Già richiamava il bel nascente raggio
a l’opre ogni animal ch’in terra alberga,
quando venendo a i due guerrieri il saggio
portò il foglio e lo scudo e l’aurea verga.
"Accingetevi" disse "al gran viaggio
prima che ’l dí, che spunta, omai piú s’erga.
Eccovi qui quanto ho promesso e quanto
può de la maga superar l’incanto."
Erano essi già sorti e l’arme intorno
a le robuste membra avean già messe,
onde per vie che non rischiara il giorno
tosto seguono il vecchio, e son l’istesse
vestigia ricalcate or nel ritorno
che furon prima nel venire impresse;
ma giunti al letto del suo fiume: "Amici,
io v’accommiato:" ei disse "ite felici."
Gli accoglie il rio ne l’alto seno, e l’onda
soavemente in su gli spinge e porta,
come suol inalzar leggiera fronda
la qual da violenza in giú fu torta,
e poi gli espon sovra la molle sponda.
Quinci miràr la già promessa scorta,
vider picciola nave e in poppa quella
che guidar li dovea fatal donzella.
Crinita fronte essa dimostra, e ciglia
cortesi e favorevoli e tranquille;
e nel sembiante a gli angioli somiglia,
tanta luce ivi par ch’arda e sfaville.
La sua gonna or azzurra ed or vermiglia
diresti, e si colora in guise mille,
sí ch’uom sempre diversa a sé la vede
quantunque volte a riguardarla riede.
Cosí piuma talor, che di gentile
amorosa colomba il collo cinge,
mai non si scorge a se stessa simile,
ma in diversi colori al sol si tinge.
Or d’accesi rubin sembra un monile,
or di verdi smeraldi il lume finge,
or insieme gli mesce, e varia e vaga
in cento modi i riguardanti appaga.
"Entrate," dice "o fortunati, in questa
nave ond’io l’ocean secura varco,
cui destro è ciascun vento, ogni tempesta
tranquilla, e lieve ogni gravoso incarco.
Per ministra e per duce or me vi appresta
il mio signor, del favor suo non parco."
Cosí parlò la donna, e piú vicino
fece poscia a la sponda il curvo pino.
Come la nobil coppia ha in sé raccolta,
spinge la ripa e gli rallenta il morso,
ed avendo la vela a l’aure sciolta,
ella siede al governo e regge il corso.
Gonfio è il torrente sí ch’a questa volta
i navigli portar ben può su ’l dorso,
ma questo è sí leggier che ’l sosterebbe
qual altro rio per novo umor men crebbe.
Veloce sovra il natural costume
spingon la vela inverso il lido i venti:
biancheggian l’acque di canute spume,
e rotte dietro mormorar le senti.
Ecco giungono omai là dove il fiume
queta in letto maggior l’onde correnti,
e ne l’ampie voragini del mare
disperso o divien nulla o nulla appare.
A pena ha tocco la mirabil nave
de la marina allor turbata il lembo,
che spariscon le nubi e cessa il grave
Noto che minacciava oscuro nembo:
spiana i monti de l’onde aura soave
e solo increspa il bel ceruleo grembo,
e d’un dolce seren diffuso ride
il ciel, che sé piú chiaro unqua non vide.
Trascorse oltre Ascalona ed a mancina
andò la navicella invèr ponente,
e tosto a Gaza si trovò vicina
che fu porto di Gaza anticamente,
ma poi, crescendo de l’altrui ruina,
città divenne assai grande e possente;
ed eranvi le piagge allor ripiene
quasi d’uomini sí come d’arene.
Volgendo il guardo a terra i naviganti
scorgean di tende numero infinito:
miravan cavalier, miravan fanti
ire e tornar da la cittade al lito,
e da cameli onusti e da elefanti
l’arenoso sentier calpesto e trito;
poi del porto vedean ne’ fondi cavi
sorte e legate a l’ancore le navi,
altre spiegar le vele, e ne vedieno
altre i remi trattar veloci e snelle,
e da essi e da’ rostri il molle seno
spumar percosso in queste parti e in quelle.
Disse la donna allor: "Benché ripieno
il lido e ’l mar sia de le genti felle,
non ha insieme però le schiere tutte
il potente tiranno anco ridutte.
Sol dal regno d’Egitto e dal contorno
raccolte ha queste; or le lontane attende,
ché verso l’oriente e ’l mezzogiorno
il vasto imperio suo molto si stende.
Sí che sper’io che prima assai ritorno
fatto avrem noi che mova egli le tende:
egli o quel ch’in sua vece esser soprano
de l’essercito suo de’ capitano."
Mentre ciò dice, come aquila sòle
tra gli altri augelli trapassar secura
e sorvolando ir tanto appresso il sole
che nulla vista piú la raffigura,
cosí la nave sua sembra che vóle
tra legno e legno, e non ha tema o cura
che vi sia chi l’arresti o chi la segua;
e da lor s’allontana e si dilegua.
E ’n un momento incontra Raffia arriva,
città la qual in Siria appar primiera
a chi d’Egitto move; indi a la riva
sterilissima vien di Rinocera.
Non lunge un monte poi le si scopriva
che sporge sovra ’l mar la chioma altera
e i piè si lava ne l’instabil onde,
che l’ossa di Pompeo nel grembo asconde.
Poi Damiata scopre, e come porte
al mar tributo di celesti umori
per sette il Nilo sue famose porte
e per cento altre ancor foci minori;
e naviga oltre la città dal forte
greco fondata a i greci abitatori,
ed oltra Faro, isola già che lunge
giacque dal lido, al lido or si congiunge.
Rodi e Creta lontane inverso al polo
non scerne, e pur lungo Africa se ’n viene,
su ’l mar culta e ferace, a dentro solo
fertil di mostri e d’infeconde arene.
La Marmarica rade, e rade il suolo
dove cinque cittadi ebbe Cirene.
Qui Tolomitta e poi con l’onde chete
sorger si mira il fabuloso Lete.
La maggior Sirte a’ naviganti infesta,
trattasi in alto, invèr le piaggie lassa,
e ’l capo di Giudeca indietro resta,
e la foce di Magra indi trapassa.
Tripoli appar su ’l lido, e ’ncontra a questa
giace Malta fra l’onde occulta e bassa;
e poi riman con l’altre Sirti a tergo
Alzerbe, già de’ Lotofagi albergo.
Nel curvo lido poi Tunisi vede
che d’ambo i lati del suo golfo ha un monte.
Tunisi, ricca ed onorata sede
a par di quante n’ha Libia piú conte.
A lui di costa la Sicilia siede,
ed il gran Lilibeo gli inalza a fronte.
Or quivi addita la donzella a i due
guerrieri il loco ove Cartagin fue.
Giace l’alta Cartago: a pena i segni
de l’alte sue ruine il lido serba.
Muoiono le città, muoiono i regni,
copre i fasti e le pompe arena ed erba,
e l’uom d’esser mortal par che si sdegni:
oh nostra mente cupida e superba!
Giungon quinci a Biserta, e piú lontano
han l’isola de’ Sardi a l’altra mano.
Trascorser poi le piaggie ove i Numidi
menàr gia vita pastorale erranti.
Trovàr Bugia ed Algieri, infami nidi
di corsari, ed Oràn trovàr piú inanti;
e costeggiàr di Tingitana i lidi,
nutrice di leoni e d’elefanti,
ch’or di Marocco è il regno, e quel di Fessa;
e varcàr la Granata incontro ad essa.
Son già là dove il mar fra terra inonda
per via ch’esser d’Alcide opra si finse;
e forse è ver ch’una continua sponda
fosse, ch’alta ruina in due distinse.
Passovvi a forza l’oceano, e l’onda
Abila quinci e quindi Calpe spinse;
Spagna e Libia partio con foce angusta:
tanto mutar può lunga età vetusta!
Quattro volte era apparso il sol ne l’orto
da che la nave si spiccò dal lito,
né mai (ch’uopo non fu) s’accolse in porto,
e tanto del camino ha già fornito.
Or entra ne lo stretto e passa il corto
varco, e s’ingolla in pelago infinito.
Se ’l mar qui è tanto ove il terreno il serra,
che fia colà dov’egli ha in sen la terra?
Piú non si mostra omai tra gli alti flutti
la fertil Gade e l’altre due vicine.
Fuggite son le terre e i lidi tutti:
de l’onda il ciel, del ciel l’onda è confine.
Diceva Ubaldo allor: "Tu che condutti
n’hai, donna, in questo mar che non ha fine,
di’ s’altri mai qui giunse, o se piú inante
nel mondo ove corriamo have abitante."
Risponde: "Ercole, poi ch’uccisi i mostri
ebbe di Libia e del paese ispano,
e tutti scòrsi e vinti i lidi vostri,
non osò di tentar l’alto oceano:
segnò le mète, e ’n troppo brevi chiostri
l’ardir ristrinse de l’ingegno umano;
ma quei segni sprezzò ch’egli prescrisse., di veder vago e di saper, Ulisse.
Ei passò le Colonne, e per l’aperto
mare spiegò de’ remi il volo audace;
ma non giovogli esser ne l’onde esperto,
perché inghiottillo l’ocean vorace,
e giacque co ’l suo corpo anco coperto
il suo gran caso, ch’or tra voi si tace.
S’altri vi fu da’ venti a forza spinto,
o non tornovvi o vi rimase estinto;
sí ch’ignoto è ’l gran mar che solchi: ignote
isole mille e mille regni asconde;
né già d’abitator le terre han vòte,
ma son come le vostre anco feconde:
son esse atte al produr, né steril pote
esser quella virtú che ’l sol n’infonde."
Ripiglia Ubaldo allor: "Del mondo occulto,
dimmi quai sian le leggi e quale il culto."
Gli soggiunse colei: "Diverse bande
diversi han riti ed abiti e favelle:
altri adora le belve, altri la grande
comune madre, il sole altri e le stelle;
v’è chi d’abominevoli vivande
le mense ingombra scelerate e felle.
E ’n somma ognun che ’n qua da Calpe siede
barbaro è di costume, empio di fede."
"Dunque" a lei replicava il cavaliero
"quel Dio che scese a illuminar le carte
vuol ogni raggio ricoprir del vero
a questa che del mondo è sí gran parte?"
"No." rispose ella "anzi la fé di Piero
fiavi introdotta ed ogni civil arte;
né già sempre sarà che la via lunga
questi da’ vostri popoli disgiunga.
Tempo verrà che fian d’Ercole i segni
favola vile a i naviganti industri,
e i mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti ancor tra voi saranno illustri.
Fia che ’l piú ardito allor di tutti i legni
quanto circonda il mar circondi e lustri,
e la terra misuri, immensa mole,
vittorioso ed emulo del sole.
Un uom de la Liguria avrà ardimento
a l’incognito corso esporsi in prima;
né ’l minaccievol fremito del vento,
né l’inospito mar, né ’l dubbio clima,
né s’altro di periglio e di spavento
piú grave e formidabile or si stima,
faran che ’l generoso entro a i divieti
d’Abila angusti l’alta mente accheti.
Tu spiegherai, Colombo, a un novo polo
lontane sí le fortunate antenne,
ch’a pena seguirà con gli occhi il volo
la fama c’ha mille occhi e mille penne.
Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo
basti a i posteri tuoi ch’alquanto accenne,
ché quel poco darà lunga memoria
di poema dignissima e d’istoria."
Cosí disse ella; e per l’ondose strade
corre al ponente e piega al mezzogiorno
e vede come incontra il sol giú cade
e come a tergo lor rinasce il giorno.
E quando a punto i raggi e le rugiade
la bella aurora seminava intorno,
lor s’offrí di lontano oscuro un monte
che tra le nubi nascondea la fronte.
E ’l vedean poscia procedendo avante,
quando ogni nuvol già n’era rimosso,
a l’acute piramidi sembiante,
sottile invèr la cima e ’n mezzo grosso,
e mostrarsi talor cosí fumante
come quel che d’Encelado è su ’l dosso,
che per propria natura il giorno fuma
e poi la notte il ciel di fiamme alluma.
Ecco altre isole insieme, altre pendici
scoprian alfin, men erte ed elevate;
ed eran queste l’isole Felici,
cosí le nominò la prisca etate,
a cui tanto stimava i cieli amici
che credea volontarie e non arate
quivi produr le terre, e ’n piú graditi
frutti non culte germogliar le viti.
Qui non fallaci mai fiorir gli olivi
e ’l mèl dicea stillar da l’elci cave,
e scender giú da lor montagne i rivi
con acque dolci e mormorio soave,
e zefiri e rugiade i raggi estivi
temprarvi sí che nullo ardor v’è grave;
e qui gli elisi campi e le famose
stanze de le beate anime pose.
A queste or vien la donna, ed: "Omai sète
dal fin del corso" lor dicea "non lunge.
L’isole di Fortuna ora vedete,
di cui gran fama a voi ma incerta giunge.
Ben son elle feconde e vaghe e liete,
ma pur molto di falso al ver s’aggiunge."
Cosí parlando, assai presso si fece
a quella che la prima è de le diece.
Carlo incomincia allor: "Se ciò concede,
donna, quell’alta impresa ove ci guidi,
lasciami omai por ne la terra il piede
e veder questi inconosciuti lidi,
veder le genti e ’l culto di lor fede
e tutto quello ond’uom saggio m’invídi,
quando mi gioverà narrar altrui
le novità vedute e dir: `Io fui!’"
Gli rispose colei: "Ben degna in vero
la domanda è di te, ma che poss’io,
s’egli osta inviolabile e severo
il decreto de’ Cieli al bel desio?
ch’ancor vòlto non è lo spazio intero
ch’al grande scoprimento ha fisso Dio,
né lece a voi da l’ocean profondo
recar vera notizia al vostro mondo.
A voi per grazia e sovra l’arte e l’uso
de’ naviganti ir per quest’acque è dato,
e scender là dove è il guerrier rinchiuso
e ridurlo del mondo a l’altro lato.
Tanto vi basti, e l’aspirar piú suso
superbir fòra e calcitrar co ’l fato."
Qui tacque, e già parea piú bassa farsi
l’isola prima e la seconda alzarsi.
Ella mostrando gía ch’a l’oriente
tutte con ordin lungo eran dirette,
e che largo è fra lor quasi egualmente
quello spazio di mar che si framette.
Pònsi veder d’abitatrice gente
case e culture ed altri segni in sette;
tre deserte ne sono, e v’han le belve
securissima tana in monti e in selve.
Luogo è in una de l’erme assai riposto,
ove si curva il lido e in fuori stende
due larghe corna, e fra lor tiene ascosto
un ampio sen, e porto un scoglio rende,
ch’a lui la fronte e ’l tergo a l’onda ha opposto
che vien da l’alto e la respinge e fende.
S’inalzan quinci e quindi, e torreggianti
fan due gran rupi segno a’ naviganti.
Tacciono sotto i mar securi in pace
sovra ha di negre selve opaca scena,
e ’n mezzo d’esse una spelonca giace,
d’edera e d’ombre e di dolci acque amena.
Fune non lega qui, né co ’l tenace
morso le stanche navi ancora frena.
La donna in sí solinga e queta parte
entrava, e raccogliea le vele sparte.
"Mirate" disse poi "quell’alta mole
ch’a quel gran monte in su la cima siede.
Quivi fra cibi ed ozio e scherzi e fole
torpe il campion de la cristiana fede.
Voi con la guida del nascente sole
su per quell’erto moverete il piede;
né vi gravi il tardar, però che fòra,
se non la matutina, infausta ogn’ora.
Ben co ’l lume del dí ch’anco riluce
insino al monte andar per voi potrassi."
Essi al congedo de la nobil duce
poser nel lido desiato i passi,
e ritrovàr la via ch’a lui conduce
agevol sí ch’i piè non ne fur lassi;
ma quando v’arrivàr, da l’oceano
era il carro di Febo anco lontano.
Veggion che per dirupi e fra ruine
s’ascende a la sua cima alta e superba,
e ch’è fin là di nevi e di pruine
sparsa ogni strada: ivi ha poi fiori ed erba.
Presso al canuto mento il verde crine
frondeggia, e ’l ghiaccio fede a i gigli serba
ed a le rose tenere: cotanto
puote sovra natura arte d’incanto.
I duo guerrier, in luogo ermo e selvaggio
chiuso d’ombre, fermàrsi a piè del monte;
e come il ciel rigò co ’l novo raggio
il sol, de l’aurea luce eterno fonte:
"Su su" gridaro entrambi, e ’l lor viaggio
ricominciàr con voglie ardite e pronte.
Ma esce non so donde, e s’attraversa
fèra serpendo orribile e diversa.
Inalza d’oro squallido squamose
le creste e ’l capo, e gonfia il collo d’ira,
arde ne gli occhi, e le vie tutte ascose
tien sotto il ventre, e tòsco e fumo spira;
or rientra in se stessa, or le nodose
ruote distende, e sé dopo sé tira.
Tal s’appresenta a la solita guarda,
né però de’ guerrieri i passi tarda.
Già Carlo il ferro stringe e ’l serpe assale,
ma l’altro grida a lui: "Che fai? che tente?
per isforzo di man, con arme tale
vincer avisi il difensor serpente?"
Egli scote la verga aurea immortale
sí che la belva il sibilar ne sente,
e impaurita al suon, fuggendo ratta,
lascia quel varco libero e s’appiatta.
Piú suso alquanto il passo a lor contende
fero leon che rugge e torvo guata,
e i velli arrizza, e le caverne orrende
de la bocca vorace apre e dilata.
Si sferza con la coda e l’ire accende,
ma non è pria la verga a lui mostrata
ch’un secreto spavento al cor gli agghiaccia
l’ira e ’l nativo orgoglio, e ’n fuga il caccia.
Segue la coppia il suo camin veloce,
ma formidabile oste han già davante
di guerrieri animai, vari di voce,
vari di moto, vari di sembiante.
Ciò che di mostruoso e di feroce
erra fra ’l Nilo e i termini d’Atlante
par qui tutto raccolto, e quante belve
l’Ercinia ha in sen, quante l’ircane selve.
Ma pur sí fero essercito e sí grosso
non vien che lor respinga o che resista,
anzi (miracol novo) in fuga è mosso
da un picciol fischio e da una breve vista.
La coppia omai vittoriosa il dosso
de la montagna senza intoppo acquista,
se non se in quanto il gelido e l’alpino
de le rigide vie tarda il camino.
Ma poi che già le nevi ebber varcate
e superato il discosceso e l’erto,
un bel tepido ciel di dolce state
trovaro, e ’l pian su ’l monte ampio ed aperto.
Aure fresche mai sempre ed odorate
vi spiran con tenor stabile e certo,
né i fiati lor, sí come altrove sòle;
sopisce o desta, ivi girando, il sole;
né, come altrove suol, ghiacci ed ardori
nubi e sereni a quelle piaggie alterna,
ma il ciel di candidissimi splendori
sempre s’ammanta e non s’infiamma o verna,
e nudre a i prati l’erba, a l’erba i fiori,
a i fior l’odor, l’ombra a le piante eterna.
Siede su ’l lago e signoreggia intorno
i monti e i mari il bel palagio adorno.
I cavalier per l’alta aspra salita
sentiansi alquanto affaticati e lassi,
onde ne gian per quella via fiorita
lenti or movendo ed or fermando i passi.
Quando ecco un fonte, che a bagnar gli invita
l’asciutte labbia, alto cader da’ sassi
e da una larga vena, e con ben mille
zampilletti spruzzar l’erbe di stille.
Ma tutta insieme poi tra verdi sponde
in profondo canal l’acqua s’aduna,
e sotto l’ombra di perpetue fronde
mormorando se ’n va gelida e bruna,
ma trasparente sí che non asconde
de l’imo letto suo vaghezza alcuna;
e sovra le sue rive alta s’estolle
l’erbetta, e vi fa seggio fresco e molle.
"Ecco il fonte del riso, ed ecco il rio
che mortali perigli in sé contiene.
Or qui tener a fren nostro desio
ed esser cauti molto a noi conviene:
chiudiam l’orecchie al dolce canto e rio
di queste del piacer false sirene,
cosí n’andrem fin dove il fiume vago
si spande in maggior letto e forma un lago."
Quivi de’ cibi preziosa e cara
apprestata è una mensa in su le rive,
e scherzando se ’n van per l’acqua chiara
due donzellette garrule e lascive,
ch’or si spruzzano il volto, or fanno a gara
chi prima a un segno destinato arrive.
Si tuffano talor, e ’l capo e ’l dorso
scoprono alfin dopo il celato corso.
Mosser le natatrici ignude e belle
de’ duo guerrieri alquanto i duri petti,
sí che fermàrsi a riguardarle; ed elle
seguian pur i lor giochi e i lor diletti.
Una intanto drizzossi, e le mammelle
e tutto ciò che piú la vista alletti
mostrò dal seno in suso, aperto al cielo;
e ’l lago a l’altre membra era un bel velo.
Qual matutina stella esce de l’onde
rugiadosa e stillante, o come fuore
spuntò nascendo già da le feconde
spume de l’ocean la dea d’amore,
tal apparve costei, tal le sue bionde
chiome stillavan cristallino umore.
Poi girò gli occhi, e pur allor s’infinse
que’ duo vedere e in sé tutta si strinse;
e ’l crin, ch’in cima al capo avea raccolto
in un sol nodo, immantinente sciolse,
che lunghissimo in giú cadendo e folto
d’un aureo manto i molli avori involse.
Oh che vago spettacolo è lor tolto!
ma non men vago fu chi loro il tolse.
Cosí da l’acque e da’ capelli ascosa
a lor si volse lieta e vergognosa.
Rideva insieme e insieme ella arrossia,
ed era nel rossor piú bello il riso
e nel riso il rossor che le copria
insino al mento il delicato viso.
Mosse la voce poi sí dolce e pia
che fòra ciascun altro indi conquiso:
"Oh fortunati peregrin, cui lice
giungere in questa sede alma e felice!
Questo è il porto del mondo; e qui è il ristoro
de le sue noie, e quel piacer si sente
che già sentí ne’ secoli de l’oro
l’antica e senza fren libera gente.
L’arme, che sin a qui d’uopo vi foro,
potete omai depor securamente
e sacrarle in quest’ombra a la quiete,
ché guerrier qui solo d’Amor sarete,
e dolce campo di battaglia il letto
fiavi e l’erbetta morbida de’ prati.
Noi menarenvi anzi il regale aspetto
di lei che qui fa i servi suoi beati,
che v’accorrà nel bel numero eletto
di quei ch’a le sue gioie ha destinati.
Ma pria la polve in queste acque deporre
vi piaccia, e ’l cibo a quella mensa tòrre."
L’una disse cosí, l’altra concorde
l’invito accompagnò d’atti e di sguardi,
sí come al suon de le canore corde
s’accompagnano i passi or presti or tardi.
Ma i cavalieri hanno indurate e sorde
l’alme a que’ vezzi perfidi e bugiardi,
e ’l lusinghiero aspetto e ’l parlar dolce
di fuor s’aggira e solo i sensi molce.
E se di tal dolcezza entro trasfusa
parte penètra onde il desio germoglie,
tosto ragion ne l’arme sue rinchiusa
sterpa e riseca le nascenti voglie.
L’una coppia riman vinta e delusa,
l’altra se ’n va, né pur congedo toglie.
Essi entràr nel palagio, esse ne l’acque
tuffàrsi: la repulsa a lor sí spiacque.