Già cheti erano i tuoni e le tempeste
e cessato il soffiar d’Austro e di Coro,
e l’alba uscia de la magion celeste
con la fronte di rose e co’ piè d’oro.
Ma quei che le procelle avean già deste
non rimaneansi ancor da l’arti loro,
anzi l’un d’essi, ch’Astragorre è detto,
cosí parlava a la compagna Aletto:
"Mira, Aletto, venirne (ed impedito
esser non può da noi) quel cavaliero
che da le fere mani è vivo uscito
del sovran difensor del nostro impero.
Questi, narrando del suo duce ardito
e de’ compagni a i Franchi il caso fero,
paleserà gran cose; onde è periglio
che si richiami di Bertoldo il figlio.
Sai quanto ciò rilevi e se conviene
a i gran princípi oppor forza ed inganno.
Scendi tra i Franchi adunque, e ciò ch’a bene
colui dirà tutto rivolgi in danno:
spargi le fiamme e ’l tòsco entro le vene
del Latin, de l’Elvezio e del Britanno,
movi l’ire e i tumulti a fa’ tal opra
che tutto vada il campo al fin sossopra.
L’opra è degna di te, tu nobil vanto
te ’n désti già dinanzi al signor nostro."
Cosí le parla, e basta ben sol tanto
perché prenda l’impresa il fero mostro.
Giunto è su ’l vallo dei cristiani intanto
quel cavaliero il cui venir fu mostro,
e disse lor: "Deh, sia chi m’introduca
per mercede, o guerrieri, al sommo duca."
Molti scorta gli furo al capitano,
vaghi d’udir del peregrin novelle.
Egli inchinollo, e l’onorata mano
volea baciar che fa tremar Babelle;
"Signor," poi dice "che con l’oceano
termini la tua fama e con le stelle,
venirne a te vorrei piú lieto messo."
Qui sospirava, e soggiungeva appresso:
"Sveno, del re de’ Dani unico figlio,
gloria e sostegno a la cadente etade,
esser tra quei bramò che ’l tuo consiglio
seguendo han cinto per Giesú le spade;
né timor di fatica o di periglio,
né vaghezza del regno, né pietade
del vecchio genitor, sí degno affetto
intepidír nel generoso petto.
Lo spingeva un desio d’apprender l’arte
de la milizia faticosa e dura
da te, sí nobil mastro, e sentia in parte
sdegno e vergogna di sua fama oscura,
già di Rinaldo il nome in ogni parte
con gloria udendo in verdi anni matura;
ma piú ch’altra cagione, il mosse il zelo
non del terren ma de l’onor del Cielo.
Precipitò dunque gli indugi, e tolse
stuol di scelti compagni audace e fero,
e dritto invèr la Tracia il camin volse
a la città che sede è de l’impero.
Qui il greco Augusto in sua magion l’accolse,
qui poi giunse in tuo nome un messaggiero.
Questi a pien gli narrò come già presa
fosse Antiochia, e come poi difesa;
difesa incontra al Perso, il qual con tanti
uomini armati ad assediarvi mosse,
che sembrava che d’arme e d’abitanti
vòto il gran regno suo rimaso fosse.
Di te gli disse, e poi narrò d’alquanti
sin ch’a Rinaldo giunse, e qui fermosse;
contò l’ardita fuga, e ciò che poi
fatto di glorioso avea tra voi.
Soggiunse al fin come già il popol franco
veniva a dar l’assalto a queste porte;
e invitò lui ch’egli volesse almanco
de l’ultima vittoria esser consorte.
Questo parlare al giovenetto fianco
del fero Sveno è stimolo sí forte,
ch’ogn’ora un lustro pargli infra pagani
rotar il ferro e insanguinar le mani.
Par che la sua viltà rimproverarsi
senta ne l’altrui gloria, e se ne rode;
e ch’il consiglia e ch’il prega a fermarsi,
o che non l’essaudisce o che non l’ode.
Rischio non teme, fuor che ’l non trovarsi
de’ tuoi gran rischi a parte e di tua lode;
questo gli sembra sol periglio grave,
de gli altri o nulla intende o nulla pave.
Egli medesmo sua fortuna affretta,
fortuna che noi tragge e lui conduce,
però ch’a pena al suo partire aspetta
i primi rai de la novella luce.
È per miglior la via piú breve eletta;
tale ei la stima, ch’è signor e duce,
né i passi piú difficili o i paesi
schivar si cerca de’ nemici offesi.
Or difetto di cibo, or camin duro
trovammo, or violenza ed or aguati;
ma tutti fur vinti i disagi, e furo
or uccisi i nemici ed or fugati.
Fatto avean ne’ perigli ogn’uom securo
le vittorie e insolenti i fortunati,
quando un dí ci accampammo ove i confini
non lunge erano omai de’ Palestini.
Quivi da i precursori a noi vien detto
ch’alto strepito d’arme avean sentito,
e viste insegne e indizi onde han sospetto
che sia vicino essercito infinito.
Non pensier, non color, non cangia aspetto,
non muta voce il signor nostro ardito,
benché molti vi sian ch’al fero aviso
tingan di bianca pallidezza il viso.
Ma dice: `Oh quale omai vicina abbiamo
corona o di martirio o di vittoria!
L’una spero io ben piú, ma non men bramo
l’altra ove è maggior merto e pari gloria.
Questo campo, o fratelli, ove or noi siamo,
fia tempio sacro ad immortal memoria,
in cui l’età futura additi e mostri
le nostre sepolture e i trofei nostri.’
Cosí parla, e le guardie indi dispone
e gli uffici comparte e la fatica.
Vuol ch’armato ognun giaccia, e non depone
ei medesmo gli arnesi o la lorica.
Era la notte ancor ne la stagione
ch’è piú del sonno e del silenzio amica,
allor che d’urli barbareschi udissi
romor che giunse al cielo ed a gli abissi.
Si grida `A l’armi! a l’armi!’, e Sveno involto
ne l’armi inanzi a tutti oltre si spinge,
e magnanimamente i lumi e ’l volto
di color d’ardimento infiamma e tinge.
Ecco siamo assaliti, e un cerchio folto
da tutti i lati ne circonda e stringe,
e intorno un bosco abbiam d’aste e di spade
e sovra noi di strali un nembo cade.
Ne la pugna inegual (però che venti
gli assalitori sono incontra ad uno)
molti d’essi piagati e molti spenti
son da cieche ferite a l’aer bruno;
ma il numero de gli egri e de’ cadenti
fra l’ombre oscure non discerne alcuno:
copre la notte i nostri danni, e l’opre
de la nostra virtute insieme copre.
Pur sí fra gli altri Sveno alza la fronte
ch’agevol cosa è che veder si possa,
e nel buio le prove anco son conte
a chi vi mira, e l’incredibil possa.
Di sangue un rio, d’uomini uccisi un monte
d’ogni intorno gli fanno argine e fossa;
e dovunque ne va, sembra che porte
lo spavento ne gli occhi, e in man la morte.
Cosí pugnato fu sin che l’albore
rosseggiando nel ciel già n’apparia.
Ma poi che scosso fu il notturno orrore
che l’orror de le morti in sé copria,
la desiata luce a noi terrore
con vista accrebbe dolorosa e ria,
ché pien d’estinti il campo e quasi tutta
nostra gente vedemmo omai destrutta.
Duomila fummo, e non siam cento. Or quando
tanto sangue egli mira e tante morti,
non so se ’l cuor feroce al miserando
spettacolo si turbi e si sconforti;
ma già no ’l mostra, anzi la voce alzando:
`Seguiam’ ne grida `que’ compagni forti
ch’al Ciel lunge da i laghi averni e stigi
n’han segnati co ’l sangue alti vestigi.’
Disse, e lieto (credo io) de la vicina
morte cosí nel cor come al sembiante,
incontra alla barbarica ruina
portonne il petto intrepido e costante.
Tempra non sosterrebbe, ancor che fina
fosse e d’acciaio no, ma di diamante,
i feri colpi, onde egli il campo allaga,
e fatto è il corpo suo solo una piaga.
La vita no, ma la virtú sostenta
quel cadavero indomito e feroce.
Ripercote percosso e non s’allenta,
ma quanto offeso è piú tanto piú noce.
Quando ecco furiando a lui s’aventa
uom grande, c’ha sembiante e guardo atroce;
e dopo lunga ed ostinata guerra,
con l’aita di molti al fin l’atterra.
Cade il garzone invitto (ahi caso amaro!),
né v’è fra noi chi vendicare il possa.
Voi chiamo in testimonio, o del mio caro
signor sangue ben sparso e nobil ossa,
ch’allor non fui de la mia vita avaro,
né schivai ferro né schivai percossa;
e se piaciuto pur fosse là sopra
ch’io vi morissi, il meritai con l’opra.
Fra gli estinti compagni io sol cadei
vivo, né vivo forse è chi mi pensi;
né de’ nemici piú cosa saprei
ridir, sí tutti avea sopiti i sensi.
Ma poi che tornò il lume a gli occhi miei,
ch’eran d’atra caligine condensi,
notte mi parve, ed a lo sguardo fioco
s’offerse il vacillar d’un picciol foco.
Non rimaneva in me tanta virtude
ch’a discerner le cose io fossi presto,
ma vedea come quei ch’or apre or chiude
gli occhi, mezzo tra ’l sonno e l’esser desto;
e ’l duolo omai de le ferite crude
piú cominciava a farmisi molesto,
ché l’inaspria l’aura notturna e ’l gelo
in terra nuda e sotto aperto cielo.
Piú e piú ognor s’avicinava intanto
quel lume e insieme un tacito bisbiglio,
sí ch’a me giunse e mi si pose a canto.
Alzo allor, bench’a pena, il debil ciglio
e veggio due vestiti in lungo manto
tener due faci, e dirmi sento: `O figlio,
confida in quel Signor ch’a’ pii soviene,
e con la grazia i preghi altrui previene.’
In tal guisa parlommi: indi la mano
benedicendo sovra me distese;
e susurrò con suon devoto e piano
voci allor poco udite e meno intese.
`Sorgi’, poi disse; ed io leggiero e sano
sorgo, e non sento le nemiche offese
(oh miracol gentile!), anzi mi sembra
piene di vigor novo aver le membra.
Stupido lor riguardo, e non ben crede
l’anima sbigottita il certo e il vero;
onde l’un d’essi a me: `Di poca fede,
che dubbii? o che vaneggia il tuo pensiero?
Verace corpo è quel che ’n noi si vede:
servi siam di Giesú, che ’l lusinghiero
mondo e ’l suo falso dolce abbiam fuggito,
e qui viviamo in loco erto e romito.
Me per ministro a tua salute eletto
ha quel Signor che ’n ogni parte regna,
ché per ignobil mezzo oprar effetto
meraviglioso ed alto egli non sdegna,
né men vorrà che sí resti negletto
quel corpo in cui già visse alma sí degna,
lo qual con essa ancor, lucido e leve
e immortal fatto, riunir si deve.
Dico il corpo di Sveno a cui fia data
tomba, a tanto valor conveniente,
la qual a dito mostra ed onorata
ancor sarà da la futura gente.
Ma leva omai gli occhi a le stelle, e guata
là splender quella, come un sol lucente;
questa co’ vivi raggi or ti conduce
là dove è il corpo del tuo nobil duce.’
Allor vegg’io che da la bella face,
anzi dal sol notturno, un raggio scende
che dritto là dove il gran corpo giace,
quasi aureo tratto di pennel, si stende;
e sovra lui tal lume e tanto face
ch’ogni sua piaga ne sfavilla e splende,
e subito da me si raffigura
ne la sanguigna orribile mistura.
Giacea, prono non già, ma come vòlto
ebbe sempre a le stelle il suo desire,
dritto ei teneva inverso il cielo il volto
in guisa d’uom che pur là suso aspire.
Chiusa la destra e ’l pugno avea raccolto
e stretto il ferro, e in atto è di ferire;
l’altra su ’l petto in modo umile e pio
si posa, e par che perdon chieggia a Dio.
Mentre io le piaghe sue lavo co ’l pianto,
né però sfogo il duol che l’alma accora,
gli aprí la chiusa destra il vecchio santo,
e ’l ferro che stringea trattone fora:
`Questa’ a me disse `ch’oggi sparso ha tanto
sangue nemico, e n’è vermiglia ancora,
è come sai perfetta, e non è forse
altra spada che debba a lei preporse.
Onde piace là su che, s’or la parte
dal suo primo signor acerba morte,
oziosa non resti in questa parte,
ma di man passi in mano ardita e forte
che l’usi poi con egual forza ed arte,
ma piú lunga stagion con lieta sorte;
e con lei faccia, perché a lei s’aspetta,
di chi Sveno le uccise aspra vendetta.
Soliman Sveno uccise, e Solimano
dée per la spada sua restarne ucciso.
Prendila dunque, e vanne ov’il cristiano
campo fia intorno a l’alte mura assiso;
e non temer che nel paese estrano
ti sia il sentier di novo anco preciso,
ché t’agevolerà per l’aspra via
l’alta destra di Lui ch’or là t’invia.
Quivi Egli vuol che da cotesta voce,
che viva in te servò, si manifesti
la pietate, il valor, l’ardir feroce
che nel diletto tuo signor vedesti,
perché a segnar de la purpurea Croce
l’arme con tale essempio altri si desti,
ed ora e dopo un corso anco di lustri
infiammati ne sian gli animi illustri.
Resta che sappia tu chi sia colui
che deve de la spada esser erede.
Questi è Rinaldo, il giovenetto a cui
il pregio di fortezza ogn’altro cede.
A lui la porgi, e di’ che sol da lui
l’alta vedetta il Cielo e ’l mondo chiede.’
Or mentre io le sue voci intento ascolto,
fui da miracol novo a sé rivolto,
ché là dove il cadavero giacea
ebbi improviso un gran sepolcro scorto,
che sorgendo rinchiuso in sé l’avea,
come non so né con qual arte sorto;
e in brevi note altrui vi si sponea
il nome e la virtú del guerrier morto.
Io non sapea da tal vista levarmi,
mirando ora le lettre ed ora i marmi.
`Qui’ disse il vecchio `appresso a i fidi amici
giacerà del tuo duce il corpo ascoso,
mentre gli spirti amando in Ciel felici
godon perpetuo bene e glorioso.
Ma tu co ’l pianto omai gli estremi uffici
pagato hai loro, e tempo è di riposo.
Oste mio ne sarai sin ch’al viaggio
matutin ti risvegli il novo raggio.’
Tacque, e per lochi ora sublimi or cupi
mi scòrse onde a gran pena il fianco trassi,
sin ch’ove pende da selvaggie rupi
cava spelonca raccogliemmo i passi.
Questo è il suo albergo: ivi fra gli orsi e i lupi
co ’l discepolo suo securo stassi,
ché difesa miglior ch’usbergo e scudo
è la santa innocenza al petto ignudo.
Silvestre cibo e duro letto porse
quivi a le membra mie posa e ristoro.
Ma poi ch’accesi in oriente scorse
i raggi del mattin purpurei e d’oro,
vigilante ad orar subito sorse
l’uno e l’altro eremita, ed io con loro.
Dal santo vecchio poi congedo tolsi
e qui, dov’egli consigliò, mi volsi."
Qui si tacque il tedesco, e gli rispose
il pio Buglione: "O cavalier, tu porte
dure novelle al campo e dolorose
onde a ragion si turbi e si sconforte,
poi che genti sí amiche e valorose
breve ora ha tolte e poca terra absorte,
e in guisa d’un baleno il signor vostro
s’è in un sol punto dileguato e mostro.
Ma che? felice è cotal morte e scempio
via piú ch’acquisto di provincie e d’oro,
né dar l’antico Campidoglio essempio
d’alcun può mai sí glorioso alloro.
Essi del ciel nel luminoso tempio
han corona immortal del vincer loro:
ivi credo io che le sue belle piaghe
ciascun lieto dimostri e se n’appaghe.
Ma tu, che a le fatiche ed al periglio
ne la milizia ancor resti del mondo,
devi gioir de’ lor trionfi, e ’l ciglio
render quanto conviene omai giocondo;
e perché chiedi di Bertoldo il figlio,
sappi ch’ei fuor de l’oste è vagabondo,
né lodo io già che dubbia via tu prenda
pria che di lui certa novella intenda."
Questo lor ragionar ne l’altrui mente
di Rinaldo l’amor desta e rinova,
e v’è chi dice: "Ahi! fra pagana gente
il giovenetto errante or si ritrova."
E non v’è quasi alcun che non rammente,
narrando al dano, i suoi gran fatti a prova;
e de l’opere sue la lunga tela
con istupor gli si dispiega e svela.
Or quando del garzon la rimembranza
avea gli animi tutti inteneriti,
ecco molti tornar, che per usanza
eran d’intorno a depredare usciti.
Conducean questi seco in abbondanza
e mandre di lanuti e buoi rapiti
e biade ancor, benché non molte, e strame
che pasca de’ corsier l’avida fame.
E questi di sciagura aspra e noiosa
segno portàr che ’n apparenza è certo:
rotta del buon Rinaldo e sanguinosa
la sopravesta ed ogni arnese aperto.
Tosto si sparse (e chi potria tal cosa
tener celata?) un romor vario e incerto.
Corre il vulgo dolente a le novelle
del guerriero e de l’arme, e vuol vedelle.
Vede, e conosce ben l’immensa mole
del grand’usbergo e ’l folgorar del lume,
e l’arme tutte ove è l’augel ch’al sole
prova i suoi figli e mal crede a le piume;
ché di vederle già primiere o sole
ne le imprese piú grandi ebbe in costume,
ed or non senza alta pietate ed ira
rotte e sanguigne ivi giacer le mira.
Mentre bisbiglia il campo, e la cagione
de la morte di lui varia si crede,
a sé chiama Aliprando il pio Buglione,
duce di quei che ne portàr le prede,
uom di libera mente e di sermone
veracissimo e schietto, ed a lui chiede:
"Di’ come e donde tu rechi quest’arme,
e di buono o di reo nulla celarme."
Gli rispose colui: "Di qui lontano
quanto in duo giorni un messaggiero andria,
verso il confin di Gaza un picciol piano
chiuso tra colli alquanto è fuor di via;
e in lui d’alto deriva e lento e piano
tra pianta e pianta un fiumicel s’invia,
e d’arbori e di macchie ombroso e folto
opportuno a l’insidie il loco è molto.
Qui greggia alcuna cercavam che fosse
venuta a i paschi de l’erbose sponde,
e in su l’erbe miriam di sangue rosse
giacerne un guerrier morto in riva a l’onde.
A l’arme ed a l’insegne ogn’uom si mosse,
che furon conosciute ancor che immonde.
Io m’appressai per discoprirgli il viso,
ma trovai ch’era il capo indi reciso.
Mancava ancor la destra, e ’l busto grande
molte ferite avea dal tergo al petto;
e non lontan, con l’aquila che spande
le candide ali, giacea il vòto elmetto.
Mentre cerco d’alcuno a cui dimande,
un villanel sopragiungea soletto
che ’ndietro il passo per fuggirne torse
subitamente che di noi s’accorse.
Ma seguitato e preso, a la richiesta
che noi gli facevamo, al fin rispose
che ’l giorno inanti uscir de la foresta
scorse molti guerrieri, onde ei s’ascose;
e ch’un d’essi tenea recisa testa
per le sue chiome bionde e sanguinose,
la qual gli parve, rimirando intento,
d’uom giovenetto e senza peli al mento;
e che ’l medesmo poco poi l’avolse
in un zendado da l’arcion pendente.
Soggiunse ancor ch’a l’abito raccolse
ch’erano i cavalier di nostra gente.
Io spogliar feci il corpo, e sí me ’n dolse
che piansi nel sospetto amaramente,
e portai meco l’arme e lasciai cura
ch’avesse degno onor di sepoltura.
Ma se quel nobil tronco è quel ch’io credo,
altra tomba, altra pompa egli ben merta."
Cosí detto, Aliprando ebbe congedo,
però che cosa non avea piú certa.
Rimase grave e sospirò Goffredo;
pur nel tristo pensier non si raccerta,
e con piú chiari segni il monco busto
conoscer vuole e l’omicida ingiusto.
Sorgea la notte intanto, e sotto l’ali
ricopriva del cielo i campi immensi;
e ’l sonno, ozio de l’alme, oblio de’ mali,
lusingando sopia le cure e i sensi.
Tu sol punto, Argillan, d’acuti strali
d’aspro dolor, volgi gran cose e pensi,
né l’agitato sen né gli occhi ponno
la quiete raccòrre o ’l molle sonno.
Costui pronto di man, di lingua ardito,
impetuoso e fervido d’ingegno,
nacque in riva del Tronto e fu nutrito
ne le risse civil d’odio e di sdegno;
poscia in essiglio spinto, i colli e ’l lito
empié di sangue e depredò quel regno,
sin che ne l’Asia a guerreggiar se ’n venne
e per fama miglior chiaro divenne.
Al fin questi su l’alba i lumi chiuse;
né già fu sonno il suo queto e soave,
ma fu stupor ch’Aletto al cor gl’infuse,
non men che morte sia profondo e grave.
Sono le interne sue virtú deluse
e riposo dormendo anco non have,
ché la furia crudel gli s’appresenta
sotto orribili larve e lo sgomenta.
Gli figura un gran busto, ond’è diviso
il capo e de la destra il braccio è mozzo,
e sostien con la manca il teschio inciso,
di sangue e di pallor livido e sozzo.
Spira e parla spirando il morto viso,
e ’l parlar vien co ’l sangue e co ’l singhiozzo:
"Fuggi, Argillan; non vedi omai la luce?
Fuggi le tende infami e l’empio duce.
Chi dal fero Goffredo e da la frode
ch’uccise me, voi, cari amici, affida?
D’astio dentro il fellon tutto si rode,
e pensa sol come voi meco uccida.
Pur, se cotesta mano a nobil lode
aspira, e in sua virtú tanto si fida,
non fuggir, no; plachi il tiranno essangue
lo spirto mio co ’l suo maligno sangue.
Io sarò teco, ombra di ferro e d’ira
ministra, e t’armerò la destra e ’l seno."
Cosí gli parla, e nel parlar gli spira
spirito novo di furor ripieno.
Si rompe il sonno, e sbigottito ei gira
gli occhi gonfi di rabbia e di veneno;
ed armato ch’egli è, con importuna
fretta i guerrier d’Italia insieme aduna.
Gli aduna là dove sospese stanno
l’arme del buon Rinaldo, e con superba
voce il furore e ’l conceputo affanno
in tai detti divulga e disacerba:
"Dunque un popolo barbaro e tiranno,
che non prezza ragion, che fé non serba,
che non fu mai di sangue e d’or satollo,
ne terrà ’l freno in bocca e ’l giogo al collo?
Ciò che sofferto abbiam d’aspro e d’indegno
sette anni omai sotto sí iniqua soma,
è tal ch’arder di scorno, arder di sdegno
potrà da qui a mill’anni Italia e Roma.
Taccio che fu da l’arme e da l’ingegno
del buon Tancredi la Cilicia doma,
e ch’ora il Franco a tradigion la gode,
e i premi usurpa del valor la frode.
Taccio ch’ove il bisogno e ’l tempo chiede
pronta man, pensier fermo, animo audace,
alcuno ivi di noi primo si vede
portar fra mille morti o ferro o face;
quando le palme poi, quando le prede
si dispensan ne l’ozio e ne la pace,
nostri in parte non son, ma tutti loro
i trionfi, gli onor, le terre e l’oro.
Tempo forse già fu che gravi e strane
ne potevan parer sí fatte offese;
quasi lievi or le passo: orrenda, immane
ferità leggierissime l’ha rese.
Hanno ucciso Rinaldo, e con l’umane
l’alte leggi divine han vilipese.
E non fulmina il Cielo? e non l’inghiotte
la terra entro la sua perpetua notte?
Rinaldo han morto, il qual fu spada e scudo
di nostra fede; ed ancor giace inulto?
inulto giace e su ’l terreno ignudo
lacerato il lasciaro ed insepulto.
Ricercate saper chi fosse il crudo?
A chi pote, o compagni, esser occulto?
Deh! chi non sa quanto al valor latino
portin Goffredo invidia e Baldovino?
Ma che cerco argomenti? Il Cielo io giuro
(il Ciel che n’ode e ch’ingannar non lice),
ch’allor che si rischiara il mondo oscuro,
spirito errante il vidi ed infelice.
Che spettacolo, oimè, crudele e duro!
Quai frode di Goffredo a noi predice!
Io ’l vidi, e non fu sogno; e ovunque or miri,
par che dinanzi a gli occhi miei s’aggiri.
Or che faremo noi? dée quella mano,
che di morte sí ingiusta è ancora immonda,
reggerci sempre? o pur vorrem lontano
girne da lei, dove l’Eufrate inonda,
dove a popolo imbelle in fertil piano
tante ville e città nutre e feconda,
anzi a noi pur? Nostre saranno, io spero,
né co’ Franchi comune avrem l’impero.
Andianne, e resti invendicato il sangue
(se cosí parvi) illustre ed innocente,
benché, se la virtú che fredda langue
fosse ora in voi quanto dovrebbe ardente,
questo che divorò, pestifero angue,
il pregio e ’l fior de la latina gente,
daria con la sua morte e con lo scempio
a gli altri mostri memorando essempio.
Io, io vorrei, se ’l vostro alto valore,
quanto egli può, tanto voler osasse,
ch’oggi per questa man ne l’empio core,
nido di tradigion, la pena entrasse."
Cosí parla agitato, e nel furore
e ne l’impeto suo ciascuno ei trasse.
"Arme! arme!" freme il forsennato, e insieme
la gioventú superba "Arme! arme!" freme.
Rota Aletto fra lor la destra armata,
e co ’l foco il venen ne’ petti mesce.
Lo sdegno, la follia, la scelerata
sete del sangue ognor piú infuria e cresce;
e serpe quella peste e si dilata,
e de gli alberghi italici fuor n’esce,
e passa fra gli Elvezi, e vi s’apprende,
e di là poscia a gli Inghilesi tende.
Né sol l’estrane genti avien che mova
il duro caso e ’l gran publico danno,
ma l’antiche cagioni a l’ira nova
materia insieme e nutrimento danno.
Ogni sopito sdegno or si rinova:
chiamano il popol franco empio e tiranno,
e in superbe minaccie esce diffuso
l’odio che non può starne omai piú chiuso.
Cosí nel cavo rame umor che bolle
per troppo foco, entro gorgoglia e fuma;
né capendo in se stesso, al fin s’estolle
sovra gli orli del vaso, e inonda e spuma.
Non bastano a frenare il vulgo folle
que’ pochi a cui la mente il vero alluma;
e Tancredi e Camillo eran lontani,
Guglielmo e gli altri in podestà soprani.
Corrono già precipitosi a l’armi
confusamente i popoli feroci,
e già s’odon cantar bellici carmi
sediziose trombe in fere voci.
Gridano intanto al pio Buglion che s’armi
molti di qua di là nunzi veloci,
e Baldovin inanzi a tutti armato
gli s’appresenta e gli si pone a lato.
Egli, ch’ode l’accusa, i lumi al cielo
drizza e pur come suole a Dio ricorre:
"Signor, tu che sai ben con quanto zelo
la destra mia del civil sangue aborre,
tu squarcia a questi de la mente il velo,
e reprimi il furor che sí trascorre;
e l’innocenza mia, che costà sopra
è nota, al mondo cieco anco si scopra."
Tacque, e dal Cielo infuso ir fra le vene
sentissi un novo inusitato caldo.
Colmo d’alto vigor, d’ardita spene
che nel volto si sparge e ’l fa piú baldo,
e da’ suoi circondato, oltre se ’n viene
contra chi vendicar credea Rinaldo;
né, perché d’arme e di minaccie ei senta
fremito d’ogni intorno, il passo allenta.
Ha la corazza indosso, e nobil veste
riccamente l’adorna oltra ’l costume.
Nudo è le mani e ’l volto, e di celeste
maestà vi risplende un novo lume:
scote l’aurato scettro, e sol con queste
arme acquetar quegli impeti presume.
Tal si mostra a coloro e tal ragiona,
né come d’uom mortal la voce suona:
"Quali stolte minaccie e quale or odo
vano strepito d’arme? e chi il commove?
Cosí qui riverito e in questo modo
noto son io, dopo sí lunghe prove,
ch’ancor v’è chi sospetti e chi di frodo
Goffredo accusi? e chi l’accuse approve?
Forse aspettate ancor ch’a voi mi pieghi,
e ragioni v’adduca e porga preghi?
Ah non sia ver che tanta indignitate
la terra piena del mio nome intenda.
Me questo scettro, me de l’onorate
opre mie la memoria e ’l ver difenda;
e per or la giustizia a la pietate
ceda, né sovra i rei la pena scenda.
A gli altri merti or questo error perdono,
ed al vostro Rinaldo anco vi dono.
Co ’l sangue suo lavi il comun difetto
solo Argillan, di tante colpe autore,
che, mosso a leggierissimo sospetto,
sospinti gli altri ha nel medesmo errore."
Lampi e folgori ardean nel regio aspetto,
mentre ei parlò, di maestà, d’onore;
tal ch’Argillano attonito e conquiso
teme (chi ’l crederia?) l’ira d’un viso.
E ’l vulgo, ch’anzi irriverente, audace,
tutto fremer s’udia d’orgogli e d’onte,
e ch’ebbe al ferro, a l’aste ed a la face
che ’l furor ministrò, le man sí pronte,
non osa (e i detti alteri ascolta, e tace)
fra timor e vergogna alzar la fronte,
e sostien ch’Argillano, ancor che cinto
de l’arme lor, sia da’ ministri avinto.
Cosí leon, ch’anzi l’orribil coma
con muggito scotea superbo e fero,
se poi vede il maestro onde fu doma
la natia ferità del core altero,
può del giogo soffrir l’ignobil soma
e teme le minaccie e ’l duro impero,
né i gran velli, i gran denti e l’ugne c’hanno
tanta in sé forza, insuperbire il fanno.
È fama che fu visto in volto crudo
ed in atto feroce e minacciante
un alato guerrier tener lo scudo
de la difesa al pio Buglion davante,
e vibrar fulminando il ferro ignudo
che di sangue vedeasi ancor stillante:
sangue era forse di città, di regni,
che provocàr del Cielo i tardi sdegni.
Cosí, cheto il tumulto, ognun depone
l’arme, e molti con l’arme il mal talento;
e ritorna Goffredo al padiglione,
a varie cose, a nove imprese intento,
ch’assalir la cittate egli dispone
pria che ’l secondo o ’l terzo dí sia spento;
e rivedendo va l’incise travi,
già in machine conteste orrende e gravi.