in ville.
Contra il gran fiume ch’in diluvio ondeggia
muniasi, e quindi la città sorgea
che ne’ futuri secoli la reggia
de’ magnanimi Estensi esser dovea.
Par che rompa gli Alani e che si veggia
contra Odoacro aver fortuna rea,
e morir per l’Italia: oh nobil morte,
che de l’onor paterno il fa consorte!
Cader seco Alforisio, ire in essiglio
Azzo si vede e ’l suo fratel con esso,
e ritornar con l’arme e co ’l consiglio,
dapoi che fu il tiranno erulo oppresso.
Trafitto di saetta il destro ciglio,
segue l’estense Epaminonda oppresso;
e par lieto morir, poscia che ’l crudo
Totila è vinto e salvo il caro scudo.
Di Bonifacio parlo; e fanciulletto
premea Valerian l’orme del padre:
già di destra viril, viril di petto,
cento no ’l sostenean gotiche squadre.
Non lunge, ferocissimo in aspetto,
fea contra Schiavi Ernesto opre leggiadre;
ma inanzi a lui l’intrepido Aldoardo
da Monscelce escludeva il re lombardo.
Enrico v’era e Berengario; e dove
spiega il gran Carlo la sua augusta insegna
par ch’egli il primo feritor si trove,
ministro o capitan d’impresa degna.
Poi segue Lodovico, e quegli il move
contra il nipote ch’in Italia regna:
ecco in battaglia il vince e ’l fa prigione;
eravi poi co’ cinque figli Ottone.
V’era Almerico; e si vedea già fatto
de la città, donna del Po, marchese.
Devotamente il ciel riguarda, in atto
di contemplante, il fondator di chiese.
D’incontra Azzo secondo avean ritratto
far contra Berengario aspre contese;
e dopo un corso di fortuna alterno
vinceva, e de l’Italia avea il governo.
Vedi Alberto il figliuolo ir fra’ Germani
e colà far le sue virtú sí note,
che, vinti in giostra e vinti in guerra i Dani,
genero il compra Otton con larga dote.
Vedigli a tergo Ugon, quel ch’a’ Romani
fiaccar le corna impetuoso pote,
e che marchese de l’Italia fia
detto e Toscana tutta avrà in balia.
Poscia Tedaldo, e Bonifacio a canto
di Beatrice sua poi v’era espresso.
Non si vedea virile erede a tanto
retaggio a sí gran padre esser successo.
Seguia Matelda, ed adempia ben quanto
difetto par nel numero e nel sesso,
che può la saggia e valorosa donna
sovra corone e scettri alzar la gonna.
Spira spiriti maschi in nobil volto,
mostra vigor piú che viril lo sguardo:
là configea i Normanni, e ’n fuga vòlto
si dileguava il già invitto Guiscardo;
qui rompea Enrico il quarto, ed a lui tolto
offriva al tempio imperial stendardo;
qui riponea il pontefice soprano
nel gran soglio di Pietro in Vaticano.
Poi vedi, in guisa d’uom ch’onori ed ami,
ch’or l’è al fianco Azzo il quinto, or la seconda.
Ma d’Azzo il quarto in piú felici rami
germogliava la prole alma e feconda.
Va dove par che la Germania il chiami
Guelfo il figliuol, figliuol di Cunigonda;
e ’l buon germe roman con destro fato
è ne’ campi bavarici traslato.
Là d’un gran ramo estense ei par ch’inesti
l’arbore di Guelfon, ch’è per sé vieto;
quel ne’ suoi Guelfi rinovar vedresti
scettri e corone d’or, piú che mai lieto,
e co ’l favor de’ bei lumi celesti
andar poggiando, e non aver divieto:
già confina co ’l ciel, già mezza ingombra
la gran Germania, e tutta anco l’adombra.
Ma ne’ suoi rami italici fioriva
bella non men la regal pianta a prova.
Bertoldo qui d’incontra a Guelfo usciva,
qui Azzo il sesto i suoi prischi rinova.
Questa è la serie de gli eroi che viva
nel metallo spirante par si mova.
Rinaldo sveglia, in rimirando, mille
spirti d’onor da le natie faville,
e d’emula virtú l’animo altero
commosso avampa, ed è rapito in guisa
che ciò che imaginando ha nel pensiero,
città abbattuta e presa e gente uccisa,
pur, come sia presente e come vero,
dinanti agli occhi suoi vedere avisa;
e s’arma frettoloso, e con la spene
già la vittoria usurpa e la previene.
Ma Carlo, il quale a lui del regio erede
di Dania già narrata avea la morte,
la destinata spada allor gli diede:
"Prendila," disse "e sia con lieta sorte,
e solo in pro de la cristiana fede
l’adopra, giusto e pio non men che forte;
e fa del primo suo signor vendetta
che t’amò tanto, e ben a te s’aspetta."
Rispose egli al guerriero: "A i cieli piaccia
che la man che la spada ora riceve,
con lei del suo signor vendetta faccia:
paghi con lei ciò che per lei si deve."
Carlo, rivolto a lui con lieta faccia,
lunghe grazie ristrinse in sermon breve.
Ma lor s’offriva il mago, ed al viaggio
notturno l’affrettava il nobil saggio.
"Tempo è" dicea "di girne ove t’attende
Goffredo e ’l campo, e ben giungi opportuno.
Or n’andiam pur, ch’a le cristiane tende
scorger ben vi saprò per l’aer bruno."
Cosí dice egli, e poi su ’l carro ascende
e lor v’accoglie senza indugio alcuno;
e rallentando a’ suoi destrieri il morso
gli sferza, e drizza a l’oriente il corso.
Taciti se ne gian per l’aria nera,
quando al garzon si volge il veglio e dice:
"Veduto hai tu de la tua stirpe altera
i rami e la vetusta alta radice;
e se ben ella da l’età primiera
stata è fertil d’eroi madre e felice,
non è né fia di partorir mai stanca,
ché per vecchiezza in lei virtú non manca.
E come tratto ho fuor del fosco seno
de l’età prisca i primi padri ignoti,
cosí potessi ancor scoprire a pieno
ne’ secoli avenire i tuoi nepoti,
e pria ch’essi apran gli occhi al bel sereno
di questa luce, farli al mondo noti!
ché de’ futuri eroi già non vedresti
l’ordin men lungo, o pur men chiari i gesti.
Ma l’arte mia per sé dentro al futuro
non scorge il ver che troppo occulto giace,
se non caliginoso e dubbio e scuro,
quasi lunge, per nebbia, incerta face;
e se cosa qual certo io m’assecuro
affermarti, non sono in questo audace,
ch’io l’intesi da tal che senza velo
i secreti talor scopre del Cielo.
Quel ch’a lui rivelò luce divina
e ch’egli a me scoperse, io a te predico:
"Non fu mai greca o barbara o latina
progenie, in questo o nel buon tempo antico,
ricca di tanti eroi quanti destina
a te chiari nepoti il Cielo amico,
ch’agguaglieran qual piú chiaro si noma
di Sparta, di Cartagine e di Roma.
Ma fra gli altri" mi disse "Alfonso io sceglio
primo in virtú ma in titolo secondo
che nascer dée quando, corrotto e veglio,
povero fia d’uomini illustri il mondo;
questo fia tal che non sarà chi meglio
la spada usi o lo scettro, o meglio il pondo
o de l’arme sostegna o del diadema,
gloria del sangue tuo, gemma suprema.
Darà, fanciullo, in varie imagin fere
di guerra, i segni di valor sublime:
fia terror de le selve e de le fère,
e ne gli arringhi avrà le lodi prime;
poscia riporterà da pugne vere
palme vittoriose e spoglie opime,
e sovente averrà che ’l crin si cigna
or di lauro, or di quercia, or di gramigna.
De la matura età pregi men degni
non fiano stabilir pace e quiete,
mantener sue città fra l’arme e i regni
di possenti vicin tranquille e chete,
nutrire e fecondar l’arti e gl’ingegni,
celebrar giochi illustri e pompe liete,
librar con giusta lance e pene e premi,
mirar da lunge e preveder gli estremi.
Oh s’avenisse mai che contra gli empi
che tutte infesteran le terre e i mari,
e de la pace in quei miseri tempi
daran le leggi a i popoli piú chiari,
duce se ’n gisse a vendicare i tèmpi
da lor distrutti e i violati altari,
qual ei giusta faria grave vendetta
su ’l gran tiranno e su l’iniqua setta!
Indarno a lui con mille schiere armate
quinci il Turco opporriasi e quindi il Mauro,
ch’egli portar potrebbe oltre l’Eufrate,
ed oltre i gioghi del nevoso Tauro
ed oltre i regni ov’è perpetua state,
la Croce e ’l bianco augello e i gigli d’auro,
e per battesmo de le nere fronti
del gran Nilo scoprir le ignote fonti."
Cosí parlava il veglio, e le parole
lietamente accoglieva il giovenetto,
che del pensier de la futura prole
un tacito piacer sentia nel petto.
L’alba intanto sorgea nunzia del sole,
e ’l ciel cangiava in oriente aspetto,
e su le tende già potean vedere
da lunge il tremolar de le bandiere.
Ricominciò di novo allora il saggio:
"Vedete il sol che vi riluce in fronte,
e vi discopre con l’amico raggio
le tende e ’l piano e la cittade e ’l monte.
Securi d’ogni intoppo e d’ogni oltraggio
io scòrti v’ho fin qui per vie non conte;
potete senza guida ir per voi stessi
omai; né lece a me che piú m’appressi."
Cosí tolse congedo, e fe’ ritorno
lasciando i cavalier ivi pedoni;
ed essi pur contra il nascente giorno
seguír lor strada e gír a i padiglioni.
Portò la fama e divulgò d’intorno
l’aspettato venir dei tre baroni,
e inanzi ad essi al pio Goffredo corse
che per raccòrli dal suo seggio sorse.