Intanto Erminia infra l’ombrose piante
d’antica selva dal cavallo è scòrta,
né piú governa il fren la man tremante,
e mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade si raggira e tante
il corridor ch’in sua balia la porta,
ch’al fin da gli occhi altrui pur si dilegua,
ed è soverchio omai ch’altri la segua.
Qual dopo lunga e faticosa caccia
tornansi mesti ed anelanti i cani
che la fèra perduta abbian di traccia,
nascosa in selva da gli aperti piani,
tal pieni d’ira e di vergogna in faccia
riedono stanchi i cavalier cristiani.
Ella pur fugge, e timida e smarrita
non si volge a mirar s’anco è seguita.
Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno
errò senza consiglio e senza guida,
non udendo o vedendo altro d’intorno,
che le lagrime sue, che le sue strida.
Ma ne l’ora che ’l sol dal carro adorno
scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida,
giunse del bel Giordano a le chiare acque
e scese in riva al fiume, e qui si giacque.
Cibo non prende già, ché de’ suoi mali
solo si pasce e sol di pianto ha sete;
ma ’l sonno, che de’ miseri mortali
è co ’l suo dolce oblio posa e quiete,
sopí co’ sensi i suoi dolori, e l’ali
dispiegò sovra lei placide e chete;
né però cessa Amor con varie forme
la sua pace turbar mentre ella dorme.
Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.
Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti
rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene,
che sembra ed è di pastorali accenti
misto e di boscareccie inculte avene.
Risorge, e là s’indrizza a passi lenti,
e vede un uom canuto a l’ombre amene
tesser fiscelle a la sua greggia a canto
ed ascoltar di tre fanciulli il canto.
Vedendo quivi comparir repente
l’insolite arme, sbigottír costoro;
ma li saluta Erminia e dolcemente
gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro:
"Seguite," dice "aventurosa gente
al Ciel diletta, il bel vostro lavoro,
ché non portano già guerra quest’armi
a l’opre vostre, a i vostri dolci carmi."
Soggiunse poscia: "O padre, or che d’intorno
d’alto incendio di guerra arde il paese,
come qui state in placido soggiorno
senza temer le militari offese?"
"Figlio," ei rispose "d’ogni oltraggio e scorno
la mia famiglia e la mia greggia illese
sempre qui fur, né strepito di Marte
ancor turbò questa remota parte.
O sia grazia del Ciel che l’umiltade
d’innocente pastor salvi e sublime,
o che, sí come il folgore non cade
in basso pian ma su l’eccelse cime,
cosí il furor di peregrine spade
sol de’ gran re l’altere teste opprime,
né gli avidi soldati a preda alletta
la nostra povertà vile e negletta.
Altrui vile e negletta, a me sí cara
che non bramo tesor né regal verga,
né cura o voglia ambiziosa o avara
mai nel tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia ne l’acqua chiara,
che non tem’io che di venen s’asperga,
e questa greggia e l’orticel dispensa
cibi non compri a la mia parca mensa.
Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro
bisogno onde la vita si conservi.
Son figli miei questi ch’addito e mostro,
custodi de la mandra, e non ho servi.
Cosí me ’n vivo in solitario chiostro,
saltar veggendo i capri snelli e i cervi,
ed i pesci guizzar di questo fiume
e spiegar gli augelletti al ciel le piume.
Tempo già fu, quando piú l’uom vaneggia
ne l’età prima, ch’ebbi altro desio
e disdegnai di pasturar la greggia;
e fuggii dal paese a me natio,
e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia
fra i ministri del re fui posto anch’io,
e benché fossi guardian de gli orti
vidi e conobbi pur l’inique corti.
Pur lusingato da speranza ardita
soffrii lunga stagion ciò che piú spiace;
ma poi ch’insieme con l’età fiorita
mancò la speme e la baldanza audace,
piansi i riposi di quest’umil vita
e sospirai la mia perduta pace,
e dissi; `O corte, a Dio.’ Cosí, a gli amici
boschi tornando, ho tratto i dí felici."
Mentre ei cosí ragiona, Erminia pende
da la soave bocca intenta e cheta;
e quel saggio parlar, ch’al cor le scende,
de’ sensi in parte le procelle acqueta.
Dopo molto pensar, consiglio prende
in quella solitudine secreta
insino a tanto almen farne soggiorno
ch’agevoli fortuna il suo ritorno.
Onde al buon vecchio dice: "O fortunato,
ch’un tempo conoscesti il male a prova,
se non t’invidii il Ciel sí dolce stato,
de le miserie mie pietà ti mova;
e me teco raccogli in cosí grato
albergo ch’abitar teco mi giova.
Forse fia che ’l mio core infra quest’ombre
del suo peso mortal parte disgombre.
Ché se di gemme e d’or, che ’l vulgo adora
sí come idoli suoi, tu fossi vago,
potresti ben, tante n’ho meco ancora,
renderne il tuo desio contento e pago."
Quinci, versando da’ begli occhi fora
umor di doglia cristallino e vago,
parte narrò di sue fortune, e intanto
il pietoso pastor pianse al suo pianto.
Poi dolce la consola e sí l’accoglie
come tutt’arda di paterno zelo,
e la conduce ov’è l’antica moglie
che di conforme cor gli ha data il Cielo.
La fanciulla regal di rozze spoglie
s’ammanta, e cinge al crin ruvido velo;
ma nel moto de gli occhi e de le membra
non già di boschi abitatrice sembra.
Non copre abito vil la nobil luce
e quanto è in lei d’altero e di gentile,
e fuor la maestà regia traluce
per gli atti ancor de l’essercizio umile.
Guida la greggia a i paschi e la riduce
con la povera verga al chiuso ovile,
e da l’irsute mamme il latte preme
e ’n giro accolto poi lo strige insieme.
Sovente, allor che su gli estivi ardori
giacean le pecorelle a l’ombra assise,
ne la scorza de’ faggi e de gli allori
segnò l’amato nome in mille guise,
e de’ suoi strani ed infelici amori
gli aspri successi in mille piante incise,
e in rileggendo poi le proprie note
rigò di belle lagrime le gote.
Indi dicea piangendo: "In voi serbate
questa dolente istoria, amiche piante;
perché se fia ch’a le vostr’ombre grate
giamai soggiorni alcun fedele amante,
senta svegliarsi al cor dolce pietate
de le sventure mie sí varie e tante,
e dica: `Ah troppo ingiusta empia mercede
diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!’
Forse averrà, se ’l Ciel benigno ascolta
affettuoso alcun prego mortale,
che venga in queste selve anco tal volta
quegli a cui di me forse or nulla cale;
e rivolgendo gli occhi ove sepolta
giacerà questa spoglia inferma e frale,
tardo premio conceda a i miei martíri
di poche lagrimette e di sospiri;
onde se in vita il cor misero fue,
sia lo spirito in morte almen felice,
e ’l cener freddo de le fiamme sue
goda quel ch’or godere a me non lice."
Cosí ragiona a i sordi tronchi, e due
fonti di pianto da’ begli occhi elice.
Tancredi intanto, ove fortuna il tira
lunge da lei, per lei seguir, s’aggira.
Egli, seguendo le vestigia impresse
rivolse il corso a la selva vicina;
ma quivi da le piante orride e spesse
nera e folta cosí l’ombra dechina
che piú non può raffigurar tra esse
l’orme novelle, e ’n dubbio oltre camina,
porgendo intorno pur l’orecchie intente
se calpestio, se romor d’armi sente.
E se pur la notturna aura percote
tenera fronde mai d’olmo o di faggio,
o se fèra od augello un ramo scote,
tosto a quel picciol suon drizza il viaggio.
Esce al fin de la selva, e per ignote
strade il conduce de la luna il raggio
verso un romor che di lontano udiva,
insin che giunse al loco ond’egli usciva.
Giunse dove sorgean da vivo sasso
in molta copia chiare e lucide onde,
e fattosene un rio volgeva a basso
lo strepitoso piè tra verdi sponde.
Quivi egli ferma addolorato il passo
e chiama, e sola a i gridi Ecco risponde;
e vede intanto con serene ciglia
sorger l’aurora candida e vermiglia.
Geme cruccioso, e ’ncontra il Ciel si sdegna
che sperata gli neghi alta ventura;
ma de la donna sua, quand’ella vegna
offesa pur, far la vendetta giura.
Di rivolgersi al campo al fin disegna,
benché la via trovar non s’assecura,
ché gli sovien che presso è il dí prescritto
che pugnar dée co ’l cavalier d’Egitto.
Partesi, e mentre va per dubbio calle
ode un corso appressar ch’ognor s’avanza,
ed al fine spuntar d’angusta valle
vede uom che di corriero avea sembianza.
Scotea mobile sferza, e da le spalle
pendea il corno su ’l fianco a nostra usanza.
Chiede Tancredi a lui per quale strada
al campo de’ cristiani indi si vada.
Quegli italico parla: "Or là m’invio
dove m’ha Boemondo in fretta spinto."
Segue Tancredi lui che del gran zio
messaggio stima, e crede al parlar finto.
Giungono al fin là dove un sozzo e rio
lago impaluda, ed un castel n’è cinto,
ne la stagion che ’l sol par che s’immerga
ne l’ampio nido ove la notte alberga.
Suona il corriero in arrivando il corno,
e tosto giú calar si vede un ponte:
"Quando latin sia tu, qui far soggiorno
potrai" gli dice "in fin che ’l sol rimonte,
ché questo loco, e non è il terzo giorno,
tolse a i pagani di Cosenza il conte."
Mira il loco il guerrier, che d’ogni parte
inespugnabil fanno il sito e l’arte.
Dubita alquanto poi ch’entro sí forte
magione alcuno inganno occulto giaccia;
ma come avezzo a i rischi de la morte,
motto non fanne, e no ’l dimostra in faccia,
ch’ovunque il guidi elezione o sorte,
vuol che securo la sua destra il faccia.
Pur l’obligo ch’egli ha d’altra battaglia
fa che di nova impresa or non gli caglia;
sí ch’incontra al castello, ove in un prato
il curvo ponte si distende e posa,
ritiene alquanto il passo, ed invitato
non segue la sua scorta insidiosa.
Su ’l ponte intanto un cavaliero armato
con sembianza apparia fera e sdegnosa,
ch’avendo ne la destra il ferro ignudo
in suon parlava minaccioso e crudo:
"O tu, che (siasi tua fortuna o voglia)
al paese fatal d’Armida arrive,
pensi indarno al fuggir; or l’arme spoglia,
e porgi a i lacci suoi le man cattive,
ed entra pur ne la guardata soglia
con queste leggi ch’ella altrui prescrive,
né piú sperar di riveder il cielo
per volger d’anni o per cangiar di pelo,
se non giuri d’andar con gli altri sui
contra ciascun che da Giesú s’appella."
S’affisa a quel parlar Tancredi in lui
e riconosce l’arme e la favella.
Rambaldo di Guascogna era costui
che partí con Armida, e sol per ella
pagan si fece e difensor divenne
di quell’usanza rea ch’ivi si tenne.
Di santo sdegno il pio guerrier si tinse
nel volto, e gli rispose: "Empio fellone,
quel Tancredi son io che ’l ferro cinse
per Cristo sempre, e fui di lui campione;
e in sua virtute i suoi rubelli vinse,
come vuo’ che tu vegga al paragone,
ché da l’ira del Ciel ministra eletta
è questa destra a far in te vendetta."
Turbossi udendo il glorioso nome
l’empio guerriero, e scolorissi in viso.
Pur celando il timor, gli disse: "Or come,
misero, vieni ove rimanga ucciso?
Qui saran le tue forze oppresse e dome,
e questo altero tuo capo reciso;
e manderollo a i duci franchi in dono,
s’altro da quel che soglio oggi non sono."
Cosí dicea il pagano; e perché il giorno
spento era omai sí che vedeasi a pena,
apparír tante lampade d’intorno
che ne fu l’aria lucida e serena.
Splende il castel come in teatro adorno
suol fra notturne pompe altera scena,
ed in eccelsa parte Armida siede,
onde senz’esser vista e ode e vede.
Il magnanimo eroe fra tanto appresta
a la fera tenzon l’arme e l’ardire,
né su ’l debil cavallo assiso resta
già veggendo il nemico a pié venire.
Vien chiuso ne lo scudo e l’elmo ha in testa,
la spada nuda, e in atto è di ferire.
Gli move incontra il principe feroce
con occhi torvi e con terribil voce.
Quegli con larghe rote aggira i passi
stretto ne l’arme, e colpi accenna e finge;
questi, se ben ha i membri infermi e lassi,
va risoluto e gli s’appressa e stringe,
e là donde Rambaldo a dietro fassi
velocissimamente egli si spinge,
e s’avanza e l’incalza, e fulminando
spesso a la vista gli dirizza il brando.
E piú ch’altrove impetuoso fère
ove piú di vital formò natura,
a le percosse le minaccie altere
accompagnando, e ’l danno a la paura.
Di qua di là si volge, e sue leggiere
membra il presto guascone a i colpi fura,
e cerca or con lo scudo or con la spada
che ’l nemico furore indarno cada;
ma veloce a lo schermo ei non è tanto
che piú l’altro non sia pronto a l’offese.
Già spezzato lo scudo e l’elmo infranto
e forato e sanguigno avea l’arnese,
e colpo alcun de’ suoi che tanto o quanto
impiagasse il nemico anco non scese;
e teme, e gli rimorde insieme il core
sdegno, vergogna, conscienza, amore.
Disponsi al fin con disperata guerra
far prova omai de l’ultima fortuna.
Gitta lo scudo, e a due mani afferra
la spada ch’è di sangue ancor digiuna;
e co ’l nemico suo si stringe e serra
e cala un colpo, e non v’è piastra alcuna
che gli resista sí che grave angoscia
non dia piagando a la sinistra coscia.
E poi su l’ampia fronte il ripercote
sí ch’il picchio rimbomba in suon di squilla;
l’elmo non fende già, ma lui ben scote,
tal ch’egli si rannicchia e ne vacilla.
Infiamma d’ira il principe le gote,
e ne gli occhi di foco arde e sfavilla;
e fuor de la visiera escono ardenti
gli sguardi, e insieme lo stridor de’ denti.
Il perfido pagan già non sostiene
la vista pur di sí feroce aspetto.
Sente fischiare il ferro, e tra le vene
già gli sembra d’averlo e in mezzo al petto.
Fugge dal colpo, e ’l colpo a cader viene
dove un pilastro è contra il ponte eretto;
ne van le scheggie e le scintille al cielo,
e passa al cor del traditor un gelo,
onde al ponte rifugge, e sol nel corso
de la salute sua pone ogni speme.
Ma ’l seguita Tancredi, e già su ’l dorso
la man gli stende e ’l piè co ’l piè gli preme,
quando ecco (al fuggitivo alto soccorso)
sparir le faci ed ogni stella insieme,
né rimaner a l’orba notte alcuna,
sotto povero ciel, luce di luna.
Fra l’ombre de la notte e de gli incanti
il vincitor no ’l segue piú né ’l vede,
né può cosa vedersi a lato o inanti,
e muove dubbio e mal securo il piede.
Su l’entrare d’un uscio i passi erranti
a caso mette, né d’entrar s’avede,
ma sente poi che suona a lui di dietro
la porta, e ’n loco il serra oscuro e tetro.
Come il pesce colà dove impaluda
ne i seni di Comacchio il nostro mare,
fugge da l’onda impetuosa e cruda
cercando in placide acque ove ripare,
e vien che da se stesso ei si rinchiuda
in palustre prigion né può tornare,
ché quel serraglio è con mirabil uso
sempre a l’entrare aperto, a l’uscir chiuso;
cosí Tancredi allor, qual che si fosse
de l’estrania prigion l’ordigno e l’arte,
entrò per se medesmo, e ritrovosse
poi là rinchiuso ov’uom per sé non parte.
Ben con robusta man la porta scosse,
ma fur le sue fatiche indarno sparte,
e voce intanto udí che: "Indarno" grida
"uscir procuri, o prigionier d’Armida.
Qui menerai (non temer già di morte)
nel sepolcro de’ vivi i giorni e gli anni."
Non risponde, ma preme il guerrier forte
nel cor profondo i gemiti e gli affanni,
e fra se stesso accusa Amor, la sorte,
la sua schiocchezza e gli altrui feri inganni;
e talor dice in tacite parole:
"Leve perdita fia perdere il sole,
ma di piú vago sol piú dolce vista,
misero! i’ perdo, e non so già se mai
in loco tornerò che l’alma trista
si rassereni a gli amorosi rai."
Poi gli sovien d’Argante, e piú s’attrista
e: "Troppo" dice "al mio dover mancai;
ed è ragion ch’ei mi disprezzi e scherna!
O mia gran colpa! o mia vergogna eterna!"
Cosí d’amor, d’onor cura mordace
quinci e quindi al guerrier l’animo rode.
Or mentre egli s’affligge, Argante audace
le molli piume di calcar non gode;
tanto è nel crudo petto odio di pace,
cupidigia di sangue, amor di lode,
che, de le piaghe sue non sano ancora,
brama che ’l sesto dí porti l’aurora.
La notte che precede, il pagan fero
a pena inchina, per dormir la fronte;
e sorge poi che ’l cielo anco è sí nero
che non dà luce in su la cima al monte.
"Recami" grida "l’arme" al suo scudiero,
ed esso aveale apparecchiate e pronte:
non le solite sue, ma dal re sono
dategli queste, e prezioso è il dono.
Senza molto mirarle egli le prende
né dal gran peso è la persona onusta,
e la solita spada al fianco appende,
ch’è di tempra finissima e vetusta.
Qual con le chiome sanguinose orrende
splender cometa suol per l’aria adusta,
che i regni muta e i feri morbi adduce,
a i purpurei tiranni infausta luce;
tal ne l’arme ei fiammeggia, e bieche e torte
volge le luci ebre di sangue e d’ira.
Spirano gli atti feri orror di morte,
e minaccie di morte il volto spira.
Alma non è cosí secura e forte
che non paventi, ove un sol guardo gira.
Nuda ha la spada e la solleva e scote
gridando, e l’aria e l’ombre in van percote.
"Ben tosto" dice "il predator cristiano,
ch’audace è sí ch’a me vuole agguagliarsi,
caderà vinto e sanguinoso al piano,
bruttando ne la polve i crini sparsi;
e vedrà vivo ancor da questa mano
ad onta del suo Dio l’arme spogliarsi,
né morendo impetrar potrà co’ preghi
ch’in pasto a’ cani le sue membra i’ neghi."
Non altramente il tauro, ove l’irriti
geloso amor co’ stimuli pungenti,
orribilmente mugge, e co’ muggiti
gli spirti in sé risveglia e l’ire ardenti,
e ’l corno aguzza a i tronchi, e par ch’inviti
con vani colpi a la battaglia i venti:
sparge co ’l piè l’arena, e ’l suo rivale
da lunge sfida a guerra aspra e mortale.
Da sí fatto furor commosso, appella
l’araldo; e con parlar tronco gli impone:
"Vattene al campo, e la battaglia fella
nunzia a colui ch’è di Giesú campione."
Quinci alcun non aspetta e monta in sella,
e fa condursi inanzi il suo prigione;
esce fuor de la terra, e per lo colle
in corso vien precipitoso e folle.
Dà fiato intanto al corno, e n’esce un suono
che d’ogn’intorno orribile s’intende
e ’n guisa pur di strepitoso tuono
gli orecchi e ’l cor de gli ascoltanti offende.
Già i principi cristiani accolti sono
ne la tenda maggior de l’altre tende:
qui fe’ l’araldo sue disfide e incluse
Tancredi pria, né però gli altri escluse.
Goffredo intorno gli occhi gravi e tardi
volge con mente allor dubbia e sospesa,
né, perché molto pensi e molto guardi,
atto gli s’offre alcuno a tanta impresa.
Vi manca il fior de’ suoi guerrier gagliardi:
di Tancredi non s’è novella intesa,
e lunge è Boemondo, ed ito è in bando
l’invitto eroe ch’uccise il fier Gernando.
Ed oltre i diece che fur tratti a sorte,
i migliori del campo e i piú famosi
seguír d’Armida le fallaci scorte,
sotto il silenzio de la notte ascosi.
Gli altri di mano e d’animo men forte
taciti se ne stanno e vergognosi,
né vi è chi cerchi in sí gran rischio onore,
ché vinta la vergogna è dal timore.
Al silenzio, a l’aspetto, ad ogni segno,
di lor temenza il capitan s’accorse,
e tutto pien di generoso sdegno
dal loco ove sedea repente sorse,
e disse: "Ah! ben sarei di vita indegno
se la vita negassi or porre in forse,
lasciando ch’un pagan cosí vilmente
calpestasse l’onor di nostra gente!
Sieda in pace il mio campo, e da secura
parte miri ozioso il mio periglio.
Su su, datemi l’arme"; e l’armatura
gli fu recata in un girar di ciglio.
Ma il buon Raimondo, che in età matura
parimente maturo avea il consiglio,
e verdi ancor le forze a par di quanti
erano quivi, allor si trasse avanti,
e disse a lui rivolto: "Ah non sia vero
ch’in un capo s’arrischi il campo tutto!
Duce sei tu, non semplice guerriero:
publico fòra e non privato il lutto.
In te la fé s’appoggia e ’l santo impero,
per te fia il regno di Babèl distrutto.
Tu il senno sol, lo scettro solo adopra;
ponga altri poi l’ardire e ’l ferro in opra.
Ed io, bench’a gir curvo mi condanni
la grave età, non fia che ciò ricusi.
Schivino gli altri i marziali affanni,
me non vuo’ già che la vecchiezza scusi.
Oh! foss’io pur su ’l mio vigor de gli anni
qual sète or voi, che qui temendo chiusi
vi state e non vi move ira o vergogna
contra lui che vi sgrida e vi rampogna,
e quale allora fui, quando al cospetto
di tutta la Germania, a la gran corte
del secondo Corrado, apersi il petto
al feroce Leopoldo e ’l posi a morte!
E fu d’alto valor piú chiaro effetto
le spoglie riportar d’uom cosí forte,
che s’alcun or fugasse inerme e solo
di questa ignobil turba un grande stuolo.
Se fosse in me quella virtú, quel sangue,
di questo alter l’orgoglio avrei già spento.
Ma qualunque io mi sia, non però langue
il core in me, né vecchio anco pavento,
E s’io pur rimarrò nel campo essangue,
né il pagan di vittoria andrà contento.
Armarmi i’ vuo’: sia questo il dí ch’illustri
con novo onor tutti i miei scorsi lustri."
Cosí parla il gran vecchio, e sproni acuti
son le parole, onde virtú si desta.
Quei che fur prima timorosi e muti
hanno la lingua or baldanzosa e presta.
Né sol non v’è che la tenzon rifiuti,
ma ella omai da molti a prova è chiesta:
Baldovin la domanda, e con Ruggiero
Guelfo, i due Guidi, e Stefano e Gerniero,
e Pirro, quel che fe’ il lodato inganno
dando Antiochia presa a Boemondo;
ed a prova richiesta anco ne fanno
Eberardo, Ridolfo e ’l pro’ Rosmondo,
un di Scozia, un d’Irlanda, ed un britanno,
terre che parte il mar dal nostro mondo;
e ne son parimente anco bramosi
Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi.
Ma sovra tutti gli altri il fero vecchio
se ne dimostra cupido ed ardente.
Armato è già; sol manca a l’apparecchio
de gli altri arnesi il fino elmo lucente.
A cui dice Goffredo: "O vivo specchio
del valor prisco, in te la nostra gente
miri e virtú n’apprenda: in te di Marte
splende l’onor, la disciplina e l’arte.
Oh! pur avessi fra l’etade acerba
diece altri di valor al tuo simíle,
come ardirei vincer Babèl superba
e la Croce spiegar da Battro a Tile.
Ma cedi or, prego, e te medesmo serba
a maggior opre e di virtú senile.
Pongansi poi tutti i nomi in un vaso
come è l’usanza, e sia giudice il caso;
anzi giudice Dio, de le cui voglie
ministra e serva è la fortuna e ’l fato."
Ma non però dal suo pensier si toglie
Raimondo, e vuol anch’egli esser notato.
Ne l’elmo suo Goffredo i brevi accoglie;
e poi che l’ebbe scosso ed agitato,
nel primo breve che di là traesse,
del conte di tolosa il nome lesse.
Fu il nome suo con lieto grido accolto,
né di biasmar la sorte alcun ardisce.
Ei di fresco vigor la fronte e ’l volto
riempie; e cosí allor ringiovenisce
qual serpe fier che in nove spoglie avolto
d’oro fiammeggi e ’ncontra il sol si lisce.
Ma piú d’ogn’altro il capitan gli applaude
e gli annunzia vittoria, e gli dà laude.
E la spada togliendosi dal fianco,
e porgendola a lui, cosí dicea:
"Questa è la spada che ’n battaglia il franco
rubello di Sassonia oprar solea,
ch’io già gli tolsi a forza, e gli tolsi anco
la vita allor di mille colpe rea;
questa, che meco ognor fu vincitrice,
prendi, e sia cosí teco ora felice."
Di loro indugio intanto è quell’altero
impaziente, e li minaccia e grida:
"O gente invitta, o popolo guerriero
d’Europa, un uomo solo è che vi sfida.
Venga Tancredi omai che par sí fero,
se ne la sua virtú tanto si fida;
o vuol, giacendo in piume, aspettar forse
la notte ch’altre volte a lui soccorse?
Venga altri, s’egli teme; a stuolo a stuolo
venite insieme, o cavalieri, o fanti,
poi che di pugnar meco a solo a solo
non v’è fra mille schiere uom che si vanti.
Vedete là il sepolcro ove il figliuolo
di Maria giacque: or ché non gite avanti?
ché non sciogliete i voti? Ecco la strada!
A qual serbate uopo maggior la spada?"
Con tali scherni il saracin atroce
quasi con dura sferza altrui percote,
ma piú ch’altri Raimondo a quella voce
s’accende, e l’onte sofferir non pote.
La virtú stimolata è piú feroce,
e s’aguzza de l’ira a l’aspra cote,
sí che tronca gli indugi e preme il dorso
del suo Aquilino, a cui diè ’l nome il corso.
Questo su ’l Tago nacque, ove talora
l’avida madre del guerriero armento,
quando l’alma stagion che n’innamora
nel cor le instiga il natural talento,
volta l’aperta bocca incontra l’òra,
raccoglie i semi del fecondo vento,
e de’ tepidi fiati (o meraviglia!)
cupidamente ella concipe e figlia.
E ben questo Aquilin nato diresti
di quale aura del ciel piú lieve spiri,
o se veloce sí ch’orma non resti
stendere il corso per l’arena il miri,
o se ’l vedi addoppiar leggieri e presti
a destra ed a sinistra angusti giri.
Sovra tal corridore il conte assiso
move a l’assalto, e volge al cielo il viso:
"Signor, tu che drizzasti incontra l’empio
Golia l’arme inesperte in Terebinto,
sí ch’ei ne fu, che d’Israel fea scempio,
al primo sasso d’un garzone estinto;
tu fa’ ch’or giaccia (e fia pari l’essempio)
questo fellon da me percosso e vinto,
e debil vecchio or la superbia opprima
come debil fanciul l’oppresse in prima."
Cosí pregava il conte, e le preghiere
mosse dalla speranza in Dio secura
s’alzàr volando a le celesti spere,
come va foco al ciel per sua natura.
L’accolse il Padre eterno, e fra le schiere
de l’essercito suo tolse a la cura
un che ’l difenda, e sano e vincitore
da le man di quell’empio il tragga fuore.
L’angelo, che fu già custode eletto
da l’alta Providenza al buon Raimondo
insin dal primo dí che pargoletto
se ’n venne a farsi peregrin del mondo,
or che di novo il Re del Ciel gli ha detto
che prenda in sé de la difesa il pondo,
ne l’alta rocca ascende, ove de l’oste
divina tutte son l’arme riposte.
Qui l’asta si conserva onde il serpente
percosso giacque, e i gran fulminei strali,
e quegli ch’invisibili a la gente
portan l’orride pesti e gli altri mali;
e qui sospeso è in alto il gran tridente,
primo terror de’ miseri mortali
quando egli avien che i fondamenti scota
de l’ampia terra, e le città percota.
Si vedea fiammeggiar fra gli altri arnesi
scudo di lucidissimo diamante,
grande che può coprir genti e paesi
quanti ve n’ha fra il Caucaso e l’Atlante;
e sogliono da questo esser difesi
principi giusti e città caste e sante.
Questo l’angelo prende, e vien con esso
occultamente al suo Raimondo appresso.
Piene intanto le mura eran già tutte
di varia turba, e ’l barbaro tiranno
manda Clorinda e molte genti instrutte,
che ferme a mezzo il colle oltre non vanno.
Da l’altro lato in ordine ridutte
alcune schiere di cristiani stanno,
e largamente a’ duo campioni il campo
vòto riman fra l’uno e l’altro campo.
Mirava Argante, e non vedea Tancredi,
ma d’ignoto campion sembianze nove.
Fecesi il conte inanzi, e: " Quel che chiedi,
è" disse a lui "per tua ventura altrove.
Non superbir però, ché me qui vedi
apparecchiato a riprovar tue prove,
ch’io di lui posso sostener la vice
o venir come terzo a me qui lice."
Ne sorride il superbo, e gli risponde:
"Che fa dunque Tancredi? e dove stassi?
Minaccia il ciel con l’arme, e poi s’asconde
fidando sol ne’ suoi fugaci passi;
ma fugga pur nel centro e ’n mezzo l’onde,
ché non fia loco ove securo il lassi."
"Menti" replica l’altro "a dir ch’uom tale
fugga da te, ch’assai di te piú vale."
Freme il circasso irato, e dice: "Or prendi
del campo tu, ch’in vece sua t’accetto;
e tosto e’ si parrà come difendi
l’alta follia del temerario detto."
Cosí mossero in giostra, e i colpi orrendi
parimente drizzaro ambi a l’elmetto;
e ’l buon Raimondo ove mirò scontrollo,
né dar gli fece ne l’arcion pur crollo.
Da l’altra parte il fero Argante corse
(fallo insolito a lui) l’arringo in vano,
ché ’l difensor celeste il colpo torse
dal custodito cavalier cristiano.
Le labra il crudo per furor si morse,
e ruppe l’asta bestemmiando al piano.
Poi tragge il ferro, e va contra Raimondo
impetuoso al paragon secondo.
E ’l possente corsiero urta per dritto,
quasi monton ch’al cozzo il capo abbassa.
Schiva Raimondo l’urto, al lato dritto
piegando il corso, e ’l fère in fronte e passa.
Torna di novo il cavalier d’Egitto,
ma quegli pur di novo a destra il lassa,
e pur su l’elmo il coglie, e ’ndarno sempre
ché l’elmo adamantine avea le tempre.
Ma il feroce pagan, che seco vòle
piú stretta zuffa, a lui s’aventa e serra.
L’altro, ch’al peso di sí vasta mole
teme d’andar co ’l suo destriero a terra,
qui cede, ed indi assale, e par che vòle,
intorniando con girevol guerra,
e i lievi imperii il rapido cavallo
segue del freno, e non pone orma in fallo.
Qual capitan ch’oppugni eccelsa torre
infra paludi posta o in alto monte,
mille aditi ritenta, e tutte scorre
l’arti e le vie, cotal s’aggira il conte;
e poi che non può scaglia d’arme tòrre
ch’armano il petto e la superba fronte,
fère i men forti arnesi, ed a la spada
cerca tra ferro e ferro aprir la strada.
Ed in due parti o in tre forate e fatte
l’arme nemiche ha già tepide e rosse,
ed egli ancor le sue conserva intatte,
né di cimier, né d’un sol fregio scosse.
Argante indarno arrabbia, a vòto batte
e spande senza pro l’ire e le posse;
non si stanca però, ma raddoppiando
va tagli e punte e si rinforza errando.
Al fin tra mille colpi il saracino
cala un fendente, e ’l conte è cosí presso
che forse il velocissimo Aquilino
non sottraggeasi e rimaneane oppresso;
ma l’aiuto invisibile vicino
non mancò lui di quel superno messo,
che stese il braccio e tolse il ferro crudo
sovra il diamante del celeste scudo.
Fragile è il ferro allor (ché non resiste
di fucina mortal tempra terrena
ad armi incorrottibili ed immiste
d’eterno fabro) e cade in su l’arena.
Il circasso, ch’andarne a terra ha viste
minutissime parti, il crede a pena;
stupisce poi, scorta la mano inerme,
ch’arme il campion nemico abbia sí ferme;
e ben rotta la spada aver si crede
su l’altro scudo, onde è colui difeso,
e ’l buon Raimondo ha la medesma fede,
ché non sa già chi sia dal ciel disceso.
Ma però ch’egli disarmata vede
la man nemica, si riman sospeso,
ché stima ignobil palma e vili spoglie
quelle ch’altrui con tal vantaggio toglie.
"Prendi" volea già dirgli "un’altra spada",
quando novo pensier nacque nel core,
ch’alto scorno è de’ suoi dove egli cada,
che di publica causa è difensore.
Cosí né indegna a lui vittoria aggrada,
né in dubbio vuol porre il comune onore.
Mentre egli dubbio stassi, Argante lancia
il pomo e l’else a la nemica guancia,
e in quel tempo medesmo il destrier punge
e per venirne a lotta oltra si caccia.
La percossa lanciata a l’elmo giunge,
sí che ne pesta al tolosan la faccia;
ma però nulla sbigottisce, e lunge
ratto si svia da le robuste braccia,
ed impiaga la man ch’a dar di piglio
venia piú fera che ferino artiglio.
Poscia gira da questa a quella parte,
e rigirasi a questa indi da quella;
e sempre, e dove riede e donde parte,
fère il pagan d’aspra percossa e fella.
Quanto avea di vigor, quanto avea d’arte,
quanto può sdegno antico, ira novella,
a danno del circasso or tutto aduna,
e seco il Ciel congiura e la fortuna.
Quei di fine arme e di se stesso armato,
a i gran colpi resiste e nulla pave;
e par senza governo in mar turbato,
rotte vele ed antenne, eccelsa nave,
che pur contesto avendo ogni suo lato
tenacemente di robusta trave,
sdrusciti i fianchi al tempestoso flutto
non mostra ancor, né si dispera in tutto.
Argante, il tuo periglio allor tal era,
quando aiutarti Belzebú dispose.
Questi di cava nube ombra leggiera
(mirabil mostro) in forma d’uom compose;
e la sembianza di Clorinda altera
gli finse, e l’arme ricche e luminose:
diegli il parlare e senza mente il noto
suon de la voce, e ’l portamento e ’l moto.
Il simulacro ad Oradin, esperto
sagittario famoso, andonne e disse:
"O famoso Oradin, ch’a segno certo,
come a te piace, le quadrella affisse,
ah! gran danno saria s’uom di tal merto,
difensor di Giudea, cosí morisse,
e di sue spoglie il suo nemico adorno
securo ne facesse a i suoi ritorno.
Qui fa’ prova de l’arte, e le saette
tingi, nel sangue del ladron francese,
ch’oltra il perpetuo onor vuo’ che n’aspette
premio al gran fatto egual dal re cortese."
Cosí parlò, né quegli in dubbio stette,
tosto che ’l suon de le promesse intese;
da la grave faretra un quadrel prende
e su l’arco l’adatta, e l’arco tende.
Sibila il teso nervo, e fuore spinto
vola il pennuto stral per l’aria e stride,
ed a percoter va dove del cinto
si congiungon le fibbie e le divide;
passa l’usbergo, e in sangue a pena tinto
qui su si ferma e sol la pelle incide,
ché ’l celeste guerrier soffrir non volse
ch’oltra passasse, e forza al colpo tolse.
Da l’usbergo lo stral si tragge il conte
ed ispicciarne fuori il sangue vede;
e con parlar pien di minaccie ed onte
rimprovera al pagan la rotta fede.
Il capitan, che non torcea la fronte
da l’amato Raimondo, allor s’avede
che violato è il patto, e perché grave
stima la piaga, ne sospira e pave;
e con la fronte le sue genti altere
e con la lingua a vendicarlo desta.
Vedi tosto inchinar giú le visiere,
lentare i freni e por le lancie in resta,
e quasi in un sol punto alcune schiere
da quella parte moversi e da questa.
Sparisce il campo, e la minuta polve
con densi globi al ciel s’inalza e volve.
D’elmi e scudi percossi e d’aste infrante
ne’ primi scontri un gran romor s’aggira.
Là giacere un cavallo, e girne errante
un altro là senza rettor si mira;
qui giace un guerrier morto, e qui spirante
altri singhiozza e geme, altri sospira.
Fera è la pugna, e quanto piú si mesce
e stringe insieme, piú s’inaspra e cresce.
Salta Argante nel mezzo agile e sciolto,
e toglie ad un guerrier ferrata mazza;
e rompendo lo stuol calcato e folto,
la rota intorno e si fa larga piazza.
E sol cerca Raimondo, e in lui sol vòlto
ha il ferro e l’ira impetuosa e pazza,
e quasi avido lupo ei par che brame
ne le viscere sue pascer la fame.
Ma duro ad impedir viengli il sentiero
e fero intoppo, acciò che ’l corso ei tardi.
Si trova incontra Ormanno, e con Ruggiero
di Balnavilla un Guido e duo Gherardi.
Non cessa, non s’allenta, anzi è piú fero
quanto ristretto è piú da que’ gagliardi,
sí come a forza da rinchiuso loco
se n’esce e move alte ruine il foco.
Uccide Ormanno, piaga Guido, atterra
Ruggiero infra gli estinti egro e languente,
ma contra lui crescon le turbe, e ’l serra
d’uomini e d’arme cerchio aspro e pungente.
Mentre in virtú di lui pari la guerra
si mantenea fra l’una e l’altra gente,
il buon duce Buglion chiama il fratello,
ed a lui dice: "Or movi il tuo drapello,
e là dove battaglia è piú mortale
vattene ad investir nel lato manco."
Quegli si mosse, e fu lo scontro tale
ond’egli urtò de gli nemici al fianco,
che parve il popol d’Asia imbelle e frale,
né poté sostener l’impeto franco,
che gli ordini disperde, e co’ destrieri
l’insegne insieme abbatte e i cavalieri.
Da l’impeto medesmo in fuga è vòlto
il destro corno; e non v’è alcun che faccia
fuor ch’Argante difesa, a freno sciolto
cosí il timor precipiti li caccia.
Egli sol ferma il passo e mostra il volto,
né chi con mani cento e cento braccia
cinquanta scudi insieme ed altrettante
spade movesse, or piú faria d’Argante.
Ei gli stocchi e le mazze, egli de l’aste
e de’ corsieri l’impeto sostenta;
e solo par che ’ncontra tutti baste,
ed ora a questo ed ora a quel s’aventa.
Peste ha le membra e rotte l’arme e guaste,
e sudor versa e sangue, e par no ’l senta.
Ma cosí l’urta il popol denso e ’l preme
ch’al fin lo svolge e seco il porta insieme.
Volge il tergo a la forza ed al furore
di quel diluvio che ’l rapisce e ’l tira;
ma non già d’uom che fugga ha i passi e ’l core,
s’a l’opre de la mano il cor si mira.
Serbano ancora gli occhi il lor terrore
e le minaccie de la solita ira;
e cerca ritener con ogni prova
la fuggitiva turba, e nulla giova.
Non può far quel magnanimo ch’almeno
sia lor fuga piú tarda e piú raccolta,
ché non ha la paura arte né freno,
né pregar qui né comandar s’ascolta.
Il pio Buglion, ch’i suoi pensieri a pieno
vede fortuna a favorir rivolta,
segue de la vittoria il lieto corso
e invia novello a i vincitor soccorso.
E se non che non era il dí che scritto
Dio ne gli eterni suoi decreti avea,
quest’era forse il dí che ’l campo invitto
de le sante fatiche al fin giungea.
Ma la schiera infernal, ch’in quel conflitto
la tirannide sua cader vedea,
sendole ciò permesso, in un momento
l’aria in nube ristrinse e mosse il vento.
Da gli occhi de’ mortali un negro velo
rapisce il giorno e ’l sole, e par ch’avampi
negro via piú ch’orror d’inferno il cielo,
cosí fiammeggia infra baleni e lampi.
Fremono i tuoni, e pioggia accolta in gelo
si versa, e i paschi abbatte e inonda i campi.
Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli
non pur le quercie ma le rocche e i colli.
L’acqua in un tempo, il vento e la tempesta
ne gli occhi a i Franchi impetuosa fère,
e l’improvisa violenza arresta
con un terror quasi fatal le schiere.
La minor parte d’esse accolta resta
(ché veder non le puote) a le bandiere.
Ma Clorinda, che quindi alquanto è lunge
prende opportuno il tempo e ’l destrier punge.
Ella gridava a i suoi: "Per noi combatte,
compagni, il Cielo, e la giustizia aita;
da l’ira sua le faccie nostre intatte
sono, e non è la destra indi impedita,
e ne la fronte solo irato ei batte
de la nemica gente impaurita,
e la scote de l’arme, e de la luce
la priva: andianne pur, ché ’l fato è duce."
Cosí spinge le genti, e ricevendo
sol nelle spalle l’impeto d’inferno,
urta i Francesi con assalto orrendo,
e i vani colpi lor si prende a scherno.
Ed in quel tempo Argante anco volgendo
fa de’ già vincitor aspro governo,
e quei lasciando il campo a tutto corso
volgono al ferro, a le procelle il dorso.
Percotono le spalle a i fuggitivi
l’ire immortali e le mortali spade,
e ’l sangue corre e fa, commisto a i rivi
de la gran pioggia, rosseggiar le strade.
Qui tra ’l vulgo de’ morti e de’ mal vivi
e Pirro e ’l buon Ridolfo estinto cade;
e toglie a questo il fier circasso l’alma,
e Clorinda di quello ha nobil palma.
Cosí fuggiano i Franchi, e di lor caccia
non rimaneano i Siri anco o i demoni.
Sol contra l’arme e contra ogni minaccia
di granuole, di turbini e di tuoni
volgea Goffredo la secura faccia,
rampognando aspramente i suoi baroni;
e, fermo anzi la porta il gran cavallo,
le genti sparse raccogliea nel vallo.
E ben due volte il corridor sospinse
contra il feroce Argante e lui ripresse,
ed altrettante il nudo ferro spinse
dove le turbe ostili eran piú spesse;
al fin con gli altri insieme ei si ristrinse
dentro a i ripari, e la vittoria cesse.
Tornano allora i saracini, e stanchi
restan nel vallo e sbigottiti i Franchi.
Né quivi ancor de l’orride procelle
ponno a pieno schivar la forza e l’ira,
ma sono estinte or queste faci or quelle,
e per tutto entra l’acqua e ’l vento spira.
Squarcia le tele e spezza i pali, e svelle
le tende intere e lunge indi le gira;
la pioggia a i gridi, a i venti, a i tuon s’accorda
d’orribile armonia che ’l mondo assorda.