Ma il gran mostro infernal, che vede queti
que’ già torbidi cori e l’ire spente,
e cozzar contra ’l fato e i gran decreti
svolger non può de l’immutabil Mente,
si parte, e dove passa i campi lieti
secca, e pallido il sol si fa repente;
e d’altre furie ancora e d’altri mali
ministra, a nova impresa affretta l’ali.
Ella, che dall’essercito cristiano
per industria sapea de’ suoi consorti
il figliuol di Bertoldo esser lontano,
Tancredi e gli altri piú temuti e forti,
disse: "Che piú s’aspetta? or Solimano
inaspettato venga e guerra porti.
Certo (o ch’io spero) alta vittoria avremo
di campo mal concorde e in parte scemo."
Ciò detto, vola ove fra squadre erranti,
fattosen duce, Soliman dimora,
quel Soliman di cui non fu tra quanti
ha Dio rubelli, uom piú feroce allora
né se per nova ingiuria i suoi giganti
rinovasse la terra, anco vi fòra.
Questi fu re de’ Turchi ed in Nicea
la sede de l’imperio aver solea,
e distendeva incontra a i greci lidi
dal Sangario al Meandro il suo confine,
ove albergàr già Misi e Frigi e Lidi,
e le genti di Ponto e le bitine;
ma poi che contra i Turchi e gli altri infidi
passàr ne l’Asia l’arme peregrine,
fur sue terre espugnate, ed ei sconfitto
ben fu due fiate in general conflitto.
Ma riprovata avendo in van la sorte
e spinto a forza dal natio paese,
ricoverò del re d’Egitto in corte,
ch’oste gli fu magnanimo e cortese;
ed ebbe a grado che guerrier sí forte
gli s’offrisse compagno a l’alte imprese,
proposto avendo già vietar l’acquisto
di Palestina a i cavalier di Cristo.
Ma prima ch’egli apertamente loro
la destinata guerra annunziasse,
volle che Solimano, a cui molto oro
diè per tal uso, gli Arabi assoldasse.
Or mentre ei d’Asia e dal paese moro
l’oste accogliea, Soliman venne e trasse
agevolmente a sé gli Arabi avari,
ladroni in ogni tempo o mercenari.
Cosí fatto lor duce, or d’ogni intorno
la Giudea scorre, e fa prede e rapine
sí che ’l venire è chiuso e ’l far ritorno
da l’essercito franco a le marine;
e rimembrando ognor l’antico scorno
e de l’imperio suo l’alte ruine,
cose maggior nel petto acceso volve,
ma non ben s’assecura o si risolve.
A costui viene Aletto, e da lei tolto
è ’l sembiante d’un uom d’antica etade:
vòta di sangue, empie di crespe il volto,
lascia barbuto il labro e ’l mento rade,
dimostra il capo in lunghe tele avolto,
la veste oltra ’l ginocchio al piè gli cade,
la scimitarra al fianco, e ’l tergo carco
de la faretra, e ne le mani ha l’arco.
"Noi" gli dice ella "or trascorriam le vòte
piaggie e l’arene sterili e deserte,
ove né far rapina omai si pote,
né vittoria acquistar che loda merte.
Goffredo intanto la città percote,
e già le mura ha con le torri aperte;
e già vedrem, s’ancor si tarda un poco,
insin di qua le sue ruine e ’l foco.
Dunque accesi tuguri e greggie e buoi
gli alti trofei di Soliman saranno?
Cosí racquisti il regno? e cosí i tuoi
oltraggi vendicar ti credi e ’l danno?
Ardisci, ardisci; entro a i ripari suoi
di notte opprimi il barbaro tiranno.
Credi al tuo vecchio Araspe, il cui consiglio
e nel regno provasti e ne l’essiglio.
Non ci aspetta egli e non ci teme, e sprezza
gli Arabi ignudi in vero e timorosi,
né creder mai potrà che gente avezza
a le prede, a le fughe, or cotanto osi;
ma feri li farà la tua fierezza
contra un campo che giaccia inerme e posi."
Cosí gli disse, e le sue furie ardenti
spirogli al seno, e si mischiò tra’ venti.
Grida il guerrier, levando al ciel la mano:
"O tu, che furor tanto al cor m’irriti
(ned uom sei già, se ben sembiante umano
mostrasti), ecco io ti seguo ove m’inviti.
Verrò, farò là monti ov’ora è piano,
monti d’uomini estinti e di feriti,
farò fiumi di sangue. Or tu sia meco,
e tratta l’armi mie per l’aer cieco."
Tace, e senza indugiar le turbe accoglie
e rincora parlando il vile e ’l lento,
e ne l’ardor de le sue stesse voglie
accende il campo a seguitarlo intento.
Dà il segno Aletto de la tromba, e scioglie
di sua man propria il gran vessillo al vento.
Marcia il campo veloce, anzi sí corre
che de la fama il volo anco precorre.
Va seco Aletto, e poscia il lascia e veste,
d’uom che rechi novelle, abito e viso;
e ne l’ora che par che il mondo reste
fra la notte e fra ’l dí dubbio e diviso,
entra in Gierusalemme, e tra le meste
turbe passando al re dà l’alto aviso
del gran campo che giunge e del disegno,
e del notturno assalto e l’ora e ’l segno.
Ma già distendon l’ombre orrido velo
che di rossi vapor si sparge e tigne;
la terra in vece del notturno gelo
bagnan rugiade tepide e sanguigne;
s’empie di mostri e di prodigi il cielo,
s’odon fremendo errar larve maligne:
votò Pluton gli abissi, e la sua notte
tutta versò da le tartaree grotte.
Per sí profondo orror verso le tende
de gli inimici il fer Soldan camina;
ma quando a mezzo dal suo corso ascende
la notte, onde poi rapida dechina,
a men d’un miglio, ove riposo prende
il securo Francese, ei s’avicina.
Qui fe’ cibar le genti, e poscia d’alto
parlando confortolle al crudo assalto:
"Vedete là di mille furti pieno
un campo piú famoso assai che forte,
che quasi un mar nel suo vorace seno
tutte de l’Asia ha le ricchezze absorte?
Questo ora a voi (né già potria con meno
vostro periglio) espon benigna sorte:
l’arme e i destrier d’ostro guerniti e d’oro
preda fian vostra, e non difesa loro.
Né questa è già quell’oste onde la persa
gente e la gente di Nicea fu vinta,
perché in guerra sí lunga e sí diversa
rimasa n’è la maggior parte estinta;
e s’anco integra fosse, or tutta immersa
in profonda quiete e d’arme è scinta.
Tosto s’opprime chi di sonno è carco,
ché dal sonno a la morte è un picciol varco.
Su, su, venite: io primo aprir la strada
vuo’ su i corpi languenti entro a i ripari;
ferir da questa mia ciascuna spada,
e l’arti usar di crudeltate impari.
Oggi fia che di Cristo il regno cada,
oggi libera l’Asia, oggi voi chiari."
Cosí gli infiamma a le vicine prove,
indi tacitamente oltre lor move.
Ecco tra via le sentinelle ei vede
per l’ombra mista d’una incerta luce,
né ritrovar, come secura fede
avea, pote improviso il saggio duce.
Volgon quelle gridando indietro il piede,
scorto che sí gran turba egli conduce,
sí che la prima guardia è da lor desta,
e com’ può meglio a guerreggiar s’appresta.
Dan fiato allora a i barbari metalli
gli Arabi, certi omai d’essere sentiti.
Van gridi orrendi al cielo, e de’ cavalli
co ’l suon del calpestio misti i nitriti.
Gli alti monti muggír, muggír le valli,
e risposer gli abissi a i lor muggiti,
e la face inalzò di Flegetonte
Aletto, e ’l segno diede a quei del monte.
Corre inanzi il Soldano, e giunge a quella
confusa ancora e inordinata guarda
rapido sí che torbida procella
da’ cavernosi monti esce piú tarda.
Fiume ch’arbori insieme e case svella,
folgore che le torri abbatta ed arda,
terremoto che ’l mondo empia d’orrore,
son picciole sembianze al suo furore.
Non cala il ferro mai ch’a pien non colga,
né coglie a pien che piaga anco non faccia,
né piaga fa che l’alma altrui non tolga;
e piú direi, ma il ver di falso ha faccia.
E par ch’egli o s’infinga o non se ’n dolga
o non senta il ferir de l’altrui braccia,
se ben l’elmo percosso in suon di squilla
rimbomba e orribilmente arde e sfavilla.
Or quando ei solo ha quasi in fuga vòlto
quel primo stuol de le francesche genti,
giungono in guisa d’un diluvio accolto
di mille rivi gli Arabi correnti.
Fuggono i Franchi allora a freno sciolto,
e misto il vincitor va tra’ fuggenti,
e con lor entra ne’ ripari, e ’l tutto
di ruine e d’orror s’empie e di lutto.
Porta il Soldan su l’elmo orrido e grande
serpe che si dilunga e il collo snoda,
su le zampe s’inalza e l’ali spande
e piega in arco la forcuta coda.
Par che tre lingue vibri e che fuor mande
livida spuma, e che ’l suo fischio s’oda.
Ed or ch’arde la pugna, anch’ei s’infiamma
nel moto, e fumo versa insieme e fiamma.
E si mostra in quel lume a i riguardanti
formidabil cosí l’empio Soldano,
come veggion ne l’ombra i naviganti
fra mille lampi il torbido oceano.
Altri danno a la fuga i piè tremanti,
danno altri al ferro intrepida la mano;
e la notte i tumulti ognor piú mesce,
ed occultando i rischi, i rischi accresce.
Fra color che mostraro il cor piú franco,
Latin, su ’l Tebro nato, allor si mosse,
a cui né le fatiche il corpo stanco,
né gli anni dome aveano ancor le posse.
Cinque suoi figli quasi eguali al fianco
gli erano sempre, ovunque in guerra ei fosse,
d’arme gravando, anzi il lor tempo molto,
le membra ancor crescenti e ’l molle volto.
Ed eccitati dal paterno essempio
aguzzavano al sangue il ferro e l’ire.
Dice egli loro: "Andianne ove quell’empio
veggiam ne’ fuggitivi insuperbire,
né già ritardi il sanguinoso scempio,
ch’ei fa de gli altri, in voi l’usato ardire,
però che quello, o figli, è vile onore
cui non adorni alcun passato orrore."
Cosí feroce leonessa i figli,
cui dal collo la coma anco non pende
né con gli anni lor sono i feri artigli
cresciuti e l’arme de la bocca orrende,
mena seco a la preda ed a i perigli,
e con l’essempio a incrudelir gli accende
nel cacciator che le natie lor selve
turba e fuggir fa le men forti belve.
Segue il buon genitor l’incauto stuolo
de’ cinque, e Solimano assale e cinge;
e in un sol punto un sol consiglio, e un solo
spirito quasi, sei lunghe aste spinge.
Ma troppo audace il suo maggior figliuolo
l’asta abbandona e con quel fer si stringe,
e tenta in van con la pungente spada
che sotto il corridor morto gli cada.
Ma come a le procelle esposto monte,
che percosso da i flutti al mar sovraste,
sostien fermo in se stesso i tuoni e l’onte
del ciel irato e i venti e l’onde vaste,
cosí il fero Soldan l’audace fronte
tien salda incontra a i ferri e incontra a l’aste,
ed a colui che il suo destrier percote
tra i cigli parte il capo e tra le gote.
Aramante al fratel che giú ruina
porge pietoso il braccio, e lo sostiene.
Vana e folle pietà! ch’a la ruina
altrui la sua medesma a giunger viene,
ché ’l pagan su quel braccio il ferro inchina
ed atterra con lui chi lui s’attiene.
Caggiono entrambi, e l’un su l’altro langue
mescolando i sospiri ultimi e ’l sangue.
Quinci egli di Sabin l’asta recisa,
onde il fanciullo di lontan l’infesta,
gli urta il cavallo addosso e ’l coglie in guisa
che giú tremante il batte, indi il calpesta.
Dal giovenetto corpo uscí divisa
con gran contrasto l’alma, e lasciò mesta
l’aure soavi de la vita e i giorni
de la tenera età lieti ed adorni.
Rimanean vivi ancor Pico e Laurente,
onde arricchí un sol parto il genitore:
similissima coppia e che sovente
esser solea cagion di dolce errore.
Ma se lei fe’ natura indifferente,
differente or la fa l’ostil furore:
dura distinzion ch’a l’un divide
dal busto il collo, a l’altro il petto incide.
Il padre, ah non piú padre! (ahi fera sorte,
ch’orbo di tanti figli a un punto il face!),
rimira in cinque morti or la sua morte
e de la stirpe sua che tutta giace.
Né so come vecchiezza abbia sí forte
ne l’atroci miserie e sí vivace
che spiri e pugni ancor; ma gli atti e i visi
non mirò forse de’ figliuoli uccisi,
e di sí acerbo lutto a gli occhi sui
parte l’amiche tenebre celaro.
Con tutto ciò nulla sarebbe a lui,
senza perder se stesso, il vincer caro.
Prodigo del suo sangue, e de l’altrui
avidissimamente è fatto avaro;
né si conosce ben qual suo desire
paia maggior, l’uccidere o ’l morire.
Ma grida al suo nemico: "È dunque frale
sí questa mano, e in guisa ella si sprezza,
che con ogni suo sforzo ancor non vale
a provocar in me la tua fierezza?"
Tace, e percossa tira aspra e mortale
che le piastre e le maglie insieme spezza,
e su ’l fianco gli cala e vi fa grande
piaga onde il sangue tepido si spande.
A quel grido, a quel colpo, in lui converse
il barbaro crudel la spada e l’ira.
Gli aprí l’usbergo, e pria lo scudo aperse
cui sette volte un duro cuoio aggira,
e ’l ferro ne le viscere gli immerse.
Il misero Latin singhiozza e spira,
e con vomito alterno or gli trabocca
il sangue per la piaga, or per la bocca.
Come ne l’Appennin robusta pianta
che sprezzò d’Euro e d’Aquilon la guerra,
se turbo inusitato al fin la schianta,
gli alberi intorno ruinando atterra,
cosí cade egli, e la sua furia è tanta
che piú d’un seco tragge a cui s’afferra;
e ben d’uom sí feroce è degno fine
che faccia ancor morendo alte ruine.
Mentre il Soldan sfogando l’odio interno
pasce un lungo digiun ne’ corpi umani,
gli Arabi inanimiti aspro governo
anch’essi fanno de’ guerrier cristiani:
l’inglese Enrico e ’l bavaro Oliferno
moiono, o fer Dragutte, a le tue mani;
a Gilberto, a Filippo, Ariadeno
toglie la vita, i quai nacquer su ’l Reno;
Albazàr con la mazza abbatte Ernesto,
cade sotto Algazelle Otton di spada.
Ma chi narrar potria quel modo o questo
di morte, e quanta plebe ignobil cada?
Sin da quei primi gridi erasi desto
Goffredo, e non istava intanto a bada;
già tutto è armato, e già raccolto un grosso
drapello ha seco, e già con lor s’è mosso.
Egli, che dopo il grido udí il tumulto
che par che sempre piú terribil suoni,
avisò ben che repentino insulto
esser dovea de gli Arabi ladroni;
ché già non era al capitano occulto
ch’essi intorno scorrean le regioni,
benché non istimò che sí fugace
vulgo mai fosse d’assalirlo audace.
Or mentre egli ne viene, ode repente
"Arme! arme!" replicar da l’altro lato,
ed in un tempo il cielo orribilmente
intonar di barbarico ululato.
Questa è Clorinda che del re la gente
guida l’assalto, ed have Argante a lato.
Al nobil Guelfo, che sostien sua vice,
allor si volge il capitano e dice:
"Odi qual novo strepito di Marte
di verso il colle e la città ne viene;
d’uopo là fia che ’l tuo valore e l’arte
i primi assalti de’ nemici affrene.
Vanne tu dunque e là provedi, e parte
vuo’ che di questi miei teco ne mene;
con gli altri io me n’andrò da l’altro canto
a sostener l’impeto ostile intanto."
Cosí fra lor concluso, ambo gli move
per diverso sentiero egual fortuna.
Al colle Guelfo, e ’l capitan va dove
gli Arabi omai non han contesa alcuna.
Ma questi andando acquista forza, e nove
genti di passo in passo ognor raguna,
tal che già fatto poderoso e grande
giunge ove il fero turco il sangue spande.
Cosí scendendo dal natio suo monte
non empie umile il Po l’angusta sponda,
ma sempre piú, quanto è piú lunge al fonte,
di nove forze insuperbito abonda;
sovra i rotti confini alza la fronte
di tauro, e vincitor d’intorno inonda,
e con piú corna Adria respinge e pare
che guerra porti e non tributo al mare.
Goffredo, ove fuggir l’impaurite
sue genti vede, accorre e le minaccia:
"Qual timor" grida "è questo? ove fuggite?
Guardate almen chi sia quel che vi caccia.
Vi caccia un vile stuol, che le ferite
né ricever né dar sa ne la faccia;
e se ’l vedranno incontra sé rivolto,
temeran l’arme lor del vostro volto."
Punge il destrier, ciò detto, e là si volve
ove di Soliman gli incendi ha scorti.
Va per mezzo del sangue e de la polve
e de’ ferri e de’ rischi e de le morti;
con la spada e con gli urti apre e dissolve
le vie piú chiuse e gli ordini piú forti,
e sossopra cader fa d’ambo i lati
cavalieri e cavalli, arme ed armati.
Sovra i confusi monti a salto a salto
de la profonda strage oltre camina.
L’intrepido Soldan che ’l fero assalto
sente venir, no ’l fugge e no ’l declina;
ma se gli spinge incontra, e ’l ferro in alto
levando per ferir gli s’avicina.
Oh quai duo cavalier or la fortuna
da gli estremi del mondo in prova aduna!
Furor contra virtute or qui combatte
d’Asia in un picciol cerchio il grande impero.
Chi può dir come gravi e come ratte
le spade son? quanto il duello è fero?
Passo qui cose orribili che fatte
furon, ma le coprí quell’aer nero,
d’un chiarissimo sol degne e che tutti
siano i mortali a riguardar ridutti.
Il popol di Giesú, dietro a tal guida
audace or divenuto, oltre si spinge,
e de’ suoi meglio armati a l’omicida
Soldano intorno un denso stuol si stringe.
Né la gente fedel piú che l’infida,
né piú questa che quella il campo tinge,
ma gli uni e gli altri, e vincitori e vinti,
egualmente dan morte e sono estinti.
Come pari d’ardir, con forza pare
quinci Austro in guerra vien, quindi Aquilone,
non ei fra lor, non cede il cielo o ’l mare,
ma nube a nube e flutto a flutto oppone;
cosí né ceder qua, né là piegare
si vede l’ostinata aspra tenzone:
s’affronta insieme orribilmente urtando
scudo a scudo, elmo a elmo e brando a brando.
Non meno intanto son feri i litigi
da l’altra parte, e i guerrier folti e densi.
Mille nuvole e piú d’angeli stigi
tutti han pieni de l’aria i campi immensi,
e dan forza a i pagani, onde i vestigi
non è chi indietro di rivolger pensi;
e la face d’inferno Argante infiamma,
acceso ancor de la sua propria fiamma.
Egli ancor dal suo lato in fuga mosse
le guardie, e ne’ ripari entrò d’un salto;
di lacerate membra empié le fosse,
appianò il calle, agevolò l’assalto,
sí che gli altri il seguiro e fèr poi rosse
le prime tende di sanguigno smalto.
E seco a par Clorinda o dietro poco
se ’n gio, sdegnosa del secondo loco.
E già fuggiano i Franchi allor che quivi
giunse Guelfo opportuno e ’l suo drapello,
e volger fe’ la fronte a i fuggitivi
e sostenne il furor del popol fello.
Cosí si combatteva, e ’l sangue in rivi
correa egualmente in questo lato e in quello.
Gli occhi fra tanto a la battaglia rea
dal suo gran seggio il Re del Ciel volgea.
Sedea colà dond’Egli e buono e giusto
dà legge al tutto e ’l tutto orna e produce
sovra i bassi confin del mondo angusto,
ove senso o ragion non si conduce;
e de l’Eternità nel trono augusto
risplendea con tre lumi in una luce.
Ha sotto i piedi il Fato e la Natura,
ministri umili, e ’l Moto e Chi ’l misura,
e ’l Loco e Quella che, qual fumo o polve,
la gloria di qua giuso e l’oro e i regni,
come piace là su, disperde e volve,
né, diva, cura i nostri umani sdegni.
Quivi ei cosí nel suo splendor s’involve,
che v’abbaglian la vista anco i piú degni:
d’intorno ha innumerabili immortali,
disegualmente in lor letizia eguali.
Al gran concento de’ beati carmi
lieta risuona la celeste reggia.
Chiama Egli a sé Michele, il qual ne l’armi
di lucido adamante arde e lampeggia,
e dice lui: "Non vedi or come s’armi
contra la mia fedel diletta greggia
l’empia schiera d’Averno, e insin dal fondo
de le sue morti a turbar sorga il mondo?
Va’, dille tu che lasci omai le cure
de la guerra a i guerrier, cui ciò conviene,
né il regno de’ viventi, né le pure
piaggie del ciel conturbi ed avenene.
Torni a le notti d’Acheronte oscure,
suo degno albergo, a le sue giuste pene;
quivi se stessa e l’anime d’abisso
crucii. Cosí commando e cosí ho fisso."
Qui tacque, e ’l duce de’ guerrieri alati
s’inchinò riverente al divin piede;
indi spiega al gran volo i vanni aurati,
rapido sí ch’anco il pensiero eccede.
Passa il foco e la luce, ove i beati
hanno lor gloriosa immobil sede,
poscia il puro cristallo e ’l cerchio mira
che di stelle gemmato incontra gira;
quinci, d’opre diversi e di sembianti,
da sinistra rotar Saturno e Giove
e gli altri, i quali esser non ponno erranti
s’angelica virtú gli informa e move;
vien poi da’ campi lieti e fiammeggianti
d’eterno dí là donde tuona e piove,
ove se stesso il mondo strugge e pasce,
e ne le guerre sue more e rinasce.
Venia scotendo con l’eterne piume
la caligine densa e i cupi orrori;
s’indorava la notte al divin lume
che spargea scintillando il volto fuori.
Tale il sol ne le nubi ha per costume
spiegar dopo la pioggia i bei colori;
tal suol, fendendo il liquido sereno,
stella cader de la gran madre in seno.
Ma giunto ove la schiera empia infernale
il furor de’ pagani accende e sprona,
si ferma in aria in su ’l vigor de l’ale,
e vibra l’asta, e lor cosí ragiona:
"Pur voi dovreste omai saper con quale
folgore orrendo il Re del mondo tuona,
o nel disprezzo e ne’ tormenti acerbi
de l’estrema miseria anco superbi.
Fisso è nel Ciel ch’al venerabil segno
chini le mura, apra Sion le porte.
A che pugnar co ’l fato? a che lo sdegno
dunque irritar de la celeste corte?
Itene, maledetti, al vostro regno,
regno di pene e di perpetua morte;
e siano in quegli a voi dovuti chiostri
le vostre guerre ed i trionfi vostri.
Là incrudelite, là sovra i nocenti
tutte adoprate pur le vostre posse
fra i gridi eterni e lo stridor de’ denti,
e ’l suon del ferro e le catene scosse."
Disse, e quei ch’egli vide al partir lenti
con la lancia fatal pinse e percosse;
essi gemendo abbandonàr le belle
region de la luce e l’auree stelle,
e dispiegàr verso gli abissi il volo
ad inasprir ne’ rei l’usate doglie.
Non passa il mar d’augei sí grande stuolo
quando a i soli piú tepidi s’accoglie,
né tante vede mai l’autunno al suolo
cader co’ primi freddi aride foglie.
Liberato da lor, quella sí negra
faccia depone il mondo e si rallegra.
Ma non perciò nel disdegnoso petto
d’Argante vien l’ardire o ’l furor manco,
benché suo foco in lui non spiri Aletto,
né flagello infernal gli sferzi il fianco.
Rota il ferro crudel ove è piú stretto
e piú calcato insieme il popol franco;
miete i vili e i potenti, e i piú sublimi
e piú superbi capi adegua a gli imi.
Non lontana è Clorinda, e già non meno
par che di tronche membra il campo asperga.
Caccia la spada a Berlinghier nel seno
per mezzo il cor, dove la vita alberga,
e quel colpo a trovarlo andò sí pieno
che sanguinosa uscí fuor de le terga;
poi fère Albin là ’ve primier s’apprende
nostro alimento, e ’l viso a Gallo fende.
La destra di Gerniero, onde ferita
ella fu già, manda recisa al piano:
tratta anco il ferro, e con tremanti dita
semiviva nel suol guizza la mano.
Coda di serpe è tal, ch’indi partita
cerca d’unirsi al suo principio invano.
Cosí mal concio la guerriera il lassa,
poi si volge ad Achille e ’l ferro abbassa,
e tra ’l collo e la nuca il colpo assesta;
e tronchi i nervi e ’l gorgozzuol reciso,
gío rotando a cader prima la testa,
prima bruttò di polve immonda il viso,
che giú cadesse il tronco; il tronco resta
(miserabile mostro) in sella assiso,
ma libero del fren con mille rote
calcitrando il destrier da sé lo scote.
Mentre cosí l’indomita guerriera
le squadre d’Occidente apre e flagella,
non fa d’incontra a lei Gildippe altera
de’ saracini suoi strage men fella.
Era il sesso il medesmo, e simil era
l’ardimento e ’l valore in questa e in quella.
Ma far prova di lor non è lor dato,
ch’a nemico maggior le serba il fato.
Quinci una e quindi l’altra urta e sospinge,
né può la turba aprir calcata e spessa;
ma ’l generoso Guelfo allora stringe
contra Clorinda il ferro e le s’appressa,
e calando un fendente alquanto tinge
la fera spada nel bel fianco, ed essa
fa d’una punta a lui cruda risposta
ch’a ferirlo ne va tra costa e costa.
Doppia allor Guelfo il colpo e lei non coglie,
ch’a caso passa il palestino Osmida
e la piaga non sua sopra sé toglie,
la qual vien che la fronte a lui recida.
Ma intorno a Guelfo omai molta s’accoglie
di quella gente ch’ei conduce e guida;
e d’altra parte ancor la turba cresce,
sí che la pugna si confonde e mesce.
L’aurora intanto il bel purpureo volto
già dimostrava dal sovran balcone,
e in quei tumulti già s’era disciolto
il feroce Argillan di sua prigione;
e d’arme incerte il frettoloso avolto,
quali il caso gli offerse o triste o buone,
già se ’n venia per emendar gli errori
novi con novi merti e novi onori.
Come destrier che da le regie stalle,
ove a l’uso de l’arme si riserba,
fugge, e libero al fin per largo calle
va tra gli armenti o al fiume usato o a l’erba:
scherzan su ’l collo i crini, e su le spalle
si scote la cervice alta e superba,
suonano i pié nel corso e par ch’avampi,
di sonori nitriti empiendo i campi;
tal ne viene Argillano: arde il feroce
sguardo, ha la fronte intrepida e sublime;
leve è ne’ salti e sovra i pié veloce,
sí che d’orme la polve a pena imprime,
e giunto fra nemici alza la voce
pur com’uom che tutto osi e nulla stime:
"O vil feccia del mondo, Arabi inetti,
ond’è ch’or tanto ardire in voi s’alletti?
Non regger voi de gli elmi e de gli scudi
sète atti il peso, o ’l petto armarvi e il dorso,
ma commettete paventosi e nudi
i colpi al vento e la salute al corso.
L’opere vostre e i vostri egregi studi
notturni son; dà l’ombra a voi soccorso.
Or ch’ella fugge, chi fia vostro schermo?
D’arme è ben d’uopo e di valor piú fermo."
Cosí parlando ancor diè per la gola
ad Algazèl di sí crudel percossa
che gli secò le fauci, e la parola
troncò ch’a la risposta era già mossa.
A quel meschin súbito orror invola
il lume, e scorre un duro gel per l’ossa:
cade, e co’ denti l’odiosa terra
pieno di rabbia in su ’l morire afferra.
Quinci per vari casi e Saladino
ed Agricalte e Muleasse uccide,
e da l’un fianco a l’altro a lor vicino
con esso un colpo Aldiazíl divide;
trafitto a sommo il petto Ariadino
atterra, e con parole aspre il deride.
Ei, gli occhi gravi alzando a l’orgogliose
parole, in su ’l morir cosí rispose:
"Non tu, chiunque sia, di questa morte
vincitor lieto avrai gran tempo il vanto;
pari destin t’aspetta, e da piú forte
destra a giacer mi sarai steso a canto."
Rise egli amaramente e: "Di mia sorte
curi il Ciel," disse "or tu qui mori intanto
d’augei pasto e di cani"; indi lui preme
co ’l piede, e ne trae l’alma e ’l ferro insieme.
Un paggio del Soldan misto era in quella
turba di sagittari e lanciatori,
a cui non anco la stagion novella
il bel mento spargea de’ primi fiori.
Paion perle e rugiade in su la bella
guancia irrigando i tepidi sudori,
giunge grazia la polve al crine incolto
e sdegnoso rigor dolce è in quel volto.
Sotto ha un destrier che di candore agguaglia
pur or ne l’Apennin caduta neve;
turbo o fiamma non è che roti o saglia
rapido sí come è quel pronto e leve.
Vibra ei, presa nel mezzo, una zagaglia,
la spada al fianco tien ritorta e breve,
e con barbara pompa in un lavoro
di porpora risplende intesta e d’oro.
Mentre il fanciullo, a cui novel piacere
di gloria il petto giovenil lusinga,
di qua turba e di là tutte le schiere,
e lui non è chi tanto o quanto stringa,
cauto osserva Argillan tra le leggiere
sue rote il tempo in che l’asta sospinga;
e, colto il punto, il suo destrier di furto
gli uccide e sovra gli è, ch’a pena è surto,
ed al supplice volto, il qual in vano
con l’arme di pietà fea sue difese,
drizzò, crudel!, l’inessorabil mano,
e di natura il piú bel pregio offese.
Senso aver parve e fu de l’uom piú umano
il ferro, che si volse e piatto scese.
Ma che pro, se doppiando il colpo fero
di punta colse ove egli errò primiero?
Soliman, che di là non molto lunge
da Goffredo in battaglia è trattenuto,
lascia la zuffa, e ’l destrier volve e punge
tosto che ’l rischio ha del garzon veduto;
e i chiusi passi apre co ’l ferro, e giunge
a la vendetta sí, non a l’aiuto,
perché vede, ahi dolor!, giacerne ucciso
il suo Lesbin, quasi bel fior succiso.
E in atto sí gentil languir tremanti
gli occhi e cader su ’l tergo il collo mira;
cosí vago è il pallore, e da’ sembianti
di morte una pietà sí dolce spira,
ch’ammollí il cor che fu dur marmo inanti,
e il pianto scaturí di mezzo a l’ira.
Tu piangi, Soliman? tu, che destrutto
mirasti il regno tuo co ’l ciglio asciutto?
Ma come vede il ferro ostil che molle
fuma del sangue ancor del giovenetto,
la pietà cede, e l’ira avampa e bolle,
e le lagrime sue stagna nel petto.
Corre sovra Argillano e ’l ferro estolle,
parte lo scudo opposto, indi l’elmetto,
indi il capo e la gola; e de lo sdegno
di Soliman ben quel gran colpo è degno.
Né di ciò ben contento, al corpo morto
smontato del destriero anco fa guerra,
quasi mastin che ’l sasso, ond’a lui porto
fu duro colpo, infellonito afferra.
Oh d’immenso dolor vano conforto
incrudelir ne l’insensibil terra!
Ma fra tanto de’ Franchi il capitano
non spendea l’ire e le percosse invano.
Mille Turchi avea qui che di loriche
e d’elmetti e di scudi eran coperti,
indomiti di corpo a le fatiche,
di spirto audaci e in tutti i casi esperti;
e furon già de le milizie antiche
di Solimano, e seco ne’ deserti
seguír d’Arabia i suoi errori infelici,
ne le fortune averse ancora amici.
Questi ristretti insieme in ordin folto
poco cedeano o nulla al valor franco.
In questi urtò Goffredo, e ferí il volto
al fier Corcutte ed a Rosteno il fianco,
a Selin da le spalle il capo ha sciolto,
troncò a Rossano il destro braccio e ’l manco;
né già soli costor, ma in altre guise
molti piagò di loro e molti uccise.
Mentre ei cosí la gente saracina
percote, e lor percosse anco sostiene,
e in nulla parte al precipizio inchina
la fortuna de’ barbari e la spene,
nova nube di polve ecco vicina
che folgori di guerra in grembo tiene,
ecco d’arme improvise uscirne un lampo
che sbigottí de gli infedeli il campo.
Son cinquanta guerrier che ’n puro argento
spiegan la trionfal purpurea Croce.
Non io, se cento bocche e lingue cento
avessi, e ferrea lena e ferrea voce,
narrar potrei quel numero che spento
ne’ primi assalti ha quel drapel feroce.
Cade l’Arabo imbelle, e ’l Turco invitto
resistendo e pugnando anco è trafitto.
L’orror, la crudeltà, la tema, il lutto,
van d’intorno scorrendo, e in varia imago
vincitrice la Morte errar per tutto
vedresti ed ondeggiar di sangue un lago.
Già con parte de’ suoi s’era condutto
fuor d’una porta il re, quasi presago
di fortunoso evento; e quindi d’alto
mirava il pian soggetto e ’l dubbio assalto.
Ma come prima egli ha veduto in piega
l’essercito maggior, suona a raccolta,
e con messi iterati instando prega
ed Argante e Clorinda a dar di volta.
La fera coppia d’esseguir ciò nega,
ebra di sangue e cieca d’ira e stolta;
pur cede al fine, e unite almen raccòrre
tenta le turbe e freno a i passi imporre.
Ma chi dà legge al vulgo ed ammaestra
la viltade e ’l timor? La fuga è presa.
Altri gitta lo scudo, altri la destra
disarma; impaccio è il ferro, e non difesa.
Valle è tra il piano e la città, ch’alpestra
da l’occidente al mezzogiorno è stesa;
qui fuggon essi, e si rivolge oscura
caligine di polve invèr le mura.
Mentre ne van precipitosi al chino,
strage d’essi i cristiani orribil fanno;
ma poscia che salendo omai vicino
l’aiuto avean del barbaro tiranno,
non vuol Guelfo d’alpestro erto camino
con tanto suo svantaggio esporsi al danno.
Ferma le genti; e ’l re le sue riserra,
non poco avanzo d’infelice guerra.
Fatto intanto ha il Soldan ciò che è concesso
fare a terrena forza, or piú non pote;
tutto è sangue e sudore, e un grave e spesso
anelar gli ange il petto e i fianchi scote.
Langue sotto lo scudo il braccio oppresso,
gira la destra il ferro in pigre rote:
spezza, e non taglia; e divenendo ottuso
perduto il brando omai di brando ha l’uso.
Come sentissi tal, ristette in atto
d’uom che fra due sia dubbio, e in sé discorre
se morir debba, e di sí illustre fatto
con le sue mani altrui la gloria tòrre,
o pur, sopravanzando al suo disfatto
campo, la vita in securezza porre.
"Vinca" al fin disse "il fato, e questa mia
fuga il trofeo di sua vittoria sia.
Veggia il nemico le mie spalle, e scherna
di novo ancora il nostro essiglio indegno,
pur che di novo armato indi mi scerna
turbar sua pace e ’l non mai stabil regno.
Non cedo io, no; fia con memoria eterna
de le mie offese eterno anco il mio sdegno.
Risorgerò nemico ognor piú crudo,
cenere anco sepolto e spirto ignudo."