Ma d’altra parte l’assediate genti
speme miglior conforta e rassecura,
ch’oltra il cibo raccolto altri alimenti
son lor dentro portati a notte oscura,
ed han munite d’arme e d’instrumenti
di guerra verso l’Aquilon le mura,
che d’altezza accresciute e sode e grosse
non mostran di temer d’urti o di scosse.
E ’l re pur sempre queste parti e quelle
lor fa inalzare e rafforzare i fianchi,
o l’aureo sol risplenda od a le stelle
ed a la luna il fosco ciel s’imbianchi;
e in far continuamente arme novelle
sudano i fabri affaticati e stanchi.
In sí fatto apparecchio intolerante
a lui se ’n venne, e ragionolli Argante:
"E insino a quando ci terrai prigioni
fra queste mura in vile assedio e lento?
Odo ben io stridere incudi, e suoni
d’elmi e di scudi e di corazze sento,
ma non veggio a quel uso; e quei ladroni
scorrono i campi e i borghi a lor talento,
né v’è di noi chi mai lor passo arresti,
né tromba che dal sonno almen gli desti.
A lor né i prandi mai turbati e rotti,
né molestate son le cene liete,
anzi egualmente i dí lunghi e le notti
traggon con securezza e con quiete.
Voi da i disagi e da la fame indotti
a darvi vinti a lungo andar sarete
od a morirne qui, come codardi,
quando d’Egitto pur l’aiuto tardi.
Io per me non vuo’ già ch’ignobil morte
i giorni miei d’oscuro oblio ricopra,
né vuo’ ch’al novo dí fra queste porte
l’alma luce del sol chiuso mi scopra.
Di questo viver mio faccia la sorte
quel che già stabilito è là di sopra;
non farà già che senza oprar la spada
inglorioso e invendicato io cada.
Ma quando pur del valor vostro usato
cosí non fosse in voi spento ogni seme,
non di morir pugnando ed onorato,
ma di vita e di palma anco avrei speme.
A incontrare i nemici e ’l nostro fato
andianne pur deliberati insieme,
ché spesso avien che ne’ maggior perigli
sono i piú audaci gli ottimi consigli.
Ma se nel troppo osar tu non isperi,
né sei d’uscir con ogni squadra ardito,
procura almen che sia per duo guerrieri
questo tuo gran litigio or difinito.
E perch’accetti ancor piú volentieri
il capitan de’ Franchi il nostro invito,
l’arme egli scelga e ’l suo vantaggio toglia,
e le condizion formi a sua voglia.
Ché se ’l nemico avrà due mani ed una
anima solo, ancor ch’audace e fera,
temer non déi, per isciagura alcuna,
che la ragion da me difesa pèra.
Pote in vece di fato e di fortuna
darti la destra mia vittoria intera,
ed a te se medesma or porge in pegno
che se ’l confidi in lei salvo è il tuo regno."
Tacque, e rispose il re: "Giovene ardente,
se ben me vedi in grave età senile,
non sono al ferro queste man sí lente,
né sí quest’alma è neghittosa e vile
ch’anzi morir volesse ignobilmente
che di morte magnanima e gentile,
quando io temenza avessi o dubbio alcuno
de’ disagi ch’annunzii e del digiuno.
Cessi Dio tanta infamia! Or quel ch’ad arte
nascondo altrui, vuo’ ch’a te sia palese.
Soliman di Nicea, che brama in parte
di vendicar le ricevute offese,
de gli Arabi le schiere erranti e sparte
raccolte ha fin dal libico paese,
e i nemici assalendo a l’aria nera
darne soccorso e vettovaglia spera.
Tosto fia che qui giunga; or se fra tanto
son le nostre castella oppresse e serve,
non ce ne caglia, pur che ’l regal manto
e la mia nobil reggia io mi conserve.
Tu l’ardimento e questo ardore alquanto
tempra, per Dio, che ’n te soverchio ferve,
ed opportuna la stagione aspetta
a la tua gloria ed a la mia vendetta."
Forte sdegnossi il saracino audace,
ch’era di Solimano emulo antico,
sí amaramente ora d’udir gli spiace
che tanto se ’n prometta il rege amico.
"A tuo senno" risponde "e guerra e pace
farai, signor: nulla di ciò piú dico.
S’indugi pure, e Soliman s’attenda;
ei, che perdé il suo regno, il tuo difenda.
Vengane a te quasi celeste messo,
liberator del popolo pagano,
ch’io, quanto a me, bastar credo a me stesso,
e sol vuo’ libertà da questa mano.
Or nel riposo altrui siami concesso
ch’io ne discenda a guerreggiar nel piano:
privato cavalier, non tuo campione,
verrò co’ Franchi a singolar tenzone."
Replica il re: "Se ben l’ire e la spada
dovresti riserbare a migliore uso,
che tu sfidi però, se ciò t’aggrada,
alcun guerrier nemico, io non ricuso."
Cosí gli disse, ed ei punto non bada:
"Va," dice ad un araldo "or colà giuso,
ed al duce de’ Franchi, udendo l’oste,
fa’ queste mie non picciole proposte:
ch’un cavalier, che d’appiattarsi in questo
forte cinto di muri a sdegno prende,
brama di far con l’armi or manifesto
quanto la sua possanza oltra si stende;
e ch’a duello di venirne è presto
nel pian ch’è fra le mura e l’alte tende
per prova di valore, e che disfida
qual piú de’ Franchi in sua virtú si fida;
e che non solo è di pugnare accinto
e con uno e con duo del campo ostile,
ma dopo il terzo, il quarto accetta e ’l quinto,
sia di vulgare stirpe o di gentile:
dia, se vuol, la franchigia, e serva il vinto
al vincitor come di guerra è stile."
Cosí gli impose, ed ei vestissi allotta
la purpurea de l’arme aurata cotta.
E poi che giunse a la regal presenza
del principe Goffredo e de’ baroni,
chiese: "O signore, a i messaggier licenza
dassi tra voi di liberi sermoni?"
"Dassi," rispose il capitano "e senza
alcun timor la tua proposta esponi."
Riprese quegli: "Or si parrà se grata
o formidabil fia l’alta ambasciata."
E seguí poscia, e la disfida espose
con parole magnifiche ed altere.
Fremer s’udiro, e si mostràr sdegnose
al suo parlar quelle feroci schiere;
e senza indugio il pio Buglion rispose:
"Dura impresa intraprende il cavaliere;
e tosto io creder vuo’ che glie ne incresca
sí che d’uopo non fia che ’l quinto n’esca.
Ma venga in prova pur, che d’ogn’oltraggio
gli offero campo libero e securo;
e seco pugnerà senza vantaggio
alcun de’ miei campioni, e cosí giuro."
Tacque, e tornò il re d’arme al suo viaggio
per l’orme ch’al venir calcate furo,
e non ritenne il frettoloso passo
sin che non diè risposta al fier circasso.
"Armati," dice "alto signor; che tardi?
la disfida accettata hanno i cristiani,
e d’affrontarsi teco i men gagliardi
mostran desio, non che i guerrier soprani.
E mille i’ vidi minacciosi sguardi,
e mille al ferro apparecchiate mani:
loco securo il duce a te concede."
Cosí gli dice; e l’arme esso richiede,
e se ne cinge intorno e impaziente
di scenderne s’affretta a la campagna.
Disse a Clorinda il re, ch’era presente:
"Giusto non è ch’ei vada e tu rimagna.
Mille dunque con te di nostra gente
prendi in sua securezza, e l’accompagna;
ma vada inanzi a giusta pugna ei solo,
tu lunge alquanto a lui ritien lo stuolo."
Tacque ciò detto; e poi che furo armati,
quei del chiuso n’uscivano a l’aperto,
e giva inanzi Argante e de gli usati
arnesi in su ’l cavallo era coperto.
Loco fu tra le mura e gli steccati
che nulla avea di diseguale e d’erto:
ampio e capace, e parea fatto ad arte
perch’egli fosse altrui campo di Marte.
Ivi solo discese, ivi fermosse
in vista de’ nemici il fero Argante,
per gran cor, per gran corpo e per gran posse
superbo e minaccievole in sembiante,
qual Encelado in Flegra, o qual mostrosse
ne l’ima valle il filisteo gigante,
ma pur molti di lui tema non hanno,
ch’anco quanto sia forte a pien non sanno.
Alcun però, dal pio Goffredo eletto
come il miglior, ancor non è fra molti.
Ben si vedean con desioso affetto
tutti gli occhi in Tancredi esser rivolti,
e dichiarato infra i miglior perfetto
dal favor manifesto era de’ volti;
e s’udia non oscuro anco il bisbiglio,
e l’approvava il capitan co ’l ciglio.
Già cedea ciascun altro, e non secreto
era il volere omai del pio Buglione:
"Vanne," a lui disse "a te l’uscir non vieto,
e reprimi il furor di quel fellone."
E tutto in volto baldanzoso e lieto
per sí alto giudizio, il fer garzone
a lo scudier chiedea l’elmo e ’l cavallo,
poi seguito da molti uscia del vallo.
Ed a quel largo pian fatto vicino,
ov’Argante l’attende, anco non era,
quando in leggiadro aspetto e pellegrino
s’offerse a gli occhi suoi l’alta guerriera.
Bianche via piú che neve in giogo alpino
avea le sopraveste, e la visiera
alta tenea dal volto; e sovra un’erta,
tutta, quanto ella è grande, era scoperta.
Già non mira Tancredi ove il circasso
la spaventosa fronte al cielo estolle,
ma move il suo destrier con lento passo,
volgendo gli occhi ov’è colei su ’l colle;
poscia immobil si ferma, e pare un sasso:
gelido tutto fuor, ma dentro bolle.
Sol di mirar s’appaga, e di battaglia
sembiante fa che poco or piú gli caglia.
Argante, che non vede alcun ch’in atto
dia segno ancor d’apparecchiarsi in giostra:
"Da desir di contesa io qui fui tratto";
grida "or chi viene inanzi, e meco giostra?"
L’altro, attonito quasi e stupefatto,
pur là s’affissa e nulla udir ben mostra.
Ottone inanzi allor spinse il destriero,
e ne l’arringo vòto entrò primiero.
Questi un fu di color cui dianzi accese
di gir contra il pagano alto desio;
pur cedette a Tancredi, e ’n sella ascese
fra gli altri che seguírlo e seco uscio.
Or veggendo sue voglie altrove intese
e starne lui quasi al puguar restio,
prende, giovene audace e impaziente,
l’occasione offerta avidamente;
e veloce cosí che tigre o pardo
va men ratto talor per la foresta,
corre a ferire il saracin gagliardo,
che d’altra parte la gran lancia arresta.
Si scote allor Tancredi, e dal suo tardo
pensier, quasi da un sonno, al fin si desta,
e grida ei ben: "La pugna è mia; rimanti."
Ma troppo Ottone è già trascorso inanti.
Onde si ferma; e d’ira e di dispetto
avampa dentro, e fuor qual fiamma è rosso,
perch’ad onta si reca ed a difetto
ch’altri si sia primiero in giostra mosso.
Ma intanto a mezzo il corso in su l’elmetto
dal giovin forte è il saracin percosso;
egli a l’incontro a lui co ’l ferro nudo
fende l’usbergo, e pria rompe lo scudo.
Cade il cristiano, e ben è il colpo acerbo,
poscia ch’avien che da l’arcion lo svella.
Ma il pagan di piú forza e di piú nerbo
non cade già, né pur si torce in sella;
indi con dispettoso atto superbo
sovra il caduto cavalier favella:
"Renditi vinto, e per tua gloria basti
che dir potrai che contra me pugnasti."
"No," gli risponde Otton "fra noi non s’usa
cosí tosto depor l’arme e l’ardire;
altri del mio cader farà la scusa,
io vuo’ far la vendetta o qui morire."
In sembianza d’Aletto e di Medusa
freme il circasso, e par che fiamma spire:
"Conosci or" dice "il mio valor a prova,
poi che la cortesia sprezzar ti giova."
Spinge il destrier in questo, e tutto oblia
quanto virtú cavaleresca chiede.
Fugge il franco l’incontro e si desvia,
e ’l destro fianco nel passar gli fiede,
ed è sí grave la percossa e ria
che ’l ferro sanguinoso indi ne riede;
ma che pro, se la piaga al vincitore
forza non toglie e giunge ira e furore?
Argante il corridor dal corso affrena,
e indietro il volge; e cosí tosto è vòlto,
che se n’accorge il suo nemico a pena,
e d’un grand’urto a l’improviso è colto.
Tremar le gambe, e indebolir la lena,
sbigottir l’alma e impallidir il volto
fègli l’aspra percossa, e frale e stanco
sovra il duro terren battere il fianco.
Ne l’ira Argante infellonisce, e strada
sovra il petto del vinto al destrier face;
e: "Cosí" grida "ogni superbo vada,
come costui che sotto i piè mi giace."
Ma l’invitto Tancredi allor non bada,
ché l’atto crudelissimo gli spiace,
e vuol che ’l suo valor con chiara emenda
copra il suo fallo e, come suol, risplenda.
Fassi inanzi gridando: "Anima vile,
che ancor ne le vittorie infame sei,
qual titolo di laude alto e gentile
da modi attendi sí scortesi e rei?
Fra i ladroni d’Arabia o fra simíle
barbara turba avezzo esser tu déi.
Fuggi la luce, e va’ con l’altre belve
a incrudelir ne’ monti e tra le selve."
Tacque; e ’l pagano, al sofferir poco uso,
morde le labra e di furor si strugge.
Risponder vuol, ma il suono esce confuso
sí come strido d’animal che rugge;
o come apre le nubi ond’egli è chiuso
impetuoso il fulmine, e se ’n fugge,
cosí pareva a forza ogni suo detto
tonando uscir da l’infiammato petto.
Ma poi ch’in ambo il minacciar feroce
a vicenda irritò l’orgoglio e l’ira,
l’un come l’altro rapido e veloce,
spazio al corso prendendo, il destrier gira.
Or qui, Musa, rinforza in me la voce,
e furor pari a quel furor m’inspira,
sí che non sian de l’opre indegni i carmi
ed esprima il mio canto il suon de l’armi.
Posero in resta e dirizzaro in alto
i duo guerrier le noderose antenne;
né fu di corso mai, né fu di salto,
né fu mai tal velocità di penne,
né furia eguale a quella ond’a l’assalto
quinci Tancredi e quindi Argante venne.
Rupper l’aste su gli elmi, e volàr mille
tronconi e scheggie e lucide faville.
Sol de i colpi il rimbombo intorno mosse
l’immobil terra, e risonàrne i monti;
ma l’impeto e ’l furor de le percosse
nulla piegò de le superbe fronti.
L’uno e l’altro cavallo in guisa urtosse
che non fur poi cadendo a sorger pronti.
Tratte le spade, i gran mastri di guerra
lasciàr le staffe e i piè fermaro in terra.
Cautamente ciascuno a i colpi move
la destra, a i guardi l’occhio, a i passi il piede;
si reca in atti vari, in guardie nove:
or gira intorno, or cresce inanzi, or cede,
or qui ferire accenna e poscia altrove,
dove non minacciò ferir si vede,
or di sé discoprire alcuna parte
e tentar di schernir l’arte con l’arte.
De la spada Tancredi e de lo scudo
mal guardato al pagan dimostra il fianco;
corre egli per ferirlo, e intanto nudo
di riparo si lascia il lato manco.
Tancredi con un colpo il ferro crudo
del nemico ribatte, e lui fère anco;
né poi, ciò fatto, in ritirarsi tarda,
ma si raccoglie e si restringe in guarda.
Il fero Argante, che se stesso mira
del proprio sangue suo macchiato e molle,
con insolito orror freme e sospira,
di cruccio e di dolor turbato e folle;
e portato da l’impeto e da l’ira,
con la voce la spada insieme estolle,
e torna per ferire, ed è di punta
piagato ov’è la spalla al braccio giunta.
Qual ne l’alpestri selve orsa, che senta
duro spiedo nel fianco, in rabbia monta,
e contra l’arme se medesma aventa
e i perigli e la morte audace affronta,
tale il circasso indomito diventa:
giunta or piaga a la piaga, ed onta a l’onta,
e la vendetta far tanto desia
che sprezza i rischi e le difese oblia.
E congiungendo a temerario ardire
estrema forza e infaticabil lena,
vien che sí impetuoso il ferro gire
che ne trema la terra e ’l ciel balena;
né tempo ha l’altro ond’un sol colpo tire,
onde si copra, onde respiri a pena,
né schermo v’è ch’assecurar il possa
da la fretta d’Argante e da la possa.
Tancredi, in sé raccolto, attende in vano
che de’ gran colpi la tempesta passi.
Or v’oppon le difese, ed or lontano
se ’n va co’ giri e co’ veloci passi;
ma poi che non s’allenta il fer pagano,
è forza al fin che trasportar si lassi,
e cruccioso egli ancor con quanta pote
violenza maggior la spada rote.
Vinta da l’ira è la ragione e l’arte,
e le forze il furor ministra e cresce.
Sempre che scende, il ferro o fòra o parte
o piastra o maglia, e colpo in van non esce.
Sparsa è d’arme la terra, e l’arme sparte
di sangue, e ’l sangue co ’l sudor si mesce.
Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono,
fulmini nel ferir le spade sono.
Questo popolo e quello incerto pende
da sí nuovo spettacolo ed atroce,
e fra tema e speranza il fin n’attende,
mirando or ciò che giova, or ciò che noce;
e non si vede pur, né pur s’intende
picciol cenno fra tanti o bassa voce,
ma se ne sta ciascun tacito e immoto,
se non se in quanto ha il cor tremante in moto.
Già lassi erano entrambi, e giunti forse
sarian pugnando ad immaturo fine,
ma sí oscura la notte intanto sorse
che nascondea le cose anco vicine.
Quinci un araldo e quindi un altro accorse
per dipartirli, e li partiro al fine.
L’uno è il franco Arideo, Pindoro è l’altro,
che portò la disfida, uom saggio e scaltro.
I pacifici scettri osàr costoro
fra le spade interpor de’ combattenti,
con quella securtà che porgea loro
l’antichissima legge de le genti.
"Sète, o guerrieri," incominciò Pindoro
"con pari onor, di pari ambo possenti;
dunque cessi la pugna, e non sian rotte
le ragioni e ’l riposo de la notte.
Tempo è da travagliar mentre il sol dura,
ma ne la notte ogni animale ha pace,
e generoso cor non molto cura
notturno pregio che s’asconde e tace."
Risponde Argante: "A me per ombra oscura
la mia battaglia abbandonar non piace,
ben avrei caro il testimon del giorno!
Ma che giuri costui di far ritorno!"
Soggiunse l’altro allora: "E tu prometti
di tornar rimenando il tuo prigione,
perch’altrimenti non fia mai ch’aspetti
per la nostra contesa altra stagione."
Cosí giuraro; e poi gli araldi, eletti
a prescriver il tempo a la tenzone,
per dare spazio a le lor piaghe onesto,
stabiliro il mattin del giorno sesto.
Lasciò la pugna orribile nel core
de’ saracini e de’ fedeli impressa
un’alta meraviglia ed un orrore
che per lunga stagione in lor non cessa.
Sol de l’ardir si parla e del valore
che l’un guerriero e l’altro ha mostro in essa,
ma qual si debbia di lor due preporre,
vario e discorde il vulgo in sé discorre;
e sta sospeso in aspettando quale
avrà la fera lite avenimento,
e se ’l furore a la virtú prevale
o se cede l’audacia a l’ardimento.
Ma piú di ciascun altro a cui ne cale,
la bella Erminia n’ha cura e tormento,
che da i giudizi de l’incerto Marte
vede pender di sé la miglior parte.
Costei, che figlia fu del re Cassano
che d’Antiochia già l’imperio tenne,
preso il suo regno, al vincitor cristiano
fra l’altre prede anch’ella in poter venne.
Ma fulle in guisa allor Tancredi umano
che nulla ingiuria in sua balia sostenne;
ed onorata fu, ne la ruina
de l’alta patria sua, come reina.
L’onorò, la serví, di libertate
dono le fece il cavaliero egregio,
e le furo da lui tutte lasciate
le gemme e gli ori e ciò ch’avea di pregio.
Ella vedendo in giovanetta etate
e in leggiadri sembianti animo regio,
restò presa d’Amor, che mai non strinse
laccio di quel piú fermo onde lei cinse.
Cosí se ’l corpo libertà riebbe,
fu l’alma sempre in servitute astretta.
Ben molto a lei d’abbandonar increbbe
il signor caro e la prigion diletta;
ma l’onestà regal, che mai non debbe
da magnanima donna esser negletta,
la costrinse a partirsi, e con l’antica
madre a ricoverarsi in terra amica.
Venne a Gierusalemme, e quivi accolta
fu dal tiranno del paese ebreo;
ma tosto pianse in nere spoglie avolta
de la sua genitrice il fato reo.
Pur né ’l duol che le sia per morte tolta,
né l’essiglio infelice, unqua poteo
l’amoroso desio sveller dal core,
né favilla ammorzar di tanto ardore.
Ama ed arde la misera, e sí poco
in tale stato che sperar le avanza
che nudrisce nel sen l’occulto foco
di memoria via piú che di speranza;
e quanto è chiuso in piú secreto loco,
tanto ha l’incendio suo maggior possanza.
Tancredi al fine a risvegliar sua spene
sovra Gierusalemme ad oste viene.
Sbigottír gli altri a l’apparir di tante
nazioni, e sí indomite e sí fere;
fe’ sereno ella il torbido sembiante
e lieta vagheggiò le squadre altere,
e con avidi sguardi il caro amante
cercando gio fra quelle armate schiere.
Cercollo in van sovente ed anco spesso:
"Eccolo" disse, e ’l riconobbe espresso.
Nel palagio regal sublime sorge
antica torre assai presso a le mura,
da la cui sommità tutta si scorge
l’oste cristiana, e ’l monte e la pianura.
Quivi, da che il suo lume il sol ne porge
in sin che poi la notte il mondo oscura,
s’asside, e gli occhi verso il campo gira
e co’ pensieri suoi parla e sospira.
Quinci vide la pugna, e ’l cor nel petto
sentí tremarsi in quel punto sí forte
che parea che dicesse: "Il tuo diletto
è quegli là ch’in rischio è de la morte."
Cosí d’angoscia piena e di sospetto
mirò i successi de la dubbia sorte,
e sempre che la spada il pagan mosse,
sentí ne l’alma il ferro e le percosse.
Ma poi ch’il vero intese, e intese ancora
che dée l’aspra tenzon rinovellarsi,
insolito timor cosí l’accora
che sente il sangue suo di ghiaccio farsi.
Talor secrete lagrime e talora
sono occulti da lei gemiti sparsi:
pallida, essangue e sbigottita in atto,
lo spavento e ’l dolor v’avea ritratto.
Con orribile imago il suo pensiero
ad or ad or la turba e la sgomenta,
e via piú che la morte il sonno è fero,
sí strane larve il sogno le appresenta.
Parle veder l’amato cavaliero
lacero e sanguinoso, e par che senta
ch’egli aita le chieda; e desta intanto,
si trova gli occhi e ’l sen molle di pianto.
Né sol la tema di futuro danno
con sollecito moto il cor le scote,
ma de le piaghe ch’egli avea l’affanno
è cagion che quetar l’alma non pote;
e i fallaci romor, ch’intorno vanno,
crescon le cose incognite e remote,
sí ch’ella avisa che vicino a morte
giaccia oppresso languendo il guerrier forte.
E però ch’ella da la madre apprese
qual piú secreta sia virtú de l’erbe,
e con quai carmi ne le membra offese
sani ogni piaga e ’l duol si disacerbe
(arte che per usanza in quel paese
ne le figlie de i re par che si serbe),
vorria di sua man propria a le ferute
del suo caro signor recar salute.
Ella l’amato medicar dasia,
e curar il nemico a lei conviene;
pensa talor d’erba nocente e ria
succo sparger in lui che l’avelene,
ma schiva poi la man vergine e pia
trattar l’arti maligne, e se n’astiene.
Brama ella almen ch’in uso tal sia vòta
di sua virtude ogn’erba ed ogni nota.
Né già d’andar fra la nemica gente
temenza avria, ché peregrina era ita,
e viste guerre e stragi avea sovente,
e scorsa dubbia e faticosa vita,
sí che per l’uso la feminea mente
sovra la sua natura è fatta ardita,
e di leggier non si conturba e pave
ad ogni imagin di terror men grave.
Ma piú ch’altra cagion, dal molle seno
sgombra Amor temerario ogni paura,
e crederia fra l’ugne e fra ’l veneno
de l’africane belve andar secura;
pur se non de la vita, avere almeno
de la sua fama dée temenza e cura,
e fan dubbia contesa entro al suo core
duo potenti nemici, Onore e Amore.
L’un cosí le ragiona: "O verginella,
che le mie leggi insino ad or serbasti,
io mentre ch’eri de’ nemici ancella
ti conservai la mente e i membri casti;
e tu libera or vuoi perder la bella
verginità ch’in prigionia guardasti?
Ahi! nel tenero cor questi pensieri
chi svegliar può? che pensi, oimè? che speri?
Dunque il titolo tu d’esser pudica
sí poco stimi, e d’onestate il pregio,
che te n’andrai fra nazion nemica,
notturna amante, a ricercar dispregio?
Onde il superbo vincitor ti dica:
`Perdesti il regno, e in un l’animo regio;
non sei di me tu degna’, e ti conceda
vulgare a gli altri e mal gradita preda."
Da l’altra parte, il consiglier fallace
con tai lusinghe al suo piacer l’alletta:
"Nata non sei tu già d’orsa vorace,
né d’aspro e freddo scoglio, o giovanetta,
ch’abbia a sprezzar d’Amor l’arco e la face
ed a fuggir ognor quel che diletta,
né petto hai tu di ferro o di diamante
che vergogna ti sia l’esser amante.
Deh! vanne omai dove il desio t’invoglia.
Ma qual ti fingi vincitor crudele?
Non sai com’egli al tuo doler si doglia,
come compianga al pianto, a le querele?
Crudel sei tu, che con sí pigra voglia
movi a portar salute al tuo fedele.
Langue, o fera ed ingrata, il pio Tancredi,
e tu de l’altrui vita a cura siedi!
Sana tu pur Argante, acciò che poi
il tuo liberator sia spinto a morte:
cosí disciolti avrai gli obblighi tuoi,
e sí bel premio fia ch’ei ne riporte.
È possibil però che non t’annoi
quest’empio ministero or cosí forte
che la noia non basti e l’orror solo
a far che tu di qua te ’n fugga a volo?
Deh! ben fòra, a l’incontra, ufficio umano,
e ben n’avresti tu gioia e diletto,
se la pietosa tua medica mano
avicinassi al valoroso petto;
ché per te fatto il tuo signor poi sano
colorirebbe il suo smarrito aspetto,
e le bellezze sue, che spente or sono,
vagheggiaresti in lui quasi tuo dono.
Parte ancor poi ne le sue lodi avresti,
e ne l’opre ch’ei fèsse alte e famose,
ond’egli te d’abbracciamenti onesti
faria lieta, e di nozze aventurose.
Poi mostra a dito ed onorata andresti
fra le madri latine e fra le spose
là ne la bella Italia, ov’è la sede
del valor vero e de la vera fede."
Da tai speranze lusingata (ahi stolta!)
somma felicitate a sé figura;
ma pur si trova in mille dubbi avolta
come partir si possa indi secura,
perché vegghian le guardie e sempre in volta
van di fuori al palagio e su le mura,
né porta alcuna, in tal rischio di guerra,
senza grave cagion mai si disserra.
Soleva Erminia in compagnia sovente
de la guerriera far lunga dimora.
Seco la vide il sol da l’occidente,
seco la vide la novella aurora;
e quando son del dí le luci spente,
un sol letto le accolse ambe talora:
e null’altro pensier che l’amoroso
l’una vergine a l’altra avrebbe ascoso.
Questo sol tiene Erminia a lei secreto
e s’udita da lei talor si lagna,
reca ad altra cagion del cor non lieto
gli affetti, e par che di sua sorte piagna.
Or in tanta amistà senza divieto
venir sempre ne pote a la campagna,
né stanza al giunger suo giamai si serra,
siavi Clorinda, o sia in consiglio o ’n guerra.
Vennevi un giorno ch’ella in altra parte
si ritrovava, e si fermò pensosa,
pur tra sé rivolgendo i modi e l’arte
de la bramata sua partenza ascosa.
Mentre in vari pensier divide e parte
l’incerto animo suo che non ha posa,
sospese di Clorinda in alto mira
l’arme e le sopraveste: allor sospira.
E tra sé dice sospirando: "O quanto
beata è la fortissima donzella!
quant’io la invidio! e non l’invidio il vanto
o ’l feminil onor de l’esser bella.
A lei non tarda i passi il lungo manto,
né ’l suo valor rinchiude invida cella,
ma veste l’armi, e se d’uscirne agogna,
vassene e non la tien tema o vergogna.
Ah perché forti a me natura e ’l cielo
altrettanto non fèr le membra e ’l petto,
onde potessi anch’io la gonna e ’l velo
cangiar ne la corazza e ne l’elmetto?
Ché sí non riterrebbe arsura o gelo,
non turbo o pioggia il mio infiammato affetto,
ch’al sol non fossi ed al notturno lampo,
accompagnata o sola, armata in campo.
Già non avresti, o dispietato Argante,
co ’l mio signor pugnato tu primiero,
ch’io sarei corsa ad incontrarlo inante;
e forse or fòra qui mio prigionero
e sosterria da la nemica amante
giogo di servitú dolce e leggiero,
e già per li suoi nodi i’ sentirei
fatti soavi e alleggeriti i miei.
O vero a me da la sua destra il fianco
sendo percosso, e riaperto il core,
pur risanata in cotal guisa almanco
colpo di ferro avria piaga d’Amore;
ed or la mente in pace e ’l corpo stanco
riposariansi, e forse il vincitore
degnato avrebbe il mio cenere e l’ossa
d’alcun onor di lagrime e di fossa.
Ma lassa! i’ bramo non possibil cosa,
e tra folli pensier in van m’avolgo;
io mi starò qui timida e dogliosa
com’una pur del vil femineo volgo.
Ah! non starò: cor mio, confida ed osa.
Perch’una volta anch’io l’arme non tolgo?
perché per breve spazio non potrolle
sostener, benché sia debile e molle?
Sí potrò, sí, ché mi farà possente
a tolerarne il peso Amor tiranno,
da cui spronati ancor s’arman sovente
d’ardire i cervi imbelli e guerra fanno.
Io guerreggiar non già, vuo’ solamente
far con quest’armi un ingegnoso inganno:
finger mi vuo’ Clorinda; e ricoperta
sotto l’imagin sua, d’uscir son certa.
Non ardirieno a lei far i custodi
de l’alte porte resistenza alcuna.
Io pur ripenso, e non veggio altri modi:
aperta è, credo, questa via sol una.
Or favorisca l’innocenti frodi
Amor che le m’inspira e la Fortuna.
E ben al mio partir commoda è l’ora,
mentre co ’l re Clorinda anco dimora."
Cosí risolve; e stimolata e punta
da le furie d’Amor, piú non aspetta,
ma da quella a la sua stanza congiunta
l’arme involate di portar s’affretta.
E far lo può, ché quando ivi fu giunta,
diè loco ogn’altro, e si restò soletta;
e la notte i suoi furti ancor copria,
ch’a i ladri amica ed a gli amanti uscia.
Essa veggendo il ciel d’alcuna stella
già sparso intorno divenir piú nero,
senza fraporvi alcuno indugio appella
secretamente un suo fedel scudiero
ed una sua leal diletta ancella,
e parte scopre lor del suo pensiero.
Scopre il disegno de la fuga, e finge
ch’altra cagion a dipartir l’astringe.
Lo scudiero fedel súbito appresta
ciò ch’al lor uopo necessario crede.
Erminia intanto la pomposa vesta
si spoglia, che le scende insino al piede,
e in ischietto vestir leggiadra resta
e snella sí ch’ogni credenza eccede;
né, trattane colei ch’a la partita
scelta s’avea, compagna altra l’aita.
Co ’l durissimo acciar preme ed offende
il delicato collo e l’aurea chioma,
e la tenera man lo scudo prende,
pur troppo grave e insopportabil soma.
Cosí tutta di ferro intorno splende,
e in atto militar se stessa doma.
Gode Amor ch’è presente, e tra sé ride,
come allor già ch’avolse in gonna Alcide.
Oh! con quanta fatica ella sostiene
l’inegual peso e move lenti i passi,
ed a la fida compagnia s’attiene
che per appoggio andar dinanzi fassi.
Ma rinforzan gli spirti Amore e spene
e ministran vigore a i membri lassi,
sí che giungono al loco ove le aspetta
lo scudiero, e in arcion sagliono in fretta.
Travestiti ne vanno, e la piú ascosa
e piú riposta via prendono ad arte,
pur s’avengono in molti e l’aria ombrosa
veggon lucer di ferro in ogni parte;
ma impedir lor viaggio alcun non osa,
e cedendo il sentier ne va in disparte,
ché quel candido ammanto e la temuta
insegna anco ne l’ombra è conosciuta.
Erminia, benché quinci alquanto sceme
del dubbio suo, non va però secura,
ché d’essere scoperta a la fin teme
e del suo troppo ardir sente or paura;
ma pur, giunta a la porta, il timor preme
ed inganna colui che n’ha la cura.
"Io son Clorinda," disse "apri la porta,
ché ’l re m’invia dove l’andare importa."
La voce feminil sembiante a quella
de la guerriera agevola l’inganno
(chi crederia veder armata in sella
una de l’altre ch’arme oprar non sanno?),
sí che ’l portier tosto ubidisce, ed ella
n’esce veloce e i duo che seco vanno;
e per lor securezza entro le valli
calando prendon lunghi obliqui calli.
Ma poi ch’Erminia in solitaria ed ima
parte si vede, alquanto il corso allenta,
ch’i primi rischi aver passati estima,
né d’esser ritenuta omai paventa.
Or pensa a quello a che pensato in prima
non bene aveva; ed or le s’appresenta
difficil piú ch’a lei non fu mostrata
dal frettoloso suo desir, l’entrata.
Vede or che sotto il militar sembiante
ir tra feri nemici è gran follia;
né d’altra parte palesarsi, inante
ch’al suo signor giungesse, altrui vorria.
A lui secreta ed improvisa amante
con secura onestà giunger desia;
onde si ferma, e da miglior pensiero
fatta piú cauta parla al suo scudiero:
"Essere, o mio fedele, a te conviene
mio precursor, ma sii pronto e sagace.
Vattene al campo, e fa’ ch’alcun ti mene
e t’introduca ove Tancredi giace,
a cui dirai che donna a lui ne viene
che gli apporta salute e chiede pace:
pace, poscia ch’Amor guerra mi move,
ond’ei salute, io refrigerio trove;
e ch’essa ha in lui sí certa e viva fede
ch’in suo poter non teme onta né scorno.
Di’ sol questo a lui solo; e s’altro ei chiede,
di’ non saperlo e affretta il tuo ritorno.
Io (ché questa mi par secura sede)
in questo mezzo qui farò soggiorno."
Cosí disse la donna, e quel leale
gía veloce cosí come avesse ale.
E ’n guisa oprar sapea, ch’amicamente
entro a i chiusi ripari era raccolto,
e poi condotto al cavalier giacente,
che l’ambasciata udia con lieto volto;
e già lasciando ei lui, che ne la mente
mille dubbi pensier avea rivolto,
ne riportava a lei dolce risposta:
ch’entrar potrà, quando piú lice, ascosta.
Ma ella intanto impaziente, a cui
troppo ogni indugio par noioso e greve,
numera fra se stessa i passi altrui
e pensa: "or giunge, or entra, or tornar deve."
E già le sembra, e se ne duol, colui
men del solito assai spedito e leve.
Spingesi al fine inanti, e ’n parte ascende
onde comincia a discoprir le tende.
Era la notte, e ’l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L’innamorata donna iva co ’l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico.
Poi rimirando il campo ella dicea:
"O belle a gli occhi miei tende latine!
Aura spira da voi che mi ricrea
e mi conforta pur che m’avicine;
cosí a mia vita combattuta e rea
qualche onesto riposo il Ciel destine,
come in voi solo il cerco, e solo parmi
che trovar pace io possa in mezzo a l’armi.
Raccogliete me dunque, e in voi si trove
quella pietà che mi promise Amore
e ch’io già vidi, prigioniera altrove,
nel mansueto mio dolce signore.
Né già desio di racquistar mi move
co ’l favor vostro il mio regale onore;
quando ciò non avenga, assai felice
io mi terrò se ’n voi servir mi lice."
Cosí parla costei, che non prevede
qual dolente fortuna a lei s’appreste.
Ella era in parte ove per dritto fiede
l’armi sue terse il bel raggio celeste,
sí che da lunge il lampo lor si vede
co ’l bel candor che le circonda e veste,
e la gran tigre ne l’argento impressa
fiammeggia sí ch’ognun direbbe: "È dessa."
Come volle sua sorte, assai vicini
molti guerrier disposti avean gli aguati;
e n’eran duci duo fratei latini,
Alcandro e Poliferno, e fur mandati
per impedir che dentro a i saracini
greggie non siano e non sian buoi menati;
e se ’l servo passò, fu perché torse
piú lunge il passo e rapido trascorse.
Al giovin Poliferno, a cui fu il padre
su gli occhi suoi già da Clorinda ucciso,
viste le spoglie candide e leggiadre,
fu di veder l’alta guerriera aviso,
e contra le irritò l’occulte squadre;
né frenando del cor moto improviso
(com’era in suo furor súbito e folle)
gridò: "Sei morta", e l’asta in van lanciolle.
Sí come cerva ch’assetata il passo
mova a cercar d’acque lucenti e vive,
ove un bel fonte distillar da un sasso
o vide un fiume tra frondose rive,
s’incontra i cani allor che ’l corpo lasso
ristorar crede a l’onde, a l’ombre estive,
volge indietro fuggendo, e la paura
la stanchezza obliar face e l’arsura;
cosí costei, che de l’amor la sete,
onde l’infermo core è sempre ardente,
spegner ne l’accoglienze oneste e liete
credeva, e riposar la stanca mente,
or che contra gli vien chi glie ’l diviete,
e ’l suon del ferro e le minaccie sente,
se stessa e ’l suo desir primo abbandona
e ’l veloce destrier timida sprona.
Fugge Erminia infelice, e ’l suo destriero
con prontissimo piede il suol calpesta.
Fugge ancor l’altra donna, e lor quel fero
con molti armati di seguir non resta.
Ecco che da le tende il buon scudiero
con la tarda novella arriva in questa,
e l’altrui fuga ancor dubbio accompagna,
e gli sparge il timor per la campagna.
Ma il piú saggio fratello, il quale anch’esso
la non vera Clorinda avea veduto,
non la volle seguir, ch’era men presso,
ma ne l’insidie sue s’è ritenuto;
e mandò con l’aviso al campo un messo
che non armento od animal lanuto,
né preda altra simíl, ma ch’è seguita
dal suo german Clorinda impaurita;
e ch’ei non crede già, né ’l vuol ragione,
ch’ella, ch’è duce e non è sol guerriera,
elegga a l’uscir suo tale stagione
per opportunità che sia leggiera;
ma giudichi e comandi il pio Buglione,
egli farà ciò che da lui s’impera.
Giunge al campo tal nova, e se ne intende
il primo suon ne le latine tende.
Tancredi, cui dinanzi il cor sospese
quell’aviso primiero, udendo or questo,
pensa: "Deh! forse a me venia cortese,
e ’n periglio è per me", né pensa al resto.
E parte prende sol del grave arnese,
monta a cavallo e tacito esce e presto;
e seguendo gli indizi e l’orme nove
rapidamente a tutto corso il move.