Gravi pene in amor si provan molte,
di che patito io n’ho la maggior parte,
e quelle in danno mio sì ben raccolte,
ch’io ne posso parlar come per arte.
Però s’io dico e s’ho detto altre volte,
e quando in voce e quando in vive carte,
ch’un mal sia lieve, un altro acerbo e fiero,
date credenza al mio giudicio vero.
Io dico e dissi, e dirò fin ch’io viva,
che chi si truova in degno laccio preso,
se ben di sé vede sua donna schiva,
se in tutto aversa al suo desire acceso;
se bene Amor d’ogni mercede il priva,
poscia che ’l tempo e la fatica ha speso;
pur ch’altamente abbia locato il core,
pianger non de’, se ben languisce e muore.
Pianger de’ quel che già sia fatto servo
di duo vaghi occhi e d’una bella treccia,
sotto cui si nasconda un cor protervo,
che poco puro abbia con molta feccia.
Vorria il miser fuggire; e come cervo
ferito, ovunque va, porta la freccia:
ha di se stesso e del suo amor vergogna,
né l’osa dire, e invan sanarsi agogna.
In questo caso è il giovene Grifone,
che non si può emendare, e il suo error vede,
vede quanto vilmente il suo cor pone
in Orrigille iniqua e senza fede;
pur dal mal uso è vinta la ragione,
e pur l’arbitrio all’appetito cede:
perfida sia quantunque, ingrata e ria,
sforzato è di cercar dove ella sia.
Dico, la bella istoria ripigliando,
ch’uscì de la città secretamente,
né parlarne s’ardì col fratel, quando
ripreso invan da lui ne fu sovente.
Verso Rama, a sinistra declinando,
prese la via più piana e più corrente.
Fu in sei giorni a Damasco di Soria;
indi verso Antiochia se ne gìa.
Scontrò presso a Damasco il cavalliero
a cui donato aveva Orrigille il core:
e convenian di rei costumi in vero,
come ben si convien l’erba col fiore;
che l’uno e l’altro era di cor leggiero,
perfido l’uno e l’altro e traditore;
e copria l’uno e l’altro il suo difetto,
con danno altrui, sotto cortese aspetto.
Come io vi dico, il cavallier venìa
s’un gran destrier con molta pompa armato:
la perfida Orrigille in compagnia,
in un vestire azzur d’oro fregiato,
e duo valletti, donde si servia
a portar elmo e scudo, aveva allato;
come quel che volea con bella mostra
comparire in Damasco ad una giostra.
Una splendida festa che bandire
fece il re di Damasco in quelli giorni,
era cagion di far quivi venire
i cavallier quanto potean più adorni.
Tosto che la puttana comparire
vede Grifon, ne teme oltraggi e scorni:
sa che l’amante suo non è sì forte,
che contra lui l’abbia a campar da morte.
Ma sì come audacissima e scaltrita,
ancor che tutta di paura trema,
s’acconcia il viso, e sì la voce aita,
che non appar in lei segno di tema.
Col drudo avendo già l’astuzia ordita,
corre, e fingendo una letizia estrema,
verso Grifon l’aperte braccia tende,
lo stringe al collo, e gran pezzo ne pende.
Dopo, accordando affettuosi gesti
alla suavità de le parole,
dicea piangendo: — Signor mio, son questi
debiti premi a chi t’adora e cole?
che sola senza te già un anno resti,
e va per l’altro, e ancor non te ne duole?
E s’io stava aspettare il suo ritorno,
non so se mai veduto avrei quel giorno!
Quando aspettava che di Nicosia,
dove tu te n’andasti alla gran corte,
tornassi a me che con la febbre ria
lasciata avevi in dubbio de la morte,
intesi che passato eri in Soria:
il che a patir mi fu sì duro e forte,
che non sapendo come io ti seguissi,
quasi il cor di man propria mi traffissi.
Ma Fortuna di me con doppio dono
mostra d’aver, quel che non hai tu, cura:
mandommi il fratel mio, col quale io sono
sin qui venuta del mio onor sicura;
ed or mi manda questo incontro buono
di te, ch’io stimo sopra ogni aventura:
e bene a tempo il fa; che più tardando,
morta sarei, te, signor mio, bramando. —
E seguitò la donna fraudolente,
di cui l’opere fur più che di volpe,
la sua querela così astutamente,
che riversò in Grifon tutte le colpe.
Gli fa stimar colui, non che parente,
ma che d’un padre seco abbia ossa e polpe:
e con tal modo sa tesser gl’inganni,
che men verace par Luca e Giovanni.
Non pur di sua perfidia non riprende
Grifon la donna iniqua più che bella;
non pur vendetta di colui non prende,
che fatto s’era adultero di quella:
ma gli par far assai, se si difende
che tutto il biasmo in lui non riversi ella;
e come fosse suo cognato vero,
d’accarezzar non cessa il cavalliero.
E con lui se ne vien verso le porte
di Damasco, e da lui sente tra via,
che là dentro dovea splendida corte
tenere il ricco re de la Soria;
e ch’ognun quivi, di qualunque sorte,
o sia cristiano, o d’altra legge sia,
dentro e di fuori ha la città sicura
per tutto il tempo che la festa dura.
Non però son di seguitar sì intento
l’istoria de la perfida Orrigille,
ch’a’ giorni suoi non pur un tradimento
fatto agli amanti avea, ma mille e mille;
ch’io non ritorni a riveder dugento
mila persone, o più de le scintille
del fuoco stuzzicato, ove alle mura
di Parigi facean danno e paura.
Io vi lasciai, come assaltato avea
Agramante una porta de la terra,
che trovar senza guardia si credea:
né più riparo altrove il passo serra;
perché in persona Carlo la tenea,
ed avea seco i mastri de la guerra,
duo Guidi, duo Angelini; uno Angeliero,
Avino, Avolio, Otone e Berlingiero.
Inanzi a Carlo, inanzi al re Agramante
l’un stuolo e l’altro si vuol far vedere,
ove gran loda, ove mercé abondante
si può acquistar, facendo il suo dovere.
I Mori non però fer pruove tante,
che par ristoro al danno abbiano avere;
perché ve ne restar morti parecchi,
ch’agli altri fur di folle audacia specchi.
Grandine sembran le spesse saette
dal muro sopra gli nimici sparte.
Il grido insin al ciel paura mette,
che fa la nostra e la contraria parte.
Ma Carlo un poco ed Agramante aspette;
ch’io vo’ cantar de l’africano Marte,
Rodomonte terribile ed orrendo,
che va per mezzo la città correndo.
Non so, Signor, se più vi ricordiate,
di questo Saracin tanto sicuro,
che morte le sue genti avea lasciate
tra il secondo riparo e ’l primo muro,
da la rapace fiamma devorate,
che non fu mai spettacolo più oscuro.
Dissi ch’entrò d’un salto ne la terra
sopra la fossa che la cinge e serra.
Quando fu noto il Saracino atroce
all’arme istrane, alla scagliosa pelle,
là dove i vecchi e ’l popul men feroce
tendean l’orecchie a tutte le novelle,
levossi un pianto, un grido, un’alta voce,
con un batter di man ch’andò alle stelle;
e chi poté fuggir non vi rimase,
per serrarsi ne’ templi e ne le case.
Ma questo a pochi il brando rio conciede,
ch’intorno ruota il Saracin robusto.
Qui fa restar con mezza gamba un piede,
là fa un capo sbalzar lungi dal busto;
l’un tagliare a traverso se gli vede,
dal capo all’anche un altro fender giusto:
e di tanti ch’uccide, fere e caccia,
non se gli vede alcun segnare in faccia.
Quel che la tigre de l’armento imbelle
ne’ campi ircani o là vicino al Gange,
o ’l lupo de le capre e de l’agnelle
nel monte che Tifeo sotto si frange;
quivi il crudel pagan facea di quelle
non dirò squadre, non dirò falange,
ma vulgo e populazzo voglio dire,
degno, prima che nasca, di morire.
Non ne trova un che veder possa in fronte,
fra tanti che ne taglia, fora e svena.
Per quella strada che vien dritto al ponte
di san Michel, sì popolata e piena,
corre il fiero e terribil Rodomonte,
e la sanguigna spada a cerco mena:
non riguarda né al servo né al signore,
né al giusto ha più pietà ch’al peccatore.
Religion non giova al sacerdote,
né la innocenza al pargoletto giova:
per sereni occhi o per vermiglie gote
mercé né donna né donzella truova:
la vecchiezza si caccia e si percuote;
né quivi il Saracin fa maggior pruova
di gran valor, che di gran crudeltade;
che non discerne sesso, ordine, etade.
Non pur nel sangue uman l’ira si stende
de l’empio re, capo e signor degli empi,
ma contra i tetti ancor, sì che n’incende
le belle case e i profanati tempi.
Le case eran, per quel che se n’intende,
quasi tutte di legno in quelli tempi:
e ben creder si può; ch’in Parigi ora
de le diece le sei son così ancora.
Non par, quantunque il fuoco ogni cosa arda,
che sì grande odio ancor saziar si possa.
Dove s’aggrappi con le mani, guarda,
sì che ruini un tetto ad ogni scossa.
Signor, avete a creder che bombarda
mai non vedeste a Padova sì grossa,
che tanto muro possa far cadere,
quanto fa in una scossa il re d’Algiere.
Mentre quivi col ferro il maledetto
e con le fiamme facea tanta guerra,
se di fuor Agramante avesse astretto,
perduta era quel dì tutta la terra:
ma non v’ebbe agio; che gli fu interdetto
dal paladin che venìa d’Inghilterra
col populo alle spalle inglese e scotto,
dal Silenzio e da l’angelo condotto.
Dio volse che all’entrar che Rodomonte
fe’ ne la terra, e tanto fuoco accese,
che presso ai muri il fior di Chiaramonte,
Rinaldo, giunse, e seco il campo inglese.
Tre leghe sopra avea gittato il ponte,
e torte vie da man sinistra prese;
che disegnando i barbari assalire,
il fiume non l’avesse ad impedire.
Mandato avea seimila fanti arcieri
sotto l’altiera insegna d’Odoardo,
e duomila cavalli, e più, leggieri
dietro alla guida d’Ariman gagliardo;
e mandati gli avea per li sentieri
che vanno e vengon dritto al mar picardo,
ch’a porta San Martino e San Dionigi
entrassero a soccorso di Parigi.
I cariaggi e gli altri impedimenti
con lor fece drizzar per questa strada.
Egli con tutto il resto de le genti
più sopra andò girando la contrada.
Seco avean navi e ponti ed argumenti
da passar Senna che non ben si guada.
Passato ognuno, e dietro i ponti rotti,
ne le lor schiere ordinò Inglesi e Scotti.
Ma prima quei baroni e capitani
Rinaldo intorno avendosi ridutti,
sopra la riva ch’alta era dai piani
sì, che poteano udirlo e veder tutti,
disse: — Signor, ben a levar le mani
avete a Dio, che qui v’abbia condutti,
acciò, dopo un brevissimo sudore,
sopra ogni nazion vi doni onore.
Per voi saran dui principi salvati,
se levate l’assedio a quelle porte:
il vostro re, che voi sete ubligati
da servitù difendere e da morte;
ed uno imperator de’ più lodati
che mai tenuto al mondo abbiano corte;
e con loro altri re, duci e marchesi,
signori e cavallier di più paesi.
Sì che, salvando una città, non soli
Parigini ubligati vi saranno,
che molto più che per li propri duoli,
timidi, afflitti e sbigottiti stanno
per le lor mogli e per li lor figliuoli
ch’a un medesmo pericolo seco hanno,
e per le sante vergini richiuse,
ch’oggi non sien dei voti lor deluse:
dico, salvando voi questa cittade,
v’ubligate non solo i Parigini,
ma d’ogn’intorno tutte le contrade.
Non parlo sol dei populi vicini;
ma non è terra per Cristianitade,
che non abbia qua dentro cittadini:
sì che, vincendo, avete da tenere
che più che Francia v’abbia obligo avere.
Se donavan gli antiqui una corona
a chi salvasse a un cittadin la vita,
or che degna mercede a voi si dona,
salvando multitudine infinita?
Ma se da invidia o da viltà sì buona
e sì santa opra rimarrà impedita,
credetemi che prese quelle mura,
né Italia né Lamagna anco è sicura;
né qualunque altra parte ove s’adori
quel che volse per noi pender sul legno.
Né voi crediate aver lontani i Mori,
né che pel mar sia forte il vostro regno:
che s’altre volte quelli, uscendo fuori
di Zibeltaro e de l’Erculeo segno,
riportar prede da l’isole vostre,
che faranno or, s’avran le terre nostre?
Ma quando ancor nessuno onor, nessuno
util v’inanimasse a questa impresa,
commun debito è ben soccorrer l’uno
l’altro, che militiàn sotto una Chiesa.
Ch’io non vi dia rotti i nemici, alcuno
non sia chi tema, e con poca contesa;
che gente male esperta tutta parmi,
senza possanza, senza cor, senz’armi. —
Poté con queste e con miglior ragioni,
con parlare espedito e chiara voce
eccitar quei magnanimi baroni
Rinaldo, e quello esercito feroce:
e fu, com’è in proverbio, aggiunger sproni
al buon corsier che già ne va veloce.
Finito il ragionar, fece le schiere
muover pian pian sotto le lor bandiere.
Senza strepito alcun, senza rumore
fa il tripartito esercito venire:
lungo il fiume a Zerbin dona l’onore
di dover prima i barbari assalire;
e fa quelli d’Irlanda con maggiore
volger di via più tra campagna gire;
e i cavallieri e i fanti d’Inghilterra
col duca di Lincastro in mezzo serra.
Drizzati che gli ha tutti al lor camino,
cavalca il paladin lungo la riva,
e passa inanzi al buon duca Zerbino
e a tutto il campo che con lui veniva;
tanto ch’al re d’Orano e al re Sobrino
e agli altri lor compagni soprarriva,
che mezzo miglio appresso a quei di Spagna
guardavan da quel canto la campagna.
L’esercito cristian che con sì fida
e sì sicura scorta era venuto,
ch’ebbe il Silenzio e l’angelo per guida,
non poté ormai patir più di star muto.
Sentiti gli nimici, alzò le grida,
e de le trombe udir fe’ il suono arguto:
e con l’alto rumor ch’arrivò al cielo,
mandò ne l’ossa a’ Saracini il gelo.
Rinaldo inanzi agli altri il destrier punge;
e con la lancia per cacciarla in resta
lascia gli Scotti un tratto d’arco lunge,
ch’ogni indugio a ferir sì lo molesta.
Come groppo di vento talor giunge,
che si tra’ dietro un’orrida tempesta,
tal fuor di squadra il cavallier gagliardo
venìa spronando il corridor Baiardo.
Al comparir del paladin di Francia,
dan segno i Mori alle future angosce:
tremare a tutti in man vedi la lancia,
i piedi in staffa, e ne l’arcion le cosce.
Re Puliano sol non muta guancia,
che questo esser Rinaldo non conosce;
né pensando trovar sì duro intoppo,
gli muove il destrier contra di galoppo:
e su la lancia nel partir si stringe,
e tutta in sé raccoglie la persona;
poi con ambo gli sproni il destrier spinge,
e le redine inanzi gli abandona.
Da l’altra parte il suo valor non finge,
e mostra in fatti quel ch’in nome suona,
quanto abbia nel giostrare e grazia ed arte,
il figliuolo d’Amone, anzi di Marte.
Furo al segnar degli aspri colpi, pari,
che si posero i ferri ambi alla testa:
ma furo in arme ed in virtù dispari,
che l’un via passa, e l’altro morto resta.
Bisognan di valor segni più chiari,
che por con leggiadria la lancia in resta:
ma fortuna anco più bisogna assai;
che senza, val virtù raro o non mai.
La buona lancia il paladin racquista,
e verso il re d’Oran ratto si spicca,
che la persona avea povera e trista
di cor, ma d’ossa e di gran polpe ricca.
Questo por tra bei colpi si può in lista,
ben ch’in fondo allo scudo gli l’appicca:
e chi non vuol lodarlo, abbialo escuso,
perché non si potea giunger più in suso.
Non lo ritien lo scudo, che non entre,
ben che fuor sia d’acciar, dentro di palma;
e che da quel gran corpo uscir pel ventre
non faccia l’inequale e piccola alma.
Il destrier che portar si credea, mentre
durasse il lungo dì, sì grave salma,
riferì in mente sua grazie a Rinaldo,
ch’a quello incontro gli schivò un gran caldo.
Rotta l’asta, Rinaldo il destrier volta
tanto legger, che fa sembrar ch’abbia ale;
e dove la più stretta e maggior folta
stiparsi vede, impetuoso assale.
Mena Fusberta sanguinosa in volta
che fa l’arme parer di vetro frale:
tempra di ferro il suo tagliar non schiva,
che non vada a trovar la carne viva.
Ritrovar poche tempre e pochi ferri
può la tagliente spada, ove s’incappi,
ma targhe, altre di cuoio, altre di cerri,
giupe trapunte e attorcigliati drappi.
Giusto è ben dunque che Rinaldo atterri
qualunque assale, e fori e squarci e affrappi;
che non più si difende da sua spada,
ch’erba da falce, o da tempesta biada.
La prima schiera era già messa in rotta,
quando Zerbin con l’antiguardia arriva.
Il cavallier inanzi alla gran frotta
con la lancia arrestata ne veniva.
La gente sotto il suo pennon condotta,
con non minor fierezza lo seguiva:
tanti lupi parean, tanti leoni
ch’andassero assalir capre o montoni.
Spinse a un tempo ciascuno il suo cavallo,
poi che fur presso; e sparì immantinente
quel breve spazio, quel poco intervallo
che si vedea fra l’una e l’altra gente.
Non fu sentito mai più strano ballo;
che ferian gli Scozzesi solamente:
solamente i pagani eran distrutti,
come sol per morir fosser condutti.
Parve più freddo ogni pagan che ghiaccio;
parve ogni Scotto più che fiamma caldo.
I Mori si credean ch’avere il braccio
dovesse ogni cristian, ch’ebbe Rinaldo.
Mosse Sobrino i suoi schierati avaccio,
senza aspettar che lo ’nvitasse araldo:
de l’altra squadra questa era migliore
di capitano, d’arme e di valore.
D’Africa v’era la men trista gente;
ben che né questa ancor gran prezzo vaglia.
Dardinel la sua mosse incontinente,
e male armata, e peggio usa in battaglia;
ben ch’egli in capo avea l’elmo lucente,
e tutto era coperto a piastra e a maglia.
Io credo che la quarta miglior sia,
con la qual Isolier dietro venìa.
Trasone intanto, il buon duca di Marra,
che ritrovarsi all’alta impresa gode,
ai cavallieri suoi leva la sbarra,
e seco invita alle famose lode,
poi ch’Isolier con quelli di Navarra
entrar ne la battaglia vede ed ode.
Poi mosse Ariodante la sua schiera,
che nuovo duca d’Albania fatt’era.
L’alto rumor de le sonore trombe,
de’ timpani e de’ barbari stromenti,
giunti al continuo suon d’archi, di frombe,
di machine, di ruote e di tormenti;
e quel di che più par che ’l ciel ribombe,
gridi, tumulti, gemiti e lamenti;
rendeno un alto suon ch’a quel s’accorda,
con che i vicin, cadendo, il Nilo assorda.
Grande ombra d’ogn’intorno il cielo involve,
nata dal saettar de li duo campi;
l’alito, il fumo del sudor, la polve
par che ne l’aria oscura nebbia stampi.
Or qua l’un campo, or l’altro là si volve:
vedresti or come un segua, or come scampi;
ed ivi alcuno, o non troppo diviso,
rimaner morto ove ha il nimico ucciso.
Dove una squadra per stanchezza è mossa,
un’altra si fa tosto andare inanti.
Di qua di là la gente d’arme ingrossa:
là cavallieri, e qua si metton fanti.
La terra che sostien l’assalto, è rossa:
mutato ha il verde ne’ sanguigni manti;
e dov’erano i fiori azzurri e gialli,
giaceno uccisi or gli uomini e i cavalli.
Zerbin facea le più mirabil pruove
che mai facesse di sua età garzone:
l’esercito pagan che ’ntorno piove,
taglia ed uccide e mena a destruzione.
Ariodante alle sue genti nuove
mostra di sua virtù gran paragone;
e dà di sé timore e meraviglia
a quelli di Navarra e di Castiglia.
Chelindo e Mosco, i duo figli bastardi
del morto Calabrun re d’Aragona,
ed un che reputato fra’ gagliardi
era, Calamidor da Barcelona,
s’avean lasciato a dietro gli stendardi;
e credendo acquistar gloria e corona
per uccider Zerbin, gli furo adosso;
e ne’ fianchi il destrier gli hanno percosso.
Passato da tre lance il destrier morto
cade; ma il buon Zerbin subito è in piede;
ch’a quei ch’al suo cavallo han fatto torto,
per vendicarlo va dove gli vede:
e prima a Mosco, al giovene inaccorto,
che gli sta sopra, e di pigliar sel crede,
mena di punta, e lo passa nel fianco,
e fuor di sella il caccia freddo e bianco.
Poi che si vide tor, come di furto,
Chelindo il fratel suo, di furor pieno
venne a Zerbino, e pensò dargli d’urto;
ma gli prese egli il corridor pel freno:
trasselo in terra, onde non è mai surto,
e non mangiò mai più biada né fieno;
che Zerbin sì gran forza a un colpo mise,
che lui col suo signor d’un taglio uccise.
Come Calamidor quel colpo mira,
volta la briglia per levarsi in fretta;
ma Zerbin dietro un gran fendente tira,
dicendo: — Traditore, aspetta, aspetta! —
Non va la botta ove n’andò la mira,
non che però lontana vi si metta;
lui non poté arrivar, ma il destrier prese
sopra la groppa, e in terra lo distese.
Colui lascia il cavallo, e via carpone
va per campar, ma poco gli successe;
che venne caso che ’l duca Trasone
gli passò sopra, e col peso l’oppresse.
Ariodante e Lurcanio si pone
dove Zerbino è fra le genti spesse;
e seco hanno altri e cavallieri e conti,
che fanno ogn’opra che Zerbin rimonti.
Menava Ariodante il brando in giro,
e ben lo seppe Artalico e Margano;
ma molto più Etearco e Casimiro
la possanza sentir di quella mano:
i primi duo feriti se ne giro,
rimaser gli altri duo morti sul piano.
Lurcanio fa veder quanto sia forte;
che fere, urta, riversa e mette a morte.
Non crediate, Signor, che fra campagna
pugna minor che presso al fiume sia,
né ch’a dietro l’esercito rimagna,
che di Lincastro il buon duca seguia.
Le bandiere assalì questo di Spagna,
e molto ben di par la cosa gìa;
che fanti, cavallieri e capitani
di qua e di là sapean menar le mani.
Dinanzi vien Oldrado e Fieramonte,
un duca di Glocestra, un d’Eborace;
con lor Ricardo, di Varvecia conte,
e di Chiarenza il duca, Enrigo audace.
Han Matalista e Follicone a fronte,
e Baricondo ed ogni lor seguace.
Tiene il primo Almeria, tiene il secondo
Granata, tien Maiorca Baricondo.
La fiera pugna un pezzo andò di pare,
che vi si discernea poco vantaggio.
Vedeasi or l’uno or l’altro ire e tornare,
come le biade al ventolin di maggio,
o come sopra ’l lito un mobil mare
or viene or va, né mai tiene un viaggio.
Poi che fortuna ebbe scherzato un pezzo,
dannosa ai Mori ritornò da sezzo.
Tutto in un tempo il duca di Glocestra
a Matalista fa votar l’arcione;
ferito a un tempo ne la spalla destra
Fieramonte riversa Follicone:
e l’un pagano e l’altro si sequestra,
e tra gl’Inglesi se ne va prigione.
E Baricondo a un tempo riman senza
vita per man del duca di Chiarenza.
Indi i pagani tanto a spaventarsi,
indi i fedeli a pigliar tanto ardire,
che quei non facean altro che ritrarsi
e partirsi da l’ordine e fuggire,
e questi andar inanzi ed avanzarsi
sempre terreno, e spingere e seguire:
e se non vi giungea chi lor dié aiuto,
il campo da quel lato era perduto.
Ma Ferraù, che sin qui mai non s’era
dal re Marsilio suo troppo disgiunto,
quando vide fuggir quella bandiera,
e l’esercito suo mezzo consunto,
spronò il cavallo, e dove ardea più fiera
la battaglia, lo spinse; e arrivò a punto
che vide dal destrier cadere in terra
col capo fesso Olimpio da la Serra;
un giovinetto che col dolce canto,
concorde al suon de la cornuta cetra,
d’intenerire un cor si dava vanto,
ancor che fosse più duro che pietra.
Felice lui, se contentar di tanto
onor sapeasi, e scudo, arco e faretra
aver in odio, e scimitarra e lancia,
che lo fecer morir giovine in Francia!
Quando lo vide Ferraù cadere,
che solea amarlo e avere in molta estima,
si sente di lui sol via più dolere,
che di mill’altri che periron prima:
e sopra chi l’uccise in modo fere,
che gli divide l’elmo da la cima
per la fronte, per gli occhi e per la faccia,
per mezzo il petto, e morto a terra il caccia.
Né qui s’indugia; e il brando intorno ruota,
ch’ogni elmo rompe, ogni lorica smaglia;
a chi segna la fronte, a chi la gota,
ad altri il capo, ad altri il braccio taglia;
or questo or quel di sangue e d’alma vota:
e ferma da quel canto la battaglia,
onde la spaventata ignobil frotta
senza ordine fuggia spezzata e rotta.
Entrò ne la battaglia il re Agramante,
d’uccider gente e di far pruove vago;
e seco ha Baliverzo, Farurante,
Prusion, Soridano e Bambirago.
Poi son le genti senza nome tante,
che del lor sangue oggi faranno un lago,
che meglio conterei ciascuna foglia,
quando l’autunno gli arbori ne spoglia.
Agramante dal muro una gran banda
di fanti avendo e di cavalli tolta,
col re di Feza subito li manda,
che dietro ai padiglion piglin la volta,
e vadano ad opporsi a quei d’Irlanda,
le cui squadre vedea con fretta molta,
dopo gran giri e larghi avolgimenti,
venir per occupar gli alloggiamenti.
Fu ’l re di Feza ad esequir ben presto;
ch’ogni tardar troppo nociuto avria.
Raguna intanto il re Agramante il resto;
parte le squadre, e alla battaglia invia.
Egli va al fiume; che gli par ch’in questo
luogo del suo venir bisogno sia:
e da quel canto un messo era venuto
del re Sobrino a domandare aiuto.
Menava in una squadra più di mezzo
il campo dietro; e sol del gran rumore
tremar gli Scotti, e tanto fu il ribrezzo,
ch’abbandonavan l’ordine e l’onore.
Zerbin, Lurcanio e Ariodante in mezzo
vi restar soli incontra a quel furore;
e Zerbin, ch’era a pié, vi peria forse,
ma ’l buon Rinaldo a tempo se n’accorse.
Altrove intanto il paladin s’avea
fatto inanzi fuggir cento bandiere.
Or che l’orecchie la novella rea
del gran periglio di Zerbin gli fere,
ch’a piedi fra la gente cirenea
lasciato solo aveano le sue schiere,
volta il cavallo, e dove il campo scotto
vede fuggir, prende la via di botto.
Dove gli Scotti ritornar fuggendo
vede, s’appara, e grida: — Or dove andate?
perché tanta viltade in voi comprendo,
che a sì vil gente il campo abbandonate?
Ecco le spoglie, de le quali intendo
ch’esser dovean le vostre chiese ornate.
Oh che laude, oh che gloria, che ’l figliuolo
del vostro re si lasci a piedi e solo! —
D’un suo scudier una grossa asta afferra,
e vede Prusion poco lontano,
re d’Alvaracchie, e adosso se gli serra,
e de l’arcion lo porta morto al piano.
Morto Agricalte e Bambirago atterra:
dopo fere aspramante Soridano;
e come gli altri l’avria messo a morte,
se nel ferir la lancia era più forte.
Stringe Fusberta, poi che l’asta è rotta,
e tocca Serpentin, quel da la Stella.
Fatate l’arme avea, ma quella botta
pur tramortito il manda fuor di sella.
E così al duca de la gente scotta
fa piazza intorno spaziosa e bella;
sì che senza contesa un destrier puote
salir di quei che vanno a selle vote.
E ben si ritrovò salito a tempo,
che forse nol facea, se più tardava:
perché Agramante e Dardinello a un tempo,
Sobrin col re Balastro v’arrivava.
Ma egli, che montato era per tempo,
di qua e di là col brando s’aggirava,
mandando or questo or quel giù ne l’inferno
a dar notizia del viver moderno.
Il buon Rinaldo, il quale a porre in terra
i più dannosi avea sempre riguardo,
la spada contra il re Agramante afferra,
che troppo gli parea fiero e gagliardo
(facea egli sol più che mille altri guerra);
e se gli spinse adosso con Baiardo:
lo fere a un tempo ed urta di traverso,
sì che lui col destrier manda riverso.
Mentre di fuor con sì crudel battaglia,
odio, rabbia, furor l’un l’altro offende,
Rodomonte in Parigi il popul taglia,
le belle case e i sacri templi accende.
Carlo, ch’in altra parte si travaglia,
questo non vede, e nulla ancor ne ’ntende:
Odoardo raccoglie ed Arimanno
ne la città, col lor popul britanno.
A lui venne un scudier pallido in volto,
che potea a pena trar del petto il fiato.
— Ahimè! signor, ahimè — replica molto,
prima ch’abbia a dir altro incominciato:
— Oggi il romano Imperio, oggi è sepolto;
oggi ha il suo popul Cristo abandonato:
il demonio dal cielo è piovuto oggi,
perché in questa città più non s’alloggi.
Satanasso (perch’altri esser non puote)
strugge e ruina la città infelice.
Volgiti e mira le fumose ruote
de la rovente fiamma predatrice;
ascolta il pianto che nel ciel percuote;
e faccian fede a quel che ’l servo dice.
Un solo è quel ch’a ferro e a fuoco strugge
la bella terra, e inanzi ognun gli fugge. —
Quale è colui che prima oda il tumulto,
e de le sacre squille il batter spesso,
che vegga il fuoco a nessun altro occulto,
ch’a sé, che più gli tocca, e gli è più presso;
tal è il re Carlo, udendo il nuovo insulto,
e conoscendol poi con l’occhio istesso:
onde lo sforzo di sua miglior gente
al grido drizza e al gran rumor che sente.
Dei paladini e dei guerrier più degni
Carlo si chiama dietro una gran parte,
e vêr la piazza fa drizzare i segni;
che ’l pagan s’era tratto in quella parte.
Ode il rumor, vede gli orribil segni
di crudeltà, l’umane membra sparte.
Ora non più: ritorni un’altra volta
chi voluntier la bella istoria ascolta.