Donne, e voi che le donne avete in pregio,
per Dio, non date a questa istoria orecchia,
a questa che l’ostier dire in dispregio
e in vostra infamia e biasmo s’apparecchia;
ben che né macchia vi può dar né fregio
lingua sì vile, e sia l’usanza vecchia
che ’l volgare ignorante ognun riprenda,
e parli più di quel che meno intenda.
Lasciate questo canto, che senza esso
può star l’istoria, e non sarà men chiara.
Mettendolo Turpino, anch’io l’ho messo,
non per malivolenza né per gara.
Ch’io v’ami, oltre mia lingua che l’ha espresso,
che mai non fu di celebrarvi avara,
n’ho fatto mille prove; e v’ho dimostro
ch’io son, né potrei esser se non vostro.
Passi, chi vuol, tre carte o quattro, senza
leggerne verso, e chi pur legger vuole,
gli dia quella medesima credenza
che si suol dare a finzioni e a fole.
Ma tornando al dir nostro, poi ch’udienza
apparecchiata vide a sue parole,
e darsi luogo incontra al cavalliero,
così l’istoria incominciò l’ostiero.
— Astolfo, re de’ Longobardi, quello
a cui lasciò il fratel monaco il regno,
fu ne la giovinezza sua sì bello,
che mai poch’altri giunsero a quel segno.
N’avria a fatica un tal fatto a penello
Apelle, o Zeusi, o se v’è alcun più degno.
Bello era, ed a ciascun così parea:
ma di molto egli ancor più si tenea.
Non stimava egli tanto per l’altezza
del grado suo, d’avere ognun minore;
né tanto, che di genti e di ricchezza,
di tutti i re vicini era il maggiore;
quanto che di presenza e di bellezza
avea per tutto ’l mondo il primo onore.
Godea di questo, udendosi dar loda,
quanto di cosa volentier più s’oda.
Tra gli altri di sua corte avea assai grato
Fausto Latini, un cavallier romano:
con cui sovente essendosi lodato
or del bel viso or de la bella mano,
ed avendolo un giorno domandato
se mai veduto avea, presso o lontano,
altro uom di forma così ben composto;
contra quel che credea, gli fu risposto.
— Dico (rispose Fausto) che secondo
ch’io veggo e che parlarne odo a ciascuno,
ne la bellezza hai pochi pari al mondo;
e questi pochi io li restringo in uno.
Quest’uno è un fratel mio, detto Iocondo.
Eccetto lui, ben crederò ch’ognuno
di beltà molto a dietro tu ti lassi;
ma questo sol credo t’adegui e passi. —
Al re parve impossibil cosa udire,
che sua la palma infin allora tenne;
e d’aver conoscenza alto desire
di sì lodato giovene gli venne.
Fe’ sì con Fausto, che di far venire
quivi il fratel prometter gli convenne;
ben ch’a poterlo indur che ci venisse,
saria fatica, e la cagion gli disse:
che ’l suo fratello era uom che mosso il piede
mai non avea di Roma alla sua vita,
che del ben che Fortuna gli concede,
tranquilla e senza affanni avea notrita:
la roba di che ’l padre il lasciò erede,
né mai cresciuta avea né minuita;
e che parrebbe a lui Pavia lontana
più che non parria a un altro ire alla Tana.
E la difficultà saria maggiore
a poterlo spiccar da la mogliere,
con cui legato era di tanto amore,
che non volendo lei, non può volere.
Pur per ubbidir lui che gli è signore,
disse d’andare e fare oltre il potere.
Giunse il re a’ prieghi tali offerte e doni,
che di negar non gli lasciò ragioni.
Partisse, e in pochi giorni ritrovosse
dentro di Roma alle paterne case.
Quivi tanto pregò, che ’l fratel mosse
sì ch’a venire al re gli persuase;
e fece ancor (ben che difficil fosse)
che la cognata tacita rimase,
proponendole il ben che n’usciria,
oltre ch’obligo sempre egli l’avria.
Fisse Iocondo alla partita il giorno:
trovò cavalli e servitori intanto;
vesti fe’ far per comparire adorno,
che talor cresce una beltà un bel manto.
La notte a lato, e ’l dì la moglie intorno,
con gli occhi ad or ad or pregni di pianto,
gli dice che non sa come patire
potrà tal lontananza e non morire;
che pensandovi sol, da la radice
sveller si sente il cor nel lato manco.
— Deh, vita mia, non piagnere (le dice
Iocondo, e seco piagne egli non manco);
così mi sia questo camin felice,
come tornar vo’ fra duo mesi almanco:
né mi faria passar d’un giorno il segno,
se mi donasse il re mezzo il suo regno. —
Né la donna perciò si riconforta:
dice che troppo termine si piglia;
e s’al ritorno non la trova morta,
esser non può se non gran maraviglia.
Non lascia il duol che giorni e notte porta,
che gustar cibo, e chiuder possa ciglia;
tal che per la pietà Iocondo spesso
si pente ch’al fratello abbia promesso.
Dal collo un suo monile ella si sciolse,
ch’una crocetta avea ricca di gemme,
e di sante reliquie che raccolse
in molti luoghi un peregrin boemme;
ed il padre di lei, ch’in casa il tolse
tornando infermo, di Ierusalemme,
venendo a morte poi ne lasciò erede:
questa levossi ed al marito diede.
E che la porti per suo amore al collo
lo prega, sì che ognor gli ne sovenga.
Piacque il dono al marito, ed accettollo;
non perché dar ricordo gli convenga:
che né tempo né assenza mai dar crollo,
né buona o ria fortuna che gli avenga,
potrà a quella memoria salda e forte
c’ha di lei sempre, e avrà dopo la morte.
La notte ch’andò inanzi a quella aurora
che fu il termine estremo alla partenza,
al suo Iocondo par ch’in braccio muora
la moglie, che n’ha tosto da star senza.
Mai non si dorme; e inanzi al giorno un’ora
viene il marito all’ultima licenza.
Montò a cavallo e si partì in effetto;
e la moglier si ricorcò nel letto.
Iocondo ancor duo miglia ito non era,
che gli venne la croce raccordata,
ch’avea sotto il guancial messo la sera,
poi per oblivion l’avea lasciata.
— Lasso! (dicea tra sé) di che maniera
troverò scusa che mi sia accettata,
che mia moglie non creda che gradito
poco da me sia l’amor suo infinito? —
Pensa la scusa, e poi gli cade in mente
che non sarà accettabile né buona,
mandi famigli, mandivi altra gente,
s’egli medesmo non vi va in persona.
Si ferma, e al fratel dice: — Or pianamente
fin a Baccano al primo albergo sprona;
che dentro a Roma è forza ch’io rivada:
e credo anco di giugnerti per strada.
Non potria fare altri il bisogno mio:
né dubitar, ch’io sarò tosto teco. —
voltò il ronzin di trotto, e disse a Dio;
né de’ famigli suoi volse alcun seco.
Già cominciava, quando passò il rio,
dinanzi al sole a fuggir l’aer cieco.
Smonta in casa, va al letto, e la consorte
quivi ritrova addormentata forte.
La cortina levò senza far motto,
e vide quel che men veder credea:
che la sua casta e fedel moglie, sotto
la coltre, in braccio a un giovene giacea.
Riconobbe l’adultero di botto,
per la pratica lunga che n’avea;
ch’era de la famiglia sua un garzone,
allevato da lui, d’umil nazione.
S’attonito restasse e malcontento,
meglio è pensarlo e farne fede altrui,
ch’esserne mai per far l’esperimento
che con suo gran dolor ne fe’ costui.
Da lo sdegno assalito, ebbe talento
di trar la spada e uccidergli ambedui:
ma da l’amor che porta, al suo dispetto,
all’ingrata moglier, gli fu interdetto.
Né lo lasciò questo ribaldo Amore
(vedi se sì l’avea fatto vasallo)
destarla pur, per non le dar dolore
che fosse da lui colta in sì gran fallo.
Quanto poté più tacito uscì fuore,
scese le scale, e rimontò a cavallo;
e punto egli d’amor, così lo punse,
ch’all’albergo non fu, che ’l fratel giunse.
Cambiato a tutti parve esser nel volto;
vider tutti che ’l cor non avea lieto:
ma non v’è chi s’apponga già di molto,
e possa penetrar nel suo secreto.
Credeano che da lor si fosse tolto
per gire a Roma, e gito era a Corneto.
Ch’amor sia del mal causa ognun s’avisa;
ma non è già chi dir sappia in che guisa.
Estimasi il fratel, che dolor abbia
d’aver la moglie sua sola lasciata;
e pel contrario duolsi egli ed arrabbia
che rimasa era troppo accompagnata.
Con fronte crespa e con gonfiate labbia
sta l’infelice, e sol la terra guata.
Fausto ch’a confortarlo usa ogni prova,
perché non sa la causa, poco giova.
Di contrario liquor la piaga gli unge,
e dove tor dovria, gli accresce doglie;
dove dovria saldar, più l’apre e punge:
questo gli fa col ricordar la moglie.
Né posa dì né notte: il sonno lunge
fugge col gusto, e mai non si raccoglie:
e la faccia, che dianzi era sì bella,
si cangia sì, che più non sembra quella.
Par che gli occhi se ascondin ne la testa;
cresciuto il naso par nel viso scarno:
de la beltà sì poca gli ne resta,
che ne potrà far paragone indarno.
Col duol venne una febbre sì molesta,
che lo fe’ soggiornar all’Arbia e all’Arno:
e se di bello avea serbata cosa,
tosto restò come al sol colta rosa.
Oltre ch’a Fausto incresca del fratello
che veggia a simil termine condutto,
via più gl’incresce che bugiardo a quello
principe, a chi lodollo, parrà in tutto:
mostrar di tutti gli uomini il più bello
gli avea promesso, e mostrerà il più brutto.
Ma pur continuando la sua via,
seco lo trasse al fin dentro a Pavia.
Già non vuol che lo vegga il re improviso,
per non mostrarsi di giudicio privo:
ma per lettere inanzi gli dà aviso
che ’l suo fratel ne viene a pena vivo;
e ch’era stato all’aria del bel viso
un affanno di cor tanto nocivo,
accompagnato da una febbre ria,
che più non parea quel ch’esser solia.
Grata ebbe la venuta di Iocondo
quanto potesse il re d’amico avere;
che non avea desiderato al mondo
cosa altretanto, che di lui vedere.
Né gli spiace vederselo secondo,
e di bellezza dietro rimanere;
ben che conosca, se non fosse il male,
che gli saria superiore o uguale.
Giunto, lo fa alloggiar nel suo palagio,
lo visita ogni giorno, ogni ora n’ode;
fa gran provision che stia con agio,
e d’onorarlo assai si studia e gode.
Langue Iocondo, che ’l pensier malvagio
c’ha de la ria moglier, sempre lo rode:
né ’l veder giochi, né musici udire,
dramma del suo dolor può minuire.
Le stanze sue, che sono appresso al tetto
l’ultime, inanzi hanno una sala antica.
Quivi solingo (perché ogni diletto,
perch’ogni compagnia prova nimica)
si ritraea, sempre aggiungendo al petto
di più gravi pensier nuova fatica:
e trovò quivi (or chi lo crederia?)
chi lo sanò de la sua piaga ria.
In capo de la sala, ove è più scuro
(che non vi s’usa le finestre aprire,)
vede che ’l palco mal si giunge al muro,
e fa d’aria più chiara un raggio uscire.
Pon l’occhio quindi, e vede quel che duro
a creder fôra a chi l’udisse dire:
non l’ode egli d’altrui, ma se lo vede;
ed anco agli occhi suoi propri non crede.
Quindi scopria de la regina tutta
la più secreta stanza e la più bella,
ove persona non verria introdutta,
se per molto fedel non l’avesse ella.
Quindi mirando vide in strana lutta
ch’un nano aviticchiato era con quella:
ed era quel piccin stato sì dotto,
che la regina avea messa di sotto.
Attonito Iocondo e stupefatto,
e credendo sognarsi, un pezzo stette;
e quando vide pur che gli era in fatto
e non in sogno, a se stesso credette.
— A uno sgrignuto mostro e contrafatto
dunque (disse) costei si sottomette,
che ’l maggior re del mondo ha per marito,
più bello e più cortese? oh che appetito! —
E de la moglie sua, che così spesso
più d’ogn’altra biasmava, ricordosse,
perché ’l ragazzo s’avea tolto appresso:
ed or gli parve che escusabil fosse.
Non era colpa sua più che del sesso,
che d’un solo uomo mai non contentosse:
e s’han tutte una macchia d’uno inchiostro,
almen la sua non s’avea tolto un mostro.
Il dì seguente, alla medesima ora,
al medesimo loco fa ritorno;
e la regina e il nano vede ancora,
che fanno al re pur il medesmo scorno.
Trova l’altro dì ancor che si lavora,
e l’altro; e al fin non si fa festa giorno:
e la regina (che gli par più strano)
sempre si duol che poco l’ami il nano.
Stette fra gli altri un giorno a veder, ch’ella
era turbata e in gran malenconia,
che due volte chiamar per la donzella
il nano fatto avea, n’ancor venìa.
Mandò la terza volta, ed udì quella,
che: — Madonna, egli giuoca (riferia);
e per non stare in perdita d’un soldo,
a voi niega venire il manigoldo. —
A sì strano spettacolo Iocondo
raserena la fronte e gli occhi e il viso;
e quale in nome, diventò giocondo
d’effetto ancora, e tornò il pianto in riso.
Allegro torna e grasso e rubicondo,
che sembra un cherubin del paradiso;
che ’l re, il fratello e tutta la famiglia
di tal mutazion si maraviglia.
Se da Iocondo il re bramava udire
onde venisse il subito conforto,
non men Iocondo lo bramava dire,
e fare il re di tanta ingiuria accorto;
ma non vorria che, più di sé, punire
volesse il re la moglie di quel torto;
sì che per dirlo e non far danno a lei,
il re fece giurar su l’agnusdei.
Giurar lo fe’ che né per cosa detta,
né che gli sia mostrata che gli spiaccia,
ancor ch’egli conosca che diretta—
mente a sua Maestà danno si faccia,
tardi o per tempo mai farà vendetta;
e di più vuole ancor che se ne taccia,
sì che né il malfattor giamai comprenda
in fatto o in detto, che ’l re il caso intenda.
Il re, ch’ogn’altra cosa, se non questa,
creder potria, gli giurò largamente.
Iocondo la cagion gli manifesta,
ond’era molti dì stato dolente:
perché trovata avea la disonesta
sua moglie in braccio d’un suo vil sergente;
e che tal pena al fin l’avrebbe morto,
se tardato a venir fosse il conforto.
Ma in casa di sua Altezza avea veduto
cosa che molto gli scemava il duolo;
che se bene in obbrobrio era caduto,
era almen certo di non v’esser solo.
Così dicendo, e al bucolin venuto,
gli dimostrò il bruttissimo omiciuolo
che la giumenta altrui sotto si tiene,
tocca di sproni e fa giuocar di schene.
Se parve al re vituperoso l’atto,
lo crederete ben, senza ch’io ’l giuri.
Ne fu per arrabbiar, per venir matto;
ne fu per dar del capo in tutti i muri;
fu per gridar, fu per non stare al patto:
ma forza è che la bocca al fin si turi,
e che l’ira trangugi amara ed acra,
poi che giurato avea su l’ostia sacra.
— Che debbo far, che mi consigli, frate,
(disse a Iocondo), poi che tu mi tolli
che con degna vendetta e crudeltate
questa giustissima ira io non satolli? —
— Lasciàn (disse Iocondo) queste ingrate,
e proviam se son l’altre così molli:
facciàn de le lor femine ad altrui
quel ch’altri de le nostre han fatto a nui.
Ambi gioveni siamo, e di bellezza,
che facilmente non troviamo pari.
Qual femina sarà che n’usi asprezza,
se contra i brutti ancor non han ripari?
Se beltà non varrà né giovinezza,
varranne almen l’aver con noi danari.
Non vo’ che torni, che non abbi prima
di mille moglie altrui la spoglia opima.
La lunga assenza, il veder vari luoghi,
praticare altre femine di fuore,
par che sovente disacerbi e sfoghi
de l’amorose passioni il core. —
Lauda il parer, né vuol che si proròghi
il re l’andata; e fra pochissime ore,
con due scudieri, oltre alla compagnia
del cavallier roman, si mette in via.
Travestiti cercaro Italia, Francia,
le terre de’ Fiaminghi e de l’Inglesi;
e quante ne vedean di bella guancia,
trovavan tutte ai prieghi lor cortesi.
Davano, e dato loro era la mancia;
e spesso rimetteano i danar spesi.
Da loro pregate foro molte, e foro
anch’altretante che pregaron loro.
In questa terra un mese, in quella dui
soggiornando, accertarsi a vera prova
che non men ne le lor, che ne l’altrui
femine, fede e castità si trova.
Dopo alcun tempo increbbe ad ambedui
di sempre procacciar di cosa nuova;
che mal poteano entrar ne l’altrui porte,
senza mettersi a rischio de la morte.
Gli è meglio una trovarne che di faccia
e di costumi ad ambi grata sia;
che lor communemente sodisfaccia,
e non n’abbin d’aver mai gelosia.
— E perché (dicea il re) vo’ che mi spiaccia
aver più te ch’un altro in compagnia?
So ben ch’in tutto il gran femineo stuolo
una non è che stia contenta a un solo.
Una, senza sforzar nostro potere,
ma quando il natural bisogno inviti,
in festa goderemoci e in piacere,
che mai contese non avren né liti.
Né credo che si debba ella dolere:
che s’anco ogn’altra avesse duo mariti,
più ch’ad un solo, a duo saria fedele;
né forse s’udirian tante querele. —
Di quel che disse il re, molto contento
rimaner parve il giovine romano.
Dunque fermati in tal proponimento,
cercar molte montagne e molto piano:
trovaro al fin, secondo il loro intento,
una figliuola d’uno ostiero ispano,
che tenea albergo al porto di Valenza,
bella di modi e bella di presenza.
Era ancor sul fiorir di primavera
sua tenerella e quasi acerba etade.
Di molti figli il padre aggravat’era,
e nimico mortal di povertade;
sì ch’a disporlo fu cosa leggiera,
che desse lor la figlia in potestade;
ch’ove piacesse lor potesson trarla,
poi che promesso avean di ben trattarla.
Pigliano la fanciulla, e piacer n’hanno
or l’un or l’altro in caritade e in pace,
come a vicenda i mantici che danno,
or l’uno or l’altro, fiato alla fornace.
Per veder tutta Spagna indi ne vanno,
e passar poi nel regno di Siface;
e ’l dì che da Valenza si partiro,
ad albergare a Zattiva veniro.
I patroni a veder strade e palazzi
ne vanno, e lochi publici e divini;
ch’usanza han di pigliar simil solazzi
in ogni terra ove entran peregrini;
e la fanciulla resta coi ragazzi.
Altri i letti, altri acconciano i ronzini,
altri hanno cura che sia alla tornata
dei signor lor la cena apparecchiata.
Ne l’albergo un garzon stava per fante,
ch’in casa de la giovene già stette
a’ servigi del padre, e d’essa amante
fu da’ primi anni, e del suo amor godette.
Ben s’adocchiar, ma non ne fer sembiante,
ch’esser notato ognun di lor temette:
ma tosto ch’i patroni e la famiglia
lor dieron luogo, alzar tra lor le ciglia.
Il fante domandò dove ella gisse,
e qual dei duo signor l’avesse seco.
A punto la Fiammetta il fatto disse
(così avea nome, e quel garzone il Greco).
— Quando sperai che ’l tempo ohimè! venisse
(il Greco le dicea) di viver teco,
Fiammetta, anima mia, tu te ne vai,
e non so più di rivederti mai.
Fannosi i dolci miei disegni amari,
poi che sei d’altri, e tanto mi ti scosti.
Io disegnava, avendo alcun’ danari
con gran fatica e gran sudor riposti,
ch’avanzato m’avea de’ miei salari
e de le bene andate di molti osti,
di tornare a Valenza, e domandarti
al padre tuo per moglie, e di sposarti. —
La fanciulla negli omeri si stringe,
e risponde che fu tardo a venire.
Piange il Greco e sospira, e parte finge:
— Vuommi (dice) lasciar così morire?
Con le tuo braccia i fianchi almen mi cinge,
lasciami disfogar tanto desire:
ch’inanzi che tu parta, ogni momento
che teco io stia mi fa morir contento. —
La pietosa fanciulla rispondendo:
— Credi (dicea) che men di te nol bramo;
ma né luogo né tempo ci comprendo
qui, dove in mezzo di tanti occhi siamo. —
Il Greco soggiungea: — Certo mi rendo,
che s’un terzo ami me di quel ch’io t’amo,
in questa notte almen troverai loco
che ci potren godere insieme un poco. —
— Come potrò (diceagli la fanciulla),
che sempre in mezzo a duo la notte giaccio?
e meco or l’uno or l’altro si trastulla,
e sempre a l’un di lor mi trovo in braccio? —
— Questo ti fia (suggiunse il Greco) nulla;
che ben ti saprai tor di questo impaccio,
e uscir di mezzo lor, pur che tu voglia:
e déi voler, quando di me ti doglia. —
Pensa ella alquanto, e poi dice che vegna
quando creder potrà ch’ognuno dorma;
e pianamente come far convegna,
e de l’andare e del tornar l’informa.
Il Greco, sì come ella gli disegna,
quando sente dormir tutta la torma,
viene all’uscio e lo spinge, e quel gli cede:
entra pian piano, e va a tenton col piede.
Fa lunghi i passi, e sempre in quel di dietro
tutto si ferma, e l’altro par che muova
a guisa che di dar tema nel vetro,
non che ’l terreno abbia a calcar, ma l’uova;
e tien la mano inanzi simil metro,
va brancolando infin che ’l letto trova:
e di là dove gli altri avean le piante,
tacito si cacciò col capo inante.
Fra l’una e l’altra gamba di Fiammetta,
che supina giacea, diritto venne;
e quando le fu a par, l’abbracciò stretta,
e sopra lei sin presso al dì si tenne.
Cavalcò forte, e non andò a staffetta;
che mai bestia mutar non gli convenne:
che questa pare a lui che sì ben trotte,
che scender non ne vuol per tutta notte.
Avea Iocondo ed avea il re sentito
il calpestio che sempre il letto scosse;
e l’uno e l’altro, d’uno error schernito,
s’avea creduto che ’l compagno fosse.
Poi ch’ebbe il Greco il suo camin fornito,
sì come era venuto, anco tornosse.
Saettò il sol da l’orizzonte i raggi;
sorse Fiammetta, e fece entrare i paggi.
Il re disse al compagno motteggiando:
— Frate, molto camin fatto aver déi;
e tempo è ben che ti riposi, quando
stato a cavallo tutta notte sei. —
Iocondo a lui rispose di rimando,
e disse: — Tu di’ quel ch’io a dire avrei.
A te tocca posare, e pro ti faccia,
che tutta notte hai cavalcato a caccia. —
— Anch’io (suggiunse il re) senza alcun fallo
lasciato avria il mio can correre un tratto,
se m’avessi prestato un po’ il cavallo,
tanto che ’l mio bisogno avessi fatto. —
Iocondo replicò: — Son tuo vasallo,
e puoi far meco e rompere ogni patto:
sì che non convenia tal cenni usare;
ben mi potevi dir: lasciala stare. —
Tanto replica l’un, tanto soggiunge
l’altro, che sono a grave lite insieme.
Vengon da’ motti ad un parlar che punge,
ch’ad amenduo l’esser beffato preme.
Chiaman Fiammetta (che non era lunge,
e de la fraude esser scoperta teme)
per fare in viso l’uno all’altro dire
quel che negando ambi parean mentire.
— Dimmi (le disse il re con fiero sguardo),
e non temer di me né di costui;
chi tutta notte fu quel sì gagliardo,
che ti godé senza far parte altrui? —
Credendo l’un provar l’altro bugiardo,
la risposta aspettavano ambedui.
Fiammetta a’ piedi lor si gittò, incerta
di viver più, vedendosi scoperta.
Domandò lor perdono, che d’amore
ch’a un giovinetto avea portato, spinta,
e da pietà d’un tormentato core
che molto avea per lei patito, vinta,
caduta era la notte in quello errore;
e seguitò, senza dir cosa finta,
come tra lor con speme si condusse,
ch’ambi credesson che ’l compagno fusse.
Il re e Iocondo si guardaro in viso,
di maraviglia e di stupor confusi;
né d’aver anco udito lor fu aviso,
ch’altri duo fusson mai così delusi.
Poi scoppiaro ugualmente in tanto riso,
che con la bocca aperta e gli occhi chiusi,
potendo a pena il fiato aver del petto,
a dietro si lasciar cader sul letto.
Poi ch’ebbon tanto riso, che dolere
se ne sentiano il petto, e pianger gli occhi,
disson tra lor: — Come potremo avere
guardia, che la moglier non ne l’accocchi,
se non giova tra duo questa tenere,
e stretta sì, che l’uno e l’altro tocchi?
Se più che crini avesse occhi il marito,
non potria far che non fosse tradito.
Provate mille abbiamo, e tutte belle;
né di tante una è ancor che ne contraste.
Se provian l’altre, fian simili anch’elle;
ma per ultima prova costei baste.
Dunque possiamo creder che più felle
non sien le nostre, o men de l’altre caste:
e se son come tutte l’altre sono,
che torniamo a godercile fia buono. —
Conchiuso ch’ebbon questo, chiamar fero
per Fiammetta medesima il suo amante;
e in presenza di molti gli la diero
per moglie, e dote gli fu bastante.
Poi montaro a cavallo, e il lor sentiero
ch’era a ponente, volsero a levante;
ed alle mogli lor se ne tornaro,
di ch’affanno mai più non si pigliaro. —
L’ostier qui fine alla sua istoria pose,
che fu con molta attenzione udita.
Udilla il Saracin, né gli rispose
parola mai, fin che non fu finita.
Poi disse: — Io credo ben che de l’ascose
feminil frode sia copia infinita;
né si potria de la millesma parte
tener memoria con tutte le carte. —
Quivi era un uom d’età, ch’avea più retta
opinion degli altri, e ingegno e ardire;
e non potendo ormai, che sì negletta
ogni femina fosse, più patire,
si volse a quel ch’avea l’istoria detta,
e gli disse: — Assai cose udimo dire,
che veritade in sé non hanno alcuna:
e ben di queste è la tua favola una.
A chi te la narrò non do credenza,
s’evangelista ben fosse nel resto;
ch’opinione, più ch’esperienza
ch’abbia di donne, lo facea dir questo.
L’avere ad una o due malivolenza,
fa ch’odia e biasma l’altre oltre all’onesto;
ma se gli passa l’ira, io vo’ tu l’oda,
più ch’ora biasmo, anco dar lor gran loda.
E se vorrà lodarne, avrà maggiore
il campo assai, ch’a dirne mal non ebbe:
di cento potrà dir degne d’onore
verso una trista che biasmar si debbe.
Non biasmar tutte, ma serbarne fuore
la bontà d’infinite si dovrebbe;
e se ’l Valerio tuo disse altrimente,
disse per ira, e non per quel che sente.
Ditemi un poco: è di voi forse alcuno
ch’abbia servato alla sua moglie fede?
che nieghi andar, quando gli sia oportuno,
all’altrui donna, e darle ancor mercede?
credete in tutto ’l mondo trovarne uno?
chi ’l dice, mente; e folle è ben chi ’l crede.
Trovatene vo’ alcuna che vi chiami?
(non parlo de le publiche ed infami).
Conoscete alcun voi, che non lasciasse
la moglie sola, ancor che fosse bella,
per seguire altra donna, se sperasse
in breve e facilmente ottener quella?
Che farebbe egli, quando lo pregasse
o desse premio a lui donna o donzella?
Credo, per compiacere or queste or quelle,
che tutti lasciaremmovi la pelle.
Quelle che i lor mariti hanno lasciati,
le più volte cagione avuta n’hanno.
Del suo di casa, li veggon svogliati,
e che fuor, de l’altrui bramosi, vanno.
Dovriano amar, volendo essere amati,
e tor con la misura ch’a lor danno.
Io farei (se a me stesse il darla e torre)
tal legge, ch’uom non vi potrebbe opporre.
Saria la legge, ch’ogni donna colta
in adulterio, fosse messa a morte,
se provar non potesse ch’una volta
avesse adulterato il suo consorte:
se provar lo potesse, andrebbe asciolta,
né temeria il marito né la corte.
Cristo ha lasciato nei precetti suoi:
non far altrui quel che patir non vuoi.
La incontinenza è quanto mal si puote
imputar lor, non già a tutto lo stuolo.
Ma in questo chi ha di noi più brutte note?
che continente non si trova un solo.
E molto più n’ha ad arrossir le gote,
quando bestemmia, ladroneccio, dolo,
usura ed omicidio, e se v’è peggio,
raro, se non dagli uomini, far veggio. —
Appresso alle ragioni avea il sincero
e giusto vecchio in pronto alcuno esempio
di donne, che né in fatto né in pensiero
mai di lor castità patiron scempio.
Ma il Saracin, che fuggia udire il vero,
lo minacciò con viso crudo ed empio,
sì che lo fece per timor tacere;
ma già non lo mutò di suo parere.
Posto ch’ebbe alle liti e alle contese
termine il re pagan, lasciò la mensa;
indi nel letto per dormir si stese
fin al partir de l’aria scura e densa:
ma de la notte, a sospirar l’offese
più de la donna ch’a dormir, dispensa.
Quindi parte all’uscir del nuovo raggio,
e far disegna in nave il suo viaggio.
Però ch’avendo tutto quel rispetto
ch’a buon cavallo dee buon cavalliero,
a quel suo bello e buono, ch’a dispetto
tenea di Sacripante e di Ruggiero;
vedendo per duo giorni averlo stretto
più che non si dovria sì buon destriero,
lo pon, per riposarlo, e lo rassetta
in una barca, e per andar più in fretta.
Senza indugio al nocchier varar la barca,
e dar fa i remi all’acqua da la sponda.
Quella, non molto grande e poco carca,
se ne va per la Sonna giù a seconda.
Non fugge il suo pensier né se ne scarca
Rodomonte per terra né per onda:
lo trova in su la proda e in su la poppa;
e se cavalca, il porta dietro in groppa.
Anzi nel capo, o sia nel cor gli siede,
e di fuor caccia ogni conforto e serra.
Di ripararsi il misero non vede,
da poi che gli nimici ha ne la terra.
Non sa da chi sperar possa mercede,
se gli fanno i domestici suoi guerra:
la notte e ’l giorno e sempre è combattuto
da quel crudel che dovria dargli aiuto.
Naviga il giorno e la notte seguente
Rodomonte col cor d’affanni grave;
e non si può l’ingiuria tor di mente,
che da la donna e dal suo re avuto have;
e la pena e il dolor medesmo sente,
che sentiva a cavallo, ancora in nave:
né spegner può, per star ne l’acqua, il fuoco,
né può stato mutar, per mutar loco.
Come l’infermo, che dirotto e stanco
di febbre ardente, va cangiando lato;
o sia su l’uno o sia su l’altro fianco
spera aver, se si volge, miglior stato;
né sul destro riposa né sul manco,
e per tutto ugualmente è travagliato:
così il pagano al male ond’era infermo
mal trova in terra e male in acqua schermo.
Non puote in nave aver più pazienza,
e si fa porre in terra Rodomonte.
Lion passa e Vienna, indi Valenza
e vede in Avignone il ricco ponte;
che queste terre ed altre ubidienza,
che son tra il fiume e ’l celtibero monte,
rendean al re Agramante e al re di Spagna
dal dì che fur signor de la campagna.
Verso Acquamorta a man dritta si tenne
con animo in Algier passare in fretta;
e sopra un fiume ad una villa venne
e da Bacco e da Cerere diletta,
che per le spesse ingiurie, che sostenne
dai soldati, a votarsi fu costretta.
Quinci il gran mare, e quindi ne l’apriche
valli vede ondeggiar le bionde spiche.
Quivi ritrova una piccola chiesa
di nuovo sopra un monticel murata,
che poi ch’intorno era la guerra accesa,
i sacerdoti vota avean lasciata.
Per stanza fu da Rodomonte presa;
che pel sito, e perch’era sequestrata
dai campi, onde avea in odio udir novella,
gli piacque sì, che mutò Algieri in quella.
Mutò d’andare in Africa pensiero,
sì commodo gli parve il luogo e bello.
Famigli e carriaggi e il suo destriero
seco alloggiar fe’ nel medesmo ostello.
Vicino a poche leghe a Mompoliero
e ad alcun altro ricco e buon castello
siede il villaggio allato alla riviera;
sì che d’avervi ogn’agio il modo v’era.
Standovi un giorno il Saracin pensoso
(come pur era il più del tempo usato),
vide venir per mezzo un prato erboso,
che d’un piccol sentiero era segnato,
una donzella di viso amoroso
in compagnia d’un monaco barbato;
e si traeano dietro un gran destriero
sotto una soma coperta di nero.
Chi la donzella, chi ’l monaco sia,
chi portin seco, vi debbe esser chiaro.
Conoscere Issabella si dovria,
che ’l corpo avea del suo Zerbino caro.
Lasciai che vêr Provenza ne venìa
sotto la scorta del vecchio preclaro,
che le avea persuaso tutto il resto
dicare a Dio del suo vivere onesto.
Come ch’in viso pallida e smarrita
sia la donzella ed abbia i crini inconti;
e facciano i sospir continua uscita
del petto acceso, e gli occhi sien duo fonti;
ed altri testimoni d’una vita
misera e grave in lei si veggan pronti;
tanto però di bello anco le avanza,
che con le Grazie Amor vi può aver stanza.
Tosto che ’l Saracin vide la bella
donna apparir, messe il pensiero al fondo,
ch’avea di biasmar sempre e d’odiar quella
schiera gentil che pur adorna il mondo.
E ben gli par dignissima Issabella,
in cui locar debba il suo amor secondo,
e spenger totalmente il primo, a modo
che da l’asse si trae chiodo con chiodo.
Incontra se le fece, e col più molle
parlar che seppe, e col miglior sembiante,
di sua condizione domandolle;
ed ella ogni pensier gli spiegò inante;
come era per lasciare il mondo folle,
e farsi amica a Dio con opre sante.
Ride il pagano altier ch’in Dio non crede,
d’ogni legge nimico e d’ogni fede.
E chiama intenzione erronea e lieve,
e dice che per certo ella troppo erra;
né men biasmar che l’avaro si deve,
che ’l suo ricco tesor metta sotterra:
alcuno util per sé non ne riceve,
e da l’uso degli altri uomini il serra.
Chiuder leon si denno, orsi e serpenti,
e non le cose belle ed innocenti.
Il monaco, ch’a questo avea l’orecchia,
e per soccorrer la giovane incauta,
che ritratta non sia per la via vecchia,
sedea al governo qual pratico nauta,
quivi di spiritual cibo apparecchia
tosto una mensa sontuosa e lauta.
Ma il Saracin, che con mal gusto nacque,
non pur la saporò, che gli dispiacque:
e poi ch’invano il monaco interroppe,
e non poté mai far sì che tacesse,
e che di pazienza il freno roppe,
le mani adosso con furor gli messe.
Ma le parole mie parervi troppe
potriano omai, se più se ne dicesse:
sì che finirò il canto; e mi fia specchio
quel che per troppo dire accade al vecchio.