Magnanimo Signore, ogni vostro atto
ho sempre con ragion laudato e laudo:
ben che col rozzo stil duro e mal atto
gran parte de la gloria vi defraudo.
Ma più de l’altre una virtù m’ha tratto,
a cui col core e con la lingua applaudo;
che s’ognun truova in voi ben grata udienza,
non vi truova però facil credenza.
Spesso in difesa del biasmato assente
indur vi sento una ed un’altra scusa,
o riserbargli almen, fin che presente
sua causa dica, l’altra orecchia chiusa;
e sempre, prima che dannar la gente,
vederla in faccia, e udir la ragion ch’usa;
differir anco e giorni e mesi ed anni,
prima che giudicar negli altrui danni.
Se Norandino il simil fatto avesse,
fatto a Grifon non avria quel che fece.
A voi utile e onor sempre successe:
denigrò sua fama egli più che pece.
Per lui sue genti a morte furon messe;
che fe’ Grifone in dieci tagli, e in diece
punte che trasse pien d’ira e bizzarro,
che trenta ne cascaro appresso al carro.
Van gli altri in rotta ove il timor li caccia,
chi qua chi là, pei campi e per le strade;
e chi d’entrar ne la città procaccia,
e l’un su l’altro ne la porta cade.
Grifon non fa parole e non minaccia;
ma lasciando lontana ogni pietade,
mena tra il vulgo inerte il ferro intorno,
e gran vendetta fa d’ogni suo scorno.
Di quei che primi giunsero alla porta,
che le piante a levarsi ebbeno pronte,
parte, al bisogno suo molto più accorta
che degli amici, alzò subito il ponte;
piangendo parte, o con la faccia smorta
fuggendo andò senza mai volger fronte,
e ne la terra per tutte le bande
levò grido e tumulto e rumor grande.
Grifon gagliardo duo ne piglia in quella
che ’l ponte si levò per lor sciagura.
Sparge de l’uno al campo le cervella;
che lo percuote ad una cote dura:
prende l’altro nel petto, e l’arrandella
in mezzo alla città sopra le mura.
Scorse per l’ossa ai terrazzani il gelo,
quando vider colui venir dal cielo.
Fur molti che temer che ’l fier Grifone
sopra le mura avesse preso un salto.
Non vi sarebbe più confusione,
s’a Damasco il soldan desse l’assalto.
Un muover d’arme, un correr di persone,
e di talacimanni un gridar d’alto,
e di tamburi un suon misto e di trombe
il mondo assorda, e ’l ciel par ne rimbombe.
Ma voglio a un’altra volta differire
a ricontar ciò che di questo avenne.
Del buon re Carlo mi convien seguire,
che contra Rodomonte in fretta venne,
il qual le genti gli facea morire.
Io vi dissi ch’al re compagnia tenne
il gran Danese e Namo ed Oliviero
e Avino e Avolio e Otone e Berlingiero.
Otto scontri di lance, che da forza
di tali otto guerrier cacciati foro,
sostenne a un tempo la scagliosa scorza
di ch’avea armato il petto il crudo Moro.
Come legno si drizza, poi che l’orza
lenta il nochier che crescer sente il Coro,
così presto rizzossi Rodomonte
dai colpi che gittar doveano un monte.
Guido, Ranier, Ricardo, Salamone,
Ganelon traditor, Turpin fedele,
Angioliero, Angiolino, Ughetto, Ivone,
Marco e Matteo dal pian di san Michele,
e gli otto di che dianzi fei menzione,
son tutti intorno al Saracin crudele,
Arimanno e Odoardo d’Inghilterra,
ch’entrati eran pur dianzi ne la terra.
Non così freme in su lo scoglio alpino
di ben fondata rocca alta parete,
quando il furor di borea o di garbino
svelle dai monti il frassino e l’abete;
come freme d’orgoglio il Saracino,
di sdegno acceso e di sanguigna sete:
e com’a un tempo è il tuono e la saetta,
così l’ira de l’empio e la vendetta.
Mena alla testa a quel che gli è più presso,
che gli è il misero Ughetto di Dordona:
lo pone in terra insino ai denti fesso,
come che l’elmo era di tempra buona.
Percosso fu tutto in un tempo anch’esso
da molti colpi in tutta la persona;
ma non gli fan più ch’all’incude l’ago:
sì duro intorno ha lo scaglioso drago.
Furo tutti i ripar, fu la cittade
d’intorno intorno abandonata tutta;
che la gente alla piazza, dove accade
maggior bisogno, Carlo avea ridutta.
Corre alla piazza da tutte le strade
la turba, a chi il fuggir sì poco frutta.
La persona del re sì i cori accende,
ch’ognun prend’arme, ognuno animo prende.
Come se dentro a ben rinchiusa gabbia
d’antiqua leonessa usata in guerra,
perch’averne piacere il popul abbia,
talvolta il tauro indomito si serra;
i leoncin che veggion per la sabbia
come altiero e mugliando animoso erra,
e veder sì gran corna non son usi,
stanno da parte timidi e confusi:
ma se la fiera madre a quel si lancia,
e ne l’orecchio attacca il crudel dente,
vogliono anch’essi insanguinar la guancia,
e vengono in soccorso arditamente;
chi morde al tauro il dosso e chi la pancia:
così contra il pagan fa quella gente.
Da tetti e da finestre e più d’appresso
sopra gli piove un nembo d’arme e spesso.
Dei cavallieri e de la fanteria
tanta è la calca, ch’a pena vi cape.
La turba che vi vien per ogni via,
v’abbonda ad or ad or spessa come ape;
che quando, disarmata e nuda, sia
più facile a tagliar che torsi o rape,
non la potria, legata a monte a monte,
in venti giorni spenger Rodomonte.
Al pagan, che non sa come ne possa
venir a capo, omai quel gioco incresce.
Poco, per far di mille, o di più, rossa
la terra intorno, il populo discresce.
Il fiato tuttavia più se gl’ingrossa,
sì che comprende al fin che, se non esce
or c’ha vigore e in tutto il corpo è sano,
vorrà da tempo uscir, che sarà invano.
Rivolge gli occhi orribili, e pon mente
che d’ogn’intorno sta chiusa l’uscita;
ma con ruina d’infinita gente
l’aprirà tosto, e la farà espedita.
Ecco, vibrando la spada tagliente,
che vien quel empio, ove il furor lo ’nvita,
ad assalire il nuovo stuol britanno,
che vi trasse Odoardo ed Arimanno.
Chi ha visto in piazza rompere steccato,
a cui la folta turba ondeggi intorno,
immansueto tauro accaneggiato,
stimulato e percosso tutto ’l giorno;
che ’l popul se ne fugge ispaventato,
ed egli or questo or quel leva sul corno:
pensi che tale o più terribil fosse
il crudele African quando si mosse.
Quindici o venti ne tagliò a traverso,
altritanti lasciò del capo tronchi,
ciascun d’un colpo sol dritto o riverso;
che viti o salci par che poti e tronchi.
Tutto di sangue il fier pagano asperso,
lasciando capi fessi e bracci monchi,
e spalle e gambe ed altre membra sparte,
ovunque il passo volga, al fin si parte.
De la piazza si vede in guisa torre,
che non si può notar ch’abbia paura;
ma tuttavolta col pensier discorre,
dove sia per uscir via più sicura.
Capita al fin dove la Senna corre
sotto all’isola, e va fuor de le mura.
La gente d’arme e il popul fatto audace
lo stringe e incalza, e gir nol lascia in pace.
Qual per le selve nomade o massile
cacciata va la generosa belva,
ch’ancor fuggendo mostra il cor gentile,
e minacciosa e lenta si rinselva;
tal Rodomonte, in nessun atto vile,
da strana circondato e fiera selva
d’aste e di spade e di volanti dardi,
si tira al fiume a passi lunghi e tardi.
E sì tre volte e più l’ira il sospinse,
ch’essendone già fuor, vi tornò in mezzo,
ove di sangue la spada ritinse,
e più di cento ne levò di mezzo.
Ma la ragione al fin la rabbia vinse
di non far sì, ch’a Dio n’andasse il lezzo;
e da la ripa, per miglior consiglio,
si gittò all’acqua, e uscì di gran periglio.
Con tutte l’arme andò per mezzo l’acque,
come s’intorno avesse tante galle.
Africa, in te pare a costui non nacque,
ben che d’Anteo ti vanti e d’Anniballe.
Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque,
che si vide restar dopo le spalle
quella città ch’avea trascorsa tutta,
e non l’avea tutta arsa né distrutta.
E sì lo rode la superbia e l’ira,
che, per tornarvi un’altra volta, guarda,
e di profondo cor geme e sospira,
né vuolne uscir, che non la spiani ed arda.
Ma lungo il fiume, in questa furia, mira
venir chi l’odio estingue e l’ira tarda.
Chi fosse io vi farò ben tosto udire;
ma prima un’altra cosa v’ho da dire.
Io v’ho da dir de la Discordia altiera,
a cui l’angel Michele avea commesso
ch’a battaglia accendesse e a lite fiera
quei che più forti avea Agramante appresso.
Uscì de’ frati la medesma sera,
avendo altrui l’ufficio suo commesso:
lasciò la Fraude a guerreggiare il loco,
fin che tornasse, e a mantenervi il fuoco.
E le parve ch’andria con più possanza,
se la Superbia ancor seco menasse;
e perché stavan tutte in una stanza,
non fu bisogno ch’a cercar l’andasse.
La Superbia v’andò, ma non che sanza
la sua vicaria il monaster lasciasse:
per pochi dì che credea starne assente,
lasciò l’Ipocrisia locotenente.
L’implacabil Discordia in compagnia
de la Superbia si messe in camino,
e ritrovò che la medesma via
facea, per gire al campo saracino,
l’afflitta e sconsolata Gelosia;
e venìa seco un nano piccolino,
il qual mandava Doralice bella
al re di Sarza a dar di sé novella.
Quando ella venne a Mandricardo in mano
(ch’io v’ho già raccontato e come e dove),
tacitamente avea commesso al nano,
che ne portasse a questo re le nuove.
Ella sperò che nol saprebbe invano,
ma che far si vedria mirabil pruove,
per riaverla con crudel vendetta
da quel ladron che gli l’avea intercetta.
La Gelosia quel nano avea trovato;
e la cagion del suo venir compresa,
a caminar se gli era messa allato,
parendo d’aver luogo a questa impresa.
Alla Discordia ritrovar fu grato
la Gelosia; ma più quando ebbe intesa
la cagion del venir, che le potea
molto valere in quel che far volea.
D’inimicar con Rodomonte il figlio
del re Agrican le pare aver suggetto:
troverà a sdegnar gli altri altro consiglio;
a sdegnar questi duo questo è perfetto.
Col nano se ne vien dove l’artiglio
del fier pagano avea Parigi astretto;
e capitaro a punto in su la riva,
quando il crudel del fiume a nuoto usciva.
Tosto che riconobbe Rodomonte
costui de la sua donna esser messaggio,
estinse ogn’ira, e serenò la fronte,
e si sentì brillar dentro il coraggio.
Ogn’altra cosa aspetta che gli conte,
prima ch’alcuno abbia a lei fatto oltraggio.
Va contra il nano, e lieto gli domanda:
— Ch’è de la donna nostra? ove ti manda? —
Rispose il nano: — Né più tua né mia
donna dirò quella ch’è serva altrui.
Ieri scontrammo un cavallier per via,
che ne la tolse, e la menò con lui. —
A quello annunzio entrò la Gelosia,
fredda come aspe, ed abbracciò costui.
Seguita il nano, e narragli in che guisa
un sol l’ha presa, e la sua gente uccisa.
L’acciaio allora la Discordia prese,
e la pietra focaia, e picchiò un poco,
e l’esca sotto la Superbia stese,
e fu attaccato in un momento il fuoco;
e sì di questo l’anima s’accese
del Saracin, che non trovava loco:
sospira e freme con sì orribil faccia,
che gli elementi e tutto il ciel minaccia.
Come la tigre, poi ch’invan discende
nel voto albergo, e per tutto s’aggira,
e i cari figli all’ultimo comprende
essergli tolti, avampa di tant’ira,
a tanta rabbia, a tal furor s’estende,
che né a monte né a rio né a notte mira;
né lunga via, né grandine raffrena
l’odio che dietro al predator la mena:
così furendo il Saracin bizzarro
si volge al nano, e dice: — Or là t’invia; —
e non aspetta né destrier né carro,
e non fa motto alla sua compagnia.
Va con più fretta che non va il ramarro,
quando il ciel arde, a traversar la via.
Destrier non ha, ma il primo tor disegna,
sia di chi vuol, ch’ad incontrar lo vegna.
La Discordia ch’udì questo pensiero,
guardò, ridendo, la Superbia, e disse
che volea gire a trovare un destriero
che gli apportasse altre contese e risse;
e far volea sgombrar tutto il sentiero,
ch’altro che quello in man non gli venisse:
e già pensato avea dove trovarlo.
Ma costei lascio, e torno a dir di Carlo.
Poi ch’al partir del Saracin si estinse
Carlo d’intorno il periglioso fuoco,
tutte le genti all’ordine ristrinse.
Lascionne parte in qualche debol loco:
adosso il resto ai Saracini spinse,
per dar lor scacco, e guadagnarsi il giuoco;
e gli mandò per ogni porta fuore,
da San Germano infin a San Vittore.
E commandò ch’a porta San Marcello,
dov’era gran spianata di campagna,
aspettasse l’un l’altro, e in un drappello
si ragunasse tutta la compagna.
Quindi animando ognuno a far macello
tal, che sempre ricordo ne rimagna,
ai lor ordini andar fe’ le bandiere,
e di battaglia dar segno alle schiere.
Il re Agramante in questo mezzo in sella,
mal grado dei cristian, rimesso s’era;
e con l’inamorato d’Isabella
facea battaglia perigliosa e fiera:
col re Sobrin Lurcanio si martella:
Rinaldo incontra avea tutta una schiera;
e con virtude e con fortuna molta
l’urta, l’apre, ruina e mette in volta.
Essendo la battaglia in questo stato,
l’imperatore assalse il retroguardo
dal canto ove Marsilio avea fermato
il fior di Spagna intorno al suo stendardo.
Con fanti in mezzo e cavallieri allato,
re Carlo spinse il suo popul gagliardo
con tal rumor di timpani e di trombe,
che tutto ’l mondo par che ne rimbombe.
Cominciavan le schiere a ritirarse
de’ Saracini, e si sarebbon volte
tutte a fuggir, spezzate, rotte e sparse,
per mai più non potere esser raccolte;
ma ’l re Grandonio e Falsiron comparse,
che stati in maggior briga eran più volte,
e Balugante e Serpentin feroce,
e Ferraù che lor dicea a gran voce:
— Ah (dicea) valentuomini, ah compagni,
ah fratelli, tenete il luogo vostro.
I nimici faranno opra di ragni,
se non manchiamo noi del dover nostro.
Guardate l’alto onor, gli ampli guadagni
che Fortuna, vincendo, oggi ci ha mostro:
guardate la vergogna e il danno estremo,
ch’essendo vinti, a patir sempre avremo. —
Tolto in quel tempo una gran lancia avea,
e contra Berlingier venne di botto,
che sopra Largaliffa combattea,
e l’elmo ne la fronte gli avea rotto:
gittollo in terra, e con la spada rea
appresso a lui ne fe’ cader forse otto.
Per ogni botta almanco, che disserra,
cader fa sempre un cavalliero in terra.
In altra parte ucciso avea Rinaldo
tanti pagan, ch’io non potrei contarli.
Dinanzi a lui non stava ordine saldo:
vedreste piazza in tutto ’l campo darli.
Non men Zerbin, non men Lurcanio è caldo:
per modo fan, ch’ognun sempre ne parli:
questo di punta avea Balastro ucciso,
e quello a Finadur l’elmo diviso.
L’esercito d’Alzerbe avea il primiero,
che poco inanzi aver solea Tardocco;
l’altro tenea sopra le squadre impero
di Zamor e di Saffi e di Marocco.
— Non è tra gli Africani un cavalliero
che di lancia ferir sappia o di stocco? —
mi si potrebbe dir: ma passo passo
nessun di gloria degno a dietro lasso.
Del re de la Zumara non si scorda
il nobil Dardinel figlio d’Almonte,
che con la lancia Uberto da Mirforda,
Claudio dal Bosco, Elio e Dulfin dal Monte,
e con la spada Anselmo da Stanforda,
e da Londra Raimondo e Pinamonte
getta per terra (ed erano pur forti),
dui storditi, un piagato, e quattro morti.
Ma con tutto ’l valor che di sé mostra,
non può tener sì ferma la sua gente,
sì ferma, ch’aspettar voglia la nostra
di numero minor, ma più valente.
Ha più ragion di spada e più di giostra
e d’ogni cosa a guerra appertinente.
Fugge la gente maura, di Zumara,
di Setta, di Marocco e di Canara.
Ma più degli altri fuggon quei d’Alzerbe,
a cui s’oppose il nobil giovinetto;
ed or con prieghi, or con parole acerbe
ripor lor cerca l’animo nel petto.
— S’Almonte meritò ch’in voi si serbe
di lui memoria, or ne vedrò l’effetto:
io vedrò (dicea lor) se me, suo figlio,
lasciar vorrete in così gran periglio.
State, vi priego per mia verde etade,
in cui solete aver sì larga speme:
deh non vogliate andar per fil di spade,
ch’in Africa non torni di noi seme.
Per tutto ne saran chiuse le strade,
se non andiam raccolti e stretti insieme:
troppo alto muro e troppo larga fossa
è il monte e il mar, pria che tornar si possa.
Molto è meglio morir qui, ch’ai supplici
darsi e alla discrezion di questi cani.
State saldi, per Dio, fedeli amici;
che tutti son gli altri rimedi vani.
Non han di noi più vita gli nimici;
più d’un’alma non han, più di due mani. —
Così dicendo, il giovinetto forte
al conte d’Otonlei diede la morte.
Il rimembrare Almonte così accese
l’esercito african che fuggia prima,
che le braccia e le mani in sue difese
meglio, che rivoltar le spalle, estima.
Guglielmo da Burnich era uno Inglese
maggior di tutti, e Dardinello il cima,
e lo pareggia agli altri; e apresso taglia
il capo ad Aramon di Cornovaglia.
Morto cadea questo Aramone a valle;
e v’accorse il fratel per dargli aiuto:
ma Dardinel l’aperse per le spalle
fin giù dove lo stomaco è forcuto.
Poi forò il ventre a Bogio da Vergalle,
e lo mandò del debito assoluto:
avea promesso alla moglier fra sei
mesi, vivendo, di tornare a lei.
Vide non lungi Dardinel gagliardo
venir Lurcanio, ch’avea in terra messo
Dorchin, passato ne la gola, e Gardo
per mezzo il capo e insin ai denti fesso;
e ch’Alteo fuggir volse, ma fu tardo,
Alteo ch’amò quanto il suo core istesso;
che dietro alla collottola gli mise
il fier Lurcanio un colpo che l’uccise.
Piglia una lancia, e va per far vendetta,
dicendo al suo Macon (s’udir lo puote),
che se morto Lurcanio in terra getta,
ne la moschea ne porrà l’arme vote.
Poi traversando la campagna in fretta,
con tanta forza il fianco gli percuote,
che tutto il passa sin all’altra banda;
ed ai suoi, che lo spoglino, commanda.
Non è da domandarmi, se dolere
se ne dovesse Ariodante il frate;
se desiasse di sua man potere
por Dardinel fra l’anime dannate:
ma nol lascian le genti adito avere,
non men de le ’nfedel le battezzate.
Vorria pur vendicarsi, e con la spada
di qua di là spianando va la strada.
Urta, apre, caccia, atterra, taglia e fende
qualunque lo ’mpedisce o gli contrasta.
E Dardinel che quel disire intende,
a volerlo saziar già non sovrasta:
ma la gran moltitudine contende
con questa ancora, e i suoi disegni guasta.
Se’ Mori uccide l’un, l’altro non manco
gli Scotti uccide e il campo inglese e ’l franco.
Fortuna sempremai la via lor tolse,
che per tutto quel dì non s’accozzaro.
A più famosa man serbar l’un volse;
che l’uomo il suo destin fugge di raro.
Ecco Rinaldo a questa strada volse,
perch’alla vita d’un non sia riparo:
ecco Rinaldo vien: Fortuna il guida
per dargli onor che Dardinello uccida.
Ma sia per questa volta detto assai
dei gloriosi fatti di Ponente.
Tempo è ch’io torni ove Grifon lasciai,
che tutto d’ira e di disdegno ardente
facea, con più timor ch’avesse mai,
tumultuar la sbigottita gente.
Re Norandino a quel rumor corso era
con più di mille armati in una schiera.
Re Norandin con la sua corte armata,
vedendo tutto ’l populo fuggire,
venne alla porta in battaglia ordinata,
e quella fece alla sua giunta aprire.
Grifone intanto avendo già cacciata
da sé la turba sciocca e senza ardire,
la sprezzata armatura in sua difesa
(qual la si fosse) avea di nuovo presa;
e presso a un tempio ben murato e forte,
che circondato era d’un’alta fossa,
in capo un ponticel si fece forte,
perché chiuderlo in mezzo alcun non possa.
Ecco, gridando e minacciando forte,
fuor de la porta esce una squadra grossa.
L’animoso Grifon non muta loco,
e fa sembiante che ne tema poco.
E poi ch’avicinar questo drappello
si vide, andò a trovarlo in su la strada;
e molta strage fattane e macello
(che menava a due man sempre la spada),
ricorso avea allo stretto ponticello,
e quindi li tenea non troppo a bada:
di nuovo usciva e di nuovo tornava;
e sempre orribil segno vi lasciava.
Quando di dritto e quando di riverso
getta or pedoni or cavallieri in terra.
Il popul contra lui tutto converso
più e più sempre inaspera la guerra.
Teme Grifone al fin restar sommerso:
sì cresce il mar che d’ogn’intorno il serra;
e ne la spalla e ne la coscia manca
è già ferito, e pur la lena manca.
Ma la virtù, ch’ai suoi spesso soccorre,
gli fa appo Norandin trovar perdono.
Il re, mentre al tumulto in dubbio corre,
vede che morti già tanti ne sono:
vede le piaghe che di man d’Ettorre
pareano uscite: un testimonio buono,
che dianzi esso avea fatto indegnamente
vergogna a un cavallier molto eccellente.
Poi, come gli è più presso, e vede in fronte
quel che la gente a morte gli ha condutta,
e fattosene avanti orribil monte,
e di quel sangue il fosso e l’acqua brutta;
gli è aviso di veder proprio sul ponte
Orazio sol contra Toscana tutta:
e per suo onore, e perché gli ne ’ncrebbe,
ritrasse i suoi, né gran fatica v’ebbe.
Ed alzando la man nuda e senz’arme,
antico segno di tregua o di pace,
disse a Grifon: — Non so, se non chiamarme
d’avere il torto, e dir che mi dispiace:
ma il mio poco giudicio, e lo istigarme
altrui, cadere in tanto error mi face.
Quel che di fare io mi credea al più vile
guerrier del mondo, ho fatto al più gentile.
E se bene alla ingiuria ed a quell’onta
ch’oggi fatta ti fu per ignoranza,
l’onor che ti fai qui s’adegua e sconta,
o (per più vero dir) supera e avanza;
la satisfazion ci serà pronta
a tutto mio sapere e mia possanza,
quando io conosca di poter far quella
per oro o per cittadi o per castella.
Chiedimi la metà di questo regno,
ch’io son per fartene oggi possessore;
che l’alta tua virtù non ti fa degno
di questo sol, ma ch’io ti doni il core:
e la tua mano in questo mezzo, pegno
di fé mi dona e di perpetuo amore. —
Così dicendo, da cavallo scese,
e vêr Grifon la destra mano stese.
Grifon, vedendo il re fatto benigno
venirgli per gittar le braccia al collo,
lasciò la spada e l’animo maligno,
e sotto l’anche ed umile abbracciollo.
Lo vide il re di due piaghe sanguigno,
e tosto fe’ venir chi medicollo;
indi portar ne la cittade adagio,
e riposar nel suo real palagio.
Dove, ferito, alquanti giorni, inante
che si potesse armar, fece soggiorno.
Ma lascio lui, ch’al suo frate Aquilante
ed ad Astolfo in Palestina torno,
che di Grifon, poi che lasciò le sante
mura, cercare han fatto più d’un giorno
in tutti i lochi in Solima devoti,
e in molti ancor da la città remoti.
Or né l’uno né l’altro è sì indovino,
che di Grifon possa saper che sia:
ma venne lor quel Greco peregrino,
nel ragionare, a caso a darne spia,
dicendo ch’Orrigille avea il camino
verso Antiochia preso di Soria,
d’un nuovo drudo, ch’era di quel loco,
di subito arsa e d’improviso fuoco.
Dimandògli Aquilante, se di questo
così notizia avea data a Grifone:
e come l’affermò, s’avisò il resto,
perché fosse partito, e la cagione.
Ch’Orrigille ha seguito è manifesto
in Antiochia con intenzione
di levarla di man del suo rivale
con gran vendetta e memorabil male.
Non tolerò Aquilante che ’l fratello
solo e senz’esso a quell’impresa andasse;
e prese l’arme, e venne dietro a quello:
ma prima pregò il duca che tardasse
l’andata in Francia ed al paterno ostello,
fin ch’esso d’Antiochia ritornasse.
Scende al Zaffo e s’imbarca, che gli pare
e più breve e miglior la via del mare.
Ebbe un ostro—silocco allor possente
tanto nel mare, e sì per lui disposto,
che la terra del Surro il dì seguente
vide e Saffetto, un dopo l’altro tosto.
Passa Barutti e il Zibeletto, e sente
che da man manca gli è Cipro discosto.
A Tortosa da Tripoli, e alla Lizza
e al golfo di Laiazzo il camin drizza.
Quindi a levante fe’ il nocchier la fronte
del navilio voltar snello e veloce;
ed a sorger n’andò sopra l’Oronte,
e colse il tempo, e ne pigliò la foce.
Gittar fece Aquilante in terra il ponte,
e n’uscì armato sul destrier feroce;
e contra il fiume il camin dritto tenne,
tanto ch’in Antiochia se ne venne.
Di quel Martano ivi ebbe ad informarse;
ed udì ch’a Damasco se n’era ito
con Orrigille, ove una giostra farse
dovea solenne per reale invito.
Tanto d’andargli dietro il desir l’arse,
certo che ’l suo german l’abbia seguito,
che d’Antiochia anco quel dì si tolle;
ma già per mar più ritornar non volle.
Verso Lidia e Larissa il camin piega:
resta più sopra Aleppe ricca e piena.
Dio, per mostrar ch’ancor di qua non niega
mercede al bene, ed al contrario pena,
Martano appresso a Mamuga una lega
ad incontrarsi in Aquilante mena.
Martano si facea con bella mostra
portare inanzi il pregio de la giostra.
Pensò Aquilante al primo comparire,
che ’l vil Martano il suo fratello fosse;
che l’ingannaron l’arme, e quel vestire
candido più che nievi ancor non mosse:
e con quell’oh! che d’allegrezza dire
si suole, incominciò; ma poi cangiosse
tosto di faccia e di parlar, ch’appresso
s’avide meglio, che non era desso.
Dubitò che per fraude di colei
ch’era con lui, Grifon gli avesse ucciso;
e: — Dimmi (gli gridò) tu ch’esser déi
un ladro e un traditor, come n’hai viso,
onde hai quest’arme avute? onde ti sei
sul buon destrier del mio fratello assiso?
Dimmi se ’l mio fratello è morto o vivo;
come de l’arme e del destrier l’hai privo. —
Quando Orrigille udì l’irata voce,
a dietro il palafren per fuggir volse;
ma di lei fu Aquilante più veloce,
e fecela fermar, volse o non volse.
Martano al minacciar tanto feroce
del cavallier, che sì improviso il colse,
pallido triema, come al vento fronda,
né sa quel che si faccia o che risponda.
Grida Aquilante, e fulminar non resta,
e la spada gli pon dritto alla strozza;
e giurando minaccia che la testa
ad Orrigille e a lui rimarrà mozza,
se tutto il fatto non gli manifesta.
Il mal giunto Martano alquanto ingozza,
e tra sé volve se può sminuire
sua grave colpa, e poi comincia a dire:
— Sappi, signor, che mia sorella è questa,
nata di buona e virtuosa gente,
ben che tenuta in vita disonesta
l’abbia Grifone obbrobriosamente:
e tale infamia essendomi molesta,
né per forza sentendomi possente
di torla a sì grande uom, feci disegno
d’averla per astuzia e per ingegno.
Tenni modo con lei, ch’avea desire
di ritornare a più lodata vita,
ch’essendosi Grifon messo a dormire,
chetamente da lui fêsse partita.
Così fece ella; e perché egli a seguire
non n’abbia, ed a turbar la tela ordita,
noi lo lasciammo disarmato e a piedi;
e qua venuti siàn, come tu vedi. —
Poteasi dar di somma astuzia vanto,
che colui facilmente gli credea;
e, fuor che ’n torgli arme e destrier e quanto
tenesse di Grifon, non gli nocea;
se non volea pulir sua scusa tanto,
che la facesse di menzogna rea:
buona era ogn’altra parte, se non quella
che la femina a lui fosse sorella.
Avea Aquilante in Antiochia inteso
essergli concubina, da più genti;
onde gridando, di furore acceso:
— Falsissimo ladron, tu te ne menti! —
un pugno gli tirò di tanto peso,
che ne la gola gli cacciò duo denti:
e senza più contesa, ambe le braccia
gli volge dietro, e d’una fune allaccia;
e parimente fece ad Orrigille,
ben che in sua scusa ella dicesse assai.
Quindi li trasse per casali e ville,
né li lasciò fin a Damasco mai;
e de le miglia mille volte mille
tratti gli avrebbe con pene e con guai,
fin ch’avesse trovato il suo fratello,
per farne poi come piacesse a quello.
Fece Aquilante lor scudieri e some
seco tornare, ed in Damasco venne,
e trovò di Grifon celebre il nome
per tutta la città batter le penne:
piccoli e grandi, ognun sapea già come
egli era, che sì ben corse l’antenne,
ed a cui tolto fu con falsa mostra
dal compagno la gloria de la giostra.
Il popul tutto al vil Martano infesto,
l’uno all’altro additandolo, lo scuopre.
— Non è (dicean), non è il ribaldo questo,
che si fa laude con l’altrui buone opre?
e la virtù di chi non è ben desto,
con la sua infamia e col suo obbrobrio copre?
Non è l’ingrata femina costei,
la qual tradisce i buoni e aiuta i rei? —
Altri dicean: — Come stan bene insieme
segnati ambi d’un marchio e d’una razza! —
Chi li bestemmia, chi lor dietro freme,
chi grida: — Impicca, abrucia, squarta, amazza! —
La turba per veder s’urta, si preme,
e corre inanzi alle strade, alla piazza.
Venne la nuova al re, che mostrò segno
d’averla cara più ch’un altro regno.
Senza molti scudier dietro o davante,
come si ritrovò, si mosse in fretta,
e venne ad incontrarsi in Aquilante,
ch’avea del suo Grifon fatto vendetta;
e quello onora con gentil sembiante,
seco lo ’nvita, e seco lo ricetta;
di suo consenso avendo fatto porre
i duo prigioni in fondo d’una torre.
Andaro insieme ove del letto mosso
Grifon non s’era, poi che fu ferito,
che vedendo il fratel, divenne rosso;
che ben stimò ch’avea il suo caso udito.
E poi che motteggiando un poco adosso
gli andò Aquilante, messero a partito
di dare a quelli duo iusto martoro,
venuti in man degli avversari loro.
Vuole Aquilante, vuole il re che mille
strazi ne sieno fatti; ma Grifone
(perché non osa dir sol d’Orrigille)
all’uno e all’altro vuol che si perdone.
Disse assai cose, e molto ben ordille;
fugli risposto; or per conclusione
Martano è disegnato in mano al boia,
ch’abbia a scoparlo, e non però che moia.
Legar lo fanno, e non tra’ fiori e l’erba,
e per tutto scopar l’altra matina.
Orrigille captiva si riserba
fin che ritorni la bella Lucina,
al cui saggio parere, o lieve o acerba,
rimetton quei signor la disciplina.
Quivi stette Aquilante a ricrearsi
fin che ’l fratel fu sano e poté armarsi.
Re Norandin, che temperato e saggio
divenuto era dopo un tanto errore,
non potea non aver sempre il coraggio
di penitenza pieno e di dolore,
d’aver fatto a colui danno ed oltraggio,
che degno di mercede era e d’onore:
sì che dì e notte avea il pensiero intento
par farlo rimaner di sé contento.
E statuì nel publico cospetto
de la città, di tanta ingiuria rea,
con quella maggior gloria ch’a perfetto
cavallier per un re dar si potea,
di rendergli quel premio ch’intercetto
con tanto inganno il traditor gli avea:
e perciò fe’ bandir per quel paese,
che faria un’altra giostra indi ad un mese.
Di ch’apparecchio fa tanto solenne,
quanto a pompa real possibil sia:
onde la Fama con veloci penne
portò la nuova per tutta Soria;
ed in Fenicia e in Palestina venne,
e tanto, ch’ad Astolfo ne diè spia,
il qual col viceré deliberosse
che quella giostra senza lor non fosse.
Per guerrier valoroso e di gran nome
la vera istoria Sansonetto vanta.
Gli diè battesmo Orlando, e Carlo (come
v’ho detto) a governar la Terra Santa.
Astolfo con costui levò le some,
per ritrovarsi ove la Fama canta,
sì che d’intorno n’ha piena ogni orecchia,
ch’in Damasco la giostra s’apparecchia.
Or cavalcando per quelle contrade
con non lunghi viaggi, agiati e lenti,
per ritrovarsi freschi alla cittade
poi di Damasco il dì de’ torniamenti,
scontraro in una croce di due strade
persona ch’al vestire e a’ movimenti
avea sembianza d’uomo, e femin’ era,
ne le battaglie a maraviglia fiera.
La vergine Marfisa si nomava,
di tal valor, che con la spada in mano
fece più volte al gran signor di Brava
sudar la fronte e a quel di Montalbano;
e ’l dì e la notte armata sempre andava
di qua di là cercando in monte e in piano
con cavallieri erranti riscontrarsi,
ed immortale e gloriosa farsi.
Com’ella vide Astolfo e Sansonetto,
ch’appresso le venian con l’arme indosso,
prodi guerrier le parvero all’aspetto;
ch’erano ambeduo grandi e di buono osso:
e perché di provarsi avria diletto,
per isfidarli avea il destrier già mosso;
quando, affissando l’occhio più vicino,
conosciuto ebbe il duca paladino.
De la piacevolezza le sovenne
del cavallier, quando al Catai seco era:
e lo chiamò per nome, e non si tenne
la man nel guanto, e alzossi la visiera;
e con gran festa ad abbracciarlo venne,
come che sopra ogn’altra fosse altiera.
Non men da l’altra parte riverente
fu il paladino alla donna eccellente.
Tra lor si domandaron di lor via:
e poi ch’Astolfo, che prima rispose,
narrò come a Damasco se ne gìa,
dove le genti in arme valorose
avea invitato il re de la Soria
a dimostrar lor opre virtuose;
Marfisa, sempre a far gran pruove accesa,
— Voglio esser con voi (disse) a questa impresa. —
Sommamente ebbe Astolfo grata questa
compagna d’arme, e così Sansonetto.
Furo a Damasco il dì inanzi la festa,
e di fuora nel borgo ebbon ricetto:
e sin all’ora che dal sonno desta
l’Aurora il vecchiarel già suo diletto,
quivi si riposar con maggior agio,
che se smontati fossero al palagio.
E poi che ’l nuovo sol lucido e chiaro
per tutto sparsi ebbe i fulgenti raggi,
la bella donna e i duo guerrier s’armaro,
mandato avendo alla città messaggi;
che, come tempo fu, lor rapportaro
che per veder spezzar frassini e faggi
re Norandino era venuto al loco
ch’avea costituito al fiero gioco.
Senza più indugio alla città ne vanno,
e per la via maestra alla gran piazza,
dove aspettando il real segno stanno
quinci e quindi i guerrier di buona razza.
I premi che quel giorno si daranno
a chi vince, è uno stocco ed una mazza
guerniti riccamente, e un destrier, quale
sia convenevol dono a un signor tale.
Avendo Norandin fermo nel core
che, come il primo pregio, il secondo anco,
e d’ambedue le giostre il sommo onore
si debba guadagnar Grifone il bianco;
per dargli tutto quel ch’uom di valore
dovrebbe aver, né debbe far con manco,
posto con l’arme in questo ultimo pregio
ha stocco e mazza e destrier molto egregio.
L’arme che ne la giostra fatta dianzi
si doveano a Grifon che ’l tutto vinse,
e che usurpate avea con tristi avanzi
Martano che Grifone esser si finse,
quivi si fece il re pendere inanzi,
e il ben guernito stocco a quelle cinse,
e la mazza all’arcion del destrier messe,
perché Grifon l’un pregio e l’altro avesse.
Ma che sua intenzione avesse effetto
vietò quella magnanima guerriera,
che con Astolfo e col buon Sansonetto
in piazza nuovamente venuta era.
Costei, vedendo l’arme ch’io v’ho detto,
subito n’ebbe conoscenza vera:
però che già sue furo, e l’ebbe care
quanto si suol le cose ottime e rare;
ben che l’avea lasciate in su la strada
a quella volta che le fur d’impaccio,
quando per riaver sua buona spada
correa dietro a Brunel degno di laccio.
Questa istoria non credo che m’accada
altrimenti narrar; però la taccio.
Da me vi basti intendere a che guisa
quivi trovasse l’arme sue Marfisa.
Intenderete ancor, che come l’ebbe
riconosciute a manifeste note,
per altro che sia al mondo, non le avrebbe
lasciate un dì di sua persona vote.
Se più tenere un modo o un altro debbe
per racquistarle, ella pensar non puote:
ma se gli accosta a un tratto, e la man stende,
e senz’altro rispetto se le prende;
e per la fretta ch’ella n’ebbe, avenne
ch’altre ne prese, altre mandonne in terra.
Il re, che troppo offeso se ne tenne,
con uno sguardo sol le mosse guerra;
che ’l popul, che l’ingiuria non sostenne,
per vendicarlo e lance e spade afferra,
non rammentando ciò ch’i giorni inanti
nocque il dar noia ai cavallieri erranti.
Né fra vermigli fiori, azzurri e gialli
vago fanciullo alla stagion novella,
né mai si ritrovò fra suoni e balli
più volentieri ornata donna e bella;
che fra strepito d’arme e di cavalli,
e fra punte di lance e di quadrella,
dove si sparga sangue e si dia morte,
costei si truovi, oltre ogni creder forte.
Spinge il cavallo, e ne la turba sciocca
con l’asta bassa impetuosa fere;
e chi nel collo e chi nel petto imbrocca,
e fa con l’urto or questo or quel cadere:
poi con la spada uno ed un altro tocca,
e fa qual senza capo rimanere,
e qual rotto, e qual passato al fianco,
e qual del braccio privo o destro o manco.
L’ardito Astolfo e il forte Sansonetto,
ch’avean con lei vestita e piastra e maglia,
ben che non venner già per tal effetto,
pur, vedendo attaccata la battaglia,
abbassan la visiera de l’elmetto,
e poi la lancia per quella canaglia;
ed indi van con la tagliente spada
di qua di là facendosi far strada.
I cavallieri di nazion diverse,
ch’erano per giostrar quivi ridutti,
vedendo l’arme in tal furor converse,
e gli aspettati giuochi in gravi lutti
(che la cagion ch’avesse di dolerse
la plebe irata non sapeano tutti,
né ch’al re tanta ingiuria fosse fatta),
stavan con dubbia mente e stupefatta.
Di ch’altri a favorir la turba venne,
che tardi poi non se ne fu a pentire;
altri, a cui la città più non attenne
che gli stranieri, accorse a dipartire;
altri, più saggio, in man la briglia tenne,
mirando dove questo avesse a uscire.
Di quelli fu Grifone ed Aquilante,
che per vendicar l’arme andaro inante.
Essi vedendo il re che di veneno
avea le luci inebriate e rosse,
ed essendo da molti istrutti a pieno
de la cagion che la discordia mosse,
e parendo a Grifon che sua, non meno
che del re Norandin, l’ingiuria fosse;
s’avean le lance fatte dar con fretta,
e venian fulminando alla vendetta.
Astolfo d’altra parte Rabicano
venìa spronando a tutti gli altri inante,
con l’incantata lancia d’oro in mano,
ch’al fiero scontro abbatte ogni giostrante.
Ferì con essa e lasciò steso al piano
prima Grifone, e poi trovò Aquilante;
e de lo scudo toccò l’orlo a pena,
che lo gittò riverso in su l’arena.
I cavallier di pregio e di gran pruova
votan le selle inanzi a Sansonetto.
L’uscita de la piazza il popul truova:
il re n’arrabbia d’ira e di dispetto.
Con la prima corazza e con la nuova
Marfisa intanto, e l’uno e l’altro elmetto,
poi che si vide a tutti dare il tergo,
vincitrice venìa verso l’albergo.
Astolfo e Sansonetto non fur lenti
a seguitarla, e seco a ritornarsi
verso la porta (che tutte le genti
gli davan loco), ed al rastrel fermarsi.
Aquilante e Grifon, troppo dolenti
di vedersi a uno incontro riversarsi,
tenean per gran vergogna il capo chino,
né ardian venire inanzi a Norandino.
Presi e montati c’hanno i lor cavalli,
spronano dietro agli nimici in fretta.
Li segue il re con molti suoi vasalli,
tutti pronti o alla morte o alla vendetta.
La sciocca turba grida: — Dàlli dàlli —;
e sta lontana, e le novelle aspetta.
Grifone arriva ove volgean la fronte
i tre compagni, ed avean preso il ponte.
A prima giunta Astolfo raffigura,
ch’avea quelle medesime divise,
avea il cavallo, avea quella armatura
ch’ebbe dal dì ch’Orril fatale uccise.
Né miratol, né posto gli avea cura,
quando in piazza a giostrar seco si mise:
quivi il conobbe e salutollo; e poi
gli domandò de li compagni suoi;
e perché tratto avean quell’arme a terra,
portando al re sì poca riverenza.
Di suoi compagni il duca d’Inghilterra
diede a Grifon non falsa conoscenza:
de l’arme ch’attaccate avean la guerra,
disse che non n’avea troppa scienza;
ma perché con Marfisa era venuto,
dar le volea con Sansonetto aiuto.
Quivi con Grifon stando il paladino,
viene Aquilante, e lo conosce tosto
che parlar col fratel l’ode vicino,
e il voler cangia, ch’era mal disposto.
Giungean molti di quei di Norandino,
ma troppo non ardian venire accosto;
e tanto più, vedendo i parlamenti,
stavano cheti, e per udire intenti.
Alcun ch’intende quivi esser Marfisa,
che tiene al mondo il vanto in esser forte,
volta il cavallo, e Norandino avisa
che s’oggi non vuol perder la sua corte,
proveggia, prima che sia tutta uccisa,
di man trarla a Tesifone e alla Morte;
perché Marfisa veramente è stata,
che l’armatura in piazza gli ha levata.
Come re Norandino ode quel nome
così temuto per tutto Levante,
che facea a molti anco arricciar le chiome,
ben che spesso da lor fosse distante,
è certo che ne debbia venir come
dice quel suo, se non provede inante;
però gli suoi, che già mutata l’ira
hanno in timore, a sé richiama e tira.
Da l’altra parte i figli d’Oliviero
con Sansonetto e col figliuol d’Otone,
supplicando a Marfisa, tanto fero,
che si diè fine alla crudel tenzone.
Marfisa, giunta al re, con viso altiero
disse: — Io non so, signor, con che ragione
vogli quest’arme dar, che tue non sono,
al vincitor de le tue giostre in dono.
Mie sono l’arme, e ’n mezzo de la via
che vien d’Armenia, un giorno le lasciai,
perché seguire a piè mi convenia
un rubator che m’avea offesa assai:
e la mia insegna testimon ne fia,
che qui si vede, se notizia n’hai. —
E la mostrò ne la corazza impressa,
ch’era in tre parti una corona fessa.
— Gli è ver (rispose il re) che mi fur date,
son pochi dì, da un mercatante armeno;
e se voi me l’avesse domandate,
l’avreste avute, o vostre o no che sièno;
ch’avenga ch’a Grifon già l’ho donate,
ho tanta fede in lui, che nondimeno,
acciò a voi darle avessi anche potuto,
volentieri il mio don m’avria renduto.
Non bisogna allegar, per farmi fede
che vostre sien, che tengan vostra insegna:
basti il dirmelo voi; che vi si crede
più ch’a qual altro testimonio vegna.
Che vostre sian vostr’arme si concede
alla virtù di maggior premio degna.
Or ve l’abbiate, e più non si contenda;
e Grifon maggior premio da me prenda. —
Grifon che poco a cor avea quell’arme,
ma gran disio che ’l re si satisfaccia,
gli disse: — Assai potete compensarme,
se mi fate saper ch’io vi compiaccia. —
Tra sé disse Marfisa: — Esser qui parme
l’onor mio in tutto: — e con benigna faccia
volle a Grifon de l’arme esser cortese;
e finalmente in don da lui le prese.
Ne la città con pace e con amore
tornaro, ove le feste raddoppiarsi.
Poi la giostra si fe’, di che l’onore
e ’l pregio Sansonetto fece darsi;
ch’Astolfo e i duo fratelli e la migliore
di lor, Marfisa, non volson provarsi,
cercando, com’amici e buon compagni,
che Sansonetto il pregio ne guadagni.
Stati che sono in gran piacere e in festa
con Norandino otto giornate o diece,
perché l’amor di Francia gli molesta,
che lasciar senza lor tanto non lece,
tolgon licenza; e Marfisa, che questa
via disiava, compagnia lor fece.
Marfisa avuto avea lungo disire
al paragon dei paladin venire;
e far esperienza se l’effetto
si pareggiava a tanta nominanza.
Lascia un altro in suo loco Sansonetto,
che di Ierusalem regga la stanza.
Or questi cinque in un drappello eletto,
che pochi pari al mondo han di possanza,
licenziati dal re Norandino,
vanno a Tripoli e al mar che v’è vicino.
E quivi una caracca ritrovaro,
che per Ponente mercanzie raguna.
Per loro e pei cavalli s’accordaro
con un vecchio patron ch’era da Luna.
Mostrava d’ogn’intorno il tempo chiaro,
ch’avrian per molti dì buona fortuna.
Sciolser dal lito, avendo aria serena,
e di buon vento ogni lor vela piena.
L’isola sacra all’amorosa dea
diede lor sotto un’aria il primo porto,
che non ch’a offender gli uomini sia rea,
ma stempra il ferro, e quivi è ’l viver corto.
Cagion n’è un stagno: e certo non dovea
Natura a Famagosta far quel torto
d’appressarvi Costanza acre e maligna,
quando al resto di Cipro è sì benigna.
Il grave odor che la palude esala
non lascia al legno far troppo soggiorno.
Quindi a un greco—levante spiegò ogni ala,
volando da man destra a Cipro intorno,
e surse a Pafo, e pose in terra scala;
e i naviganti uscir nel lito adorno,
chi per merce levar, chi per vedere
la terra d’amor piena e di piacere.
Dal mar sei miglia o sette, a poco a poco
si va salendo inverso il colle ameno.
Mirti e cedri e naranci e lauri il loco,
e mille altri soavi arbori han pieno.
Serpillo e persa e rose e gigli e croco
spargon da l’odorifero terreno
tanta suavità, ch’in mar sentire
la fa ogni vento che da terra spire.
Da limpida fontana tutta quella
piaggia rigando va un ruscel fecondo.
Ben si può dir che sia di Vener bella
il luogo dilettevole e giocondo;
che v’è ogni donna affatto, ogni donzella
piacevol più ch’altrove sia nel mondo:
e fa la dea che tutte ardon d’amore,
giovani e vecchie, infino all’ultime ore.
Quivi odono il medesimo ch’udito
di Lucina e de l’Orco hanno in Soria,
e come di tornare ella a marito
facea nuovo apparecchio in Nicosia.
Quindi il padrone (essendosi espedito,
e spirando buon vento alla sua via)
l’ancore sarpa, e fa girar la proda
verso ponente, ed ogni vela snoda.
Al vento di maestro alzò la nave
le vele all’orza, ed allargossi in alto.
Un ponente—libecchio, che soave
parve a principio e fin che ’l sol stette alto,
e poi si fe’ verso la sera grave,
le leva incontra il mar con fiero assalto,
con tanti tuoni e tanto ardor di lampi,
che par che ’l ciel si spezzi e tutto avampi.
Stendon le nubi un tenebroso velo
che né sole apparir lascia né stella.
Di sotto il mar, di sopra mugge il cielo,
il vento d’ogn’intorno, e la procella
che di pioggia oscurissima e di gelo
i naviganti miseri flagella:
e la notte più sempre si diffonde
sopra l’irate e formidabil onde.
I naviganti a dimostrare effetto
vanno de l’arte in che lodati sono:
chi discorre fischiando col fraschetto,
e quanto han gli altri a far, mostra col suono;
chi l’ancore apparechia da rispetto,
e chi al mainare e chi alla scotta è buono;
chi ’l timone, chi l’arbore assicura,
chi la coperta di sgombrare ha cura.
Crebbe il tempo crudel tutta la notte,
caliginosa e più scura ch’inferno.
Tien per l’alto il padrone, ove men rotte
crede l’onde trovar, dritto il governo;
e volta ad or ad or contra le botte
del mar la proda, e de l’orribil verno,
non senza speme mai che, come aggiorni,
cessi fortuna, o più placabil torni.
Non cessa e non si placa, e più furore
mostra nel giorno, se pur giorno è questo,
che si conosce al numerar de l’ore,
non che per lume già sia manifesto.
Or con minor speranza e più timore
si dà in poter del vento il padron mesto:
volta la poppa all’onde, e il mar crudele
scorrendo se ne va con umil vele.
Mentre Fortuna in mar questi travaglia,
non lascia anco posar quegli altri in terra,
che sono in Francia, ove s’uccide e taglia
coi Saracini il popul d’Inghilterra.
Quivi Rinaldo assale, apre e sbaraglia
le schiere avverse, e le bandiere atterra.
Dissi di lui, che ’l suo destrier Baiardo
mosso avea contra a Dardinel gagliardo.
Vide Rinaldo il segno del quartiero,
di che superbo era il figliuol d’Almonte;
e lo stimò gagliardo e buon guerriero,
che concorrer d’insegna ardia col conte.
Venne più appresso, e gli parea più vero;
ch’avea d’intorno uomini uccisi a monte.
— Meglio è (gridò) che prima io svella e spenga
questo mal germe, che maggior divenga. —
Dovunque il viso drizza il paladino,
levasi ognuno, e gli dà larga strada;
né men sgombra il fedel, che ’l Saracino,
sì reverita è la famosa spada.
Rinaldo, fuor che Dardinel meschino,
non vede alcuno, e lui seguir non bada.
Grida: — Fanciullo, gran briga ti diede
chi ti lasciò di questo scudo erede.
Vengo a te per provar, se tu m’attendi,
come ben guardi il quartier rosso e bianco;
che s’ora contra me non lo difendi,
difender contra Orlando il potrai manco. —
Rispose Dardinello: — Or chiaro apprendi
che s’io lo porto, il so difender anco;
e guadagnar più onor, che briga, posso
del paterno quartier candido e rosso.
Perché fanciullo io sia, non creder farme
però fuggire, o che ’l quartier ti dia:
la vita mi torrai, se mi toi l’arme;
ma spero in Dio ch’anzi il contrario fia.
Sia quel che vuol, non potrà alcun biasmarme
che mai traligni alla progenie mia. —
Così dicendo, con la spada in mano
assalse il cavallier da Montalbano.
Un timor freddo tutto ’l sangue oppresse,
che gli Africani aveano intorno al core,
come vider Rinaldo che si messe
con tanta rabbia incontra a quel signore,
con quanta andria un leon ch’al prato avesse
visto un torel ch’ancor non senta amore.
Il primo che ferì, fu ’l Saracino;
ma picchiò invan su l’elmo di Mambrino.
Rise Rinaldo, e disse: — Io vo’ tu senta,
s’io so meglio di te trovar la vena. —
Sprona, e a un tempo al destrier la briglia allenta,
e d’una punta con tal forza mena,
d’una punta ch’al petto gli appresenta,
che gli la fa apparir dietro alla schena.
Quella trasse, al tornar, l’alma col sangue:
di sella il corpo uscì freddo ed esangue.
Come purpureo fior languendo muore,
che ’l vomere al passar tagliato lassa;
o come carco di superchio umore
il papaver ne l’orto il capo abbassa:
così, giù de la faccia ogni colore
cadendo, Dardinel di vita passa;
passa di vita, e fa passar con lui
l’ardire e la virtù de tutti i sui.
Qual soglion l’acque per umano ingegno
stare ingorgate alcuna volta e chiuse,
che quando lor vien poi rotto il sostegno,
cascano, e van con gran rumor difuse;
tal gli African, ch’avean qualche ritegno
mentre virtù lor Dardinello infuse,
ne vanno or sparti in questa parte e in quella,
che l’han veduto uscir morto di sella.
Chi vuol fuggir, Rinaldo fuggir lassa,
ed attende a cacciar chi vuol star saldo.
Si cade ovunque Ariodante passa,
che molto va quel dì presso a Rinaldo.
Altri Lionetto, altri Zerbin fracassa,
a gara ognuno a far gran prove caldo.
Carlo fa il suo dover, lo fa Oliviero,
Turpino e Guido e Salamone e Ugiero.
I Mori fur quel giorno in gran periglio
che ’n Pagania non ne tornasse testa;
ma ’l saggio re di Spagna dà di piglio,
e se ne va con quel che in man gli resta.
Restar in danno tien miglior consiglio,
che tutti i denar perdere e la vesta:
meglio è ritrarsi e salvar qualche schiera,
che, stando, esser cagion che ’l tutto pèra.
Verso gli alloggiamenti i segni invia,
ch’eron serrati d’argine e di fossa,
con Stordilan, col re d’Andologia,
col Portughese in una squadra grossa.
Manda a pregar il re di Barbaria,
che si cerchi ritrar meglio che possa;
e se quel giorno la persona e ’l loco
potrà salvar, non avrà fatto poco.
Quel re che si tenea spacciato al tutto,
né mai credea più riveder Biserta,
che con viso sì orribile e sì brutto
unquanco non avea Fortuna esperta,
s’allegrò che Marsilio avea ridutto
parte del campo in sicurezza certa:
ed a ritrarsi cominciò, e a dar volta
alle bandiere, e fe’ sonar raccolta.
Ma la più parte de la gente rotta
né tromba né tambur né segno ascolta:
tanta fu la viltà, tanta la dotta,
ch’in Senna se ne vide affogar molta.
Il re Agramante vuol ridur la frotta:
seco ha Sobrino, e van scorrendo in volta;
e con lor s’affatica ogni buon duca,
che nei ripari il campo si riduca.
Ma né il re, né Sobrin, né duca alcuno
con prieghi, con minacce, con affanno
ritrar può il terzo, non ch’io dica ognuno,
dove l’insegne mal seguite vanno.
Morti o fuggiti ne son dua, per uno
che ne rimane, e quel non senza danno:
ferito è chi di dietro e chi davanti;
ma travagliati e lassi tutti quanti.
E con gran tema fin dentro alle porte
dei forti alloggiamenti ebbon la caccia:
ed era lor quel luogo anco mal forte,
con ogni proveder che vi si faccia
(che ben pigliar nel crin la buona sorte
Carlo sapea, quando volgea la faccia),
se non venia la notte tenebrosa,
che staccò il fatto, ed acquetò ogni cosa;
dal Creator accelerata forse,
che de la sua fattura ebbe pietade.
Ondeggiò il sangue per campagna, e corse
come un gran fiume, e dilagò le strade.
Ottantamila corpi numerorse,
che fur quel dì messi per fil di spade.
Villani e lupi uscir poi de le grotte
a dispogliargli e a devorar la notte.
Carlo non torna più dentro alla terra,
ma contra gli nimici fuor s’accampa,
ed in assedio le lor tende serra,
ed alti e spessi fuochi intorno avampa.
Il pagan si provede, e cava terra,
fossi e ripari e bastioni stampa;
va rivedendo, e tien le guardie deste,
né tutta notte mai l’arme si sveste.
Tutta la notte per gli alloggiamenti
dei malsicuri Saracini oppressi
si versan pianti, gemiti e lamenti,
ma quanto più si può, cheti e soppressi.
Altri, perché gli amici hanno e i parenti
lasciati morti, ed altri per se stessi,
che son feriti, e con disagio stanno:
ma più è la tema del futuro danno.
Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
ed or passato in Francia il mar con quello.
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era ed isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.
Erano questi duo sopra i ripari
con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanze pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che ’l signor suo non rammenti,
Dardinello d’Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.
Volto al compagno, disse: — O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m’incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.
Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrà ch’io vada occulto
là dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo:
che se Fortuna vieta sì bell’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra. —
Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perch’un sì gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.
Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: — E verrò anch’io,
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove,
anch’io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sarà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l’arme è meglio molto,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto. —
Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.
Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
— Non son mai da lasciar l’occasioni.
Di questo stuol che ’l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada. —
Così disse egli, e tosto il parlar tenne,
ed entrò dove il dotto Alfeo dormia,
che l’anno inanzi in corte a Carlo venne,
medico e mago e pien d’astrologia:
ma poco a questa volta gli sovenne;
anzi gli disse in tutto la bugia.
Predetto egli s’avea, che d’anni pieno
dovea morire alla sua moglie in seno:
ed or gli ha messo il cauto Saracino
la punta de la spada ne la gola.
Quattro altri uccide appresso all’indovino,
che non han tempo a dire una parola:
menzion dei nomi lor non fa Turpino,
e ’l lungo andar le lor notizie invola:
dopo essi Palidon da Moncalieri,
che sicuro dormia fra duo destrieri.
Poi se ne vien dove col capo giace
appoggiato al barile il miser Grillo:
avealo voto, e avea creduto in pace
godersi un sonno placido e tranquillo.
Troncògli il capo il Saracino audace:
esce col sangue il vin per uno spillo,
di che n’ha in corpo più d’una bigoncia;
e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia.
E presso a Grillo, un Greco ed un Tedesco
spenge in dui colpi, Andropono e Conrado,
che de la notte avean goduto al fresco
gran parte, or con la tazza, ora col dado:
felici, se vegghiar sapeano a desco
fin che de l’Indo il sol passassi il guado.
Ma non potria negli uomini il destino,
se del futuro ognun fosse indovino.
Come impasto leone in stalla piena,
che lunga fame abbia smacrato e asciutto,
uccide, scanna, mangia, a strazio mena
l’infermo gregge in sua balìa condutto;
così il crudel pagan nel sonno svena
la nostra gente, e fa macel per tutto.
La spada di Medoro anco non ebe;
ma si sdegna ferir l’ignobil plebe.
Venuto era ove il duca di Labretto
con una dama sua dormia abbracciato;
e l’un con l’altro si tenea sì stretto,
che non saria tra lor l’aere entrato.
Medoro ad ambi taglia il capo netto.
Oh felice morire! oh dolce fato!
che come erano i corpi, ho così fede
ch’andar l’alme abbracciate alla lor sede.
Malindo uccise e Ardalico il fratello,
che del conte di Fiandra erano figli;
e l’uno e l’altro cavallier novello
fatto avea Carlo, e aggiunto all’arme i gigli,
perché il giorno amendui d’ostil macello
con gli stocchi tornar vide vermigli:
e terre in Frisa avea promesso loro,
e date avria; ma lo vietò Medoro.
Gl’insidiosi ferri eran vicini
ai padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta;
quando da l’empia strage i Saracini
trasson le spade, e diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s’abbia a trovar un che non dorma.
E ben che possan gir di preda carchi,
salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove più creda aver sicuri i varchi
va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon nel campo, ove fra spade ed archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.
Quivi dei corpi l’orrida mistura,
che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:
— O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. —
La luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor ch’ella s’offerse,
e nuda in braccio a Endimion si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l’un campo e l’altro; e ’l monte e ’l pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Lerì all’altra mano,
Rifulse lo splendor molto più chiaro
ove d’Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.
Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita,
più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.
Vanno affrettando i passi quanto ponno,
sotto l’amata soma che gl’ingombra.
E già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato avendo tutta notte i Mori,
al campo si traea nei primi albori.
E seco alquanti cavallieri avea,
che videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno a quella parte si traea,
sperandovi trovar prede e guadagni.
— Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto,
perder duo vivi per salvar un morto. —
E gittò il carco, perché si pensava
che ’l suo Medoro il simil far dovesse:
ma quel meschin, che ’l suo signor più amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro avesse:
se sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate avria, non ch’una morte.
Quei cavallier, con animo disposto
che questi a render s’abbino o a morire,
chi qua chi là si spargono, ed han tosto
preso ogni passo onde si possa uscire.
Da loro il capitan poco discosto,
più degli altri è sollicito a seguire;
ch’in tal guisa vedendoli temere,
certo è che sian de le nimiche schiere.
Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa e di virgulti,
che, come labirinto, entro s’intrica
di stretti calli e sol da bestie culti.
Speran d’averla i duo pagan sì amica,
ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.