Usciva omai dal molle e fresco grembo
de la gran madre sua la notte oscura,
aure lievi portando e largo nembo
di sua rugiada preziosa e pura;
e scotendo del vel l’umido lembo,
ne spargeva i fioretti e la verdura,
e i venticelli, dibattendo l’ali,
lusingavano il sonno de’ mortali.
Ed essi ogni pensier che ’l dí conduce
tuffato aveano in dolce oblio profondo.
Ma vigilando ne l’eterna luce
sedeva al suo governo il Re del mondo,
e rivolgea dal Cielo al franco duce
lo sguardo favorevole e giocondo;
quinci a lui ne inviava un sogno cheto
perché gli rivelasse alto decreto.
Non lunge a l’auree porte ond’esce il sole
è cristallina porta in oriente,
che per costume inanti aprir si sòle
che si dischiuda l’uscio al dí nascente.
Da questa escono i sogni, i quai Dio vòle
mandar per grazia a pura e casta mente;
da questa or quel ch’al pio Buglion discende
l’ali dorate inverso lui distende.
Nulla mai vision nel sonno offerse
altrui sí vaghe imagini o sí belle
come ora questa a lui, la qual gli aperse
i secreti del cielo e de le stelle;
onde, sí come entro uno speglio, ei scerse
ciò che là suso è veramente in elle.
Pareagli esser traslato in un sereno
candido e d’auree fiamme adorno e pieno;
e mentre ammira in quell’eccelso loco
l’ampiezza, i moti, i lumi e l’armonia,
ecco cinto di rai, cinto di foco,
un cavaliero incontra a lui venia,
e ’n suono, a lato a cui sarebbe roco
qual piú dolce è qua giú, parlar l’udia:
"Goffredo, non m’accogli? e non ragione
al fido amico? or non conosci Ugone?"
Ed ei gli rispondea: "Quel novo aspetto
che par d’un sol mirabilmente adorno,
da l’antica notizia il mio intelletto
sviat’ ha sí che tardi a lui ritorno."
Gli stendea poi con dolce amico affetto
tre fiate le braccia al collo intorno,
e tre fiate invan cinta l’imago
fuggia, qual leve sogno od aer vago.
Sorridea quegli, e: "Non già, come credi,"
dicea "son cinto di terrena veste:
semplice forma e nudo spirto vedi
qui cittadin de la città celeste.
Questo è tempio di Dio: qui son le sedi
de’ suoi guerrieri, e tu avrai loco in queste."
"Quando ciò fia?" rispose "il mortal laccio
sciolgasi omai, s’al restar qui m’è impaccio."
"Ben" replicogli Ugon "tosto raccolto
ne la gloria sarai de’ trionfanti;
pur militando converrà che molto
sangue e sudor là giú tu versi inanti.
Da te prima a i pagani esser ritolto
deve l’imperio de’ paesi santi,
e stabilirsi in lor cristiana reggia
in cui regnare il tuo fratel poi deggia.
Ma perché piú lo tuo desir s’avvive
ne l’amor di qua su, piú fiso or mira
questi lucidi alberghi e queste vive
fiamme che mente eterna informa e gira,
e ’n angeliche tempre odi le dive
sirene e ’l suon di lor celeste lira.
China" poi disse (e gli additò la terra)
"gli occhi a ciò che quel globo ultimo serra.
Quanto è vil la cagion ch’a la virtude
umana è colà giú premio e contrasto!
in che picciolo cerchio e fra che nude
solitudini è stretto il vostro fasto!
Lei come isola il mare intorno chiude,
e lui, ch’or ocean chiamat’è or vasto,
nulla eguale a tai nomi ha in sé di magno,
ma è bassa palude e breve stagno."
Cosí l’un disse; e l’altro in giuso i lumi
volse, quasi sdegnando, e ne sorrise,
ché vide un punto sol, mar, terre e fiumi,
che qui paion distinti in tante guise,
ed ammirò che pur a l’ombre, a i fumi,
la nostra folle umanità s’affise,
servo imperio cercando e muta fama,
né miri il ciel ch’a sé n’invita e chiama.
Onde rispose: "Poi ch’a Dio non piace
del mio carcer terreno anco disciorme,
prego che del camin, ch’è men fallace
fra gli errori del mondo, or tu m’informe."
"È" replicogli Ugon "la via verace
questa che tieni; indi non torcer l’orme:
sol che richiami dal lontano essiglio
il figliuol di Bertoldo io ti consiglio.
Perché se l’alta Providenza elesse
te de l’impresa sommo capitano,
destinò insieme ch’egli esser dovesse
de’ tuoi consigli essecutor soprano.
A te le prime parti, a lui concesse
son le seconde: tu sei capo, ei mano
di questo campo; e sostener sua vece
altrui non pote, e farlo a te non lece.
A lui sol di troncar non fia disdetto
il bosco c’ha gli incanti in sua difesa;
e da lui il campo tuo che, per difetto
di gente, inabil sembra a tanta impresa,
e par che sia di ritirarsi astretto,
prenderà maggior forza a nova impresa;
e i rinforzati muri e d’Oriente
supererà l’essercito possente."
Tacque, e ’l Buglion rispose: "Oh quanto grato
fòra a me che tornasse il cavaliero!
Voi che vedete ogni pensier celato,
sapete s’amo lui, se dico il vero.
Ma di’, con quai proposte od in qual lato
si deve a lui mandarne il messaggiero?
Vuoi ch’io preghi o comandi? e come questo
atto sarà legitimo ed onesto?"
Allor ripigliò l’altro: "Il Rege eterno,
che te di tante somme grazie onora,
vuol che da quegli onde ti diè il governo
tu sia onorato e riverito ancora.
Però non chieder tu (né senza scherno
forse del sommo imperio il chieder fòra),
ma richiesto concedi; ed al perdono
scendi degli altrui preghi al primo suono.
Guelfo ti pregherà (Dio sí l’inspira)
ch’assolva il fer garzon di quell’errore
in cui trascorse per soverchio d’ira,
sí che al campo egli torni ed al suo onore.
E bench’or lunge il giovene delira
e vaneggia ne l’ozio e ne l’amore,
non dubitar però che ’n pochi giorni
opportuno a grand’uopo ei non ritorni;
ché ’l vostro Piero, a cui lo Ciel comparte
l’alta notizia de’ secreti sui,
saprà drizzare i messaggieri in parte
ove certe novelle avran di lui,
e sarà lor dimostro il modo e l’arte
di liberarlo e di condurlo a vui.
Cosí al fin tutti i tuoi compagni erranti
ridurrà il Ciel sotto i tuoi segni santi.
Or chiuderò il mio dir con una breve
conclusion che so ch’a te fia cara:
sarà il tuo sangue al suo commisto, e deve
progenie uscirne gloriosa e chiara."
Qui tacque, e sparve come fumo leve
al vento o nebbia al sole arida e rara;
e sgombrò il sonno, e gli lasciò nel petto
di gioia e di stupor confuso affetto.
Apre allora le luci il pio Buglione
e nato vede e già cresciuto il giorno,
onde lascia i riposi, e sovrapone
l’arme a le membra faticose intorno.
E poco stante a lui nel padiglione
venieno i duci al solito soggiorno,
ove a consiglio siedono, e per uso
ciò ch’altrove si fa quivi è concluso.
Quivi il buon Guelfo, che ’l novel pensiero
infuso avea ne l’inspirata mente,
incominciando a ragionar primiero
disse a Goffredo: "O principe clemente,
perdono a chieder ne vegn’io, ch’in vero
è perdon di peccato anco recente,
onde potrà parer per aventura
frettolosa dimanda ed immatura;
ma pensando che chiesto al pio Goffredo
per lo forte Rinaldo è tal perdono,
e riguardando a me che in grazia il chiedo
che vile a fatto intercessor non sono,
agevolmente d’impetrar mi credo
questo ch’a tutti fia giovevol dono.
Deh! consenti ch’ei rieda e che, in ammenda
del fallo, in pro comune il sangue spenda.
E chi sarà, s’egli non è, quel forte
ch’osi troncar le spaventose piante?
chi girà incontra a i rischi de la morte
con piú intrepido petto e piú costante?
Scoter le mura ed atterrar le porte
vedrailo, e salir solo a tutti inante.
Rendi al tuo campo omai, rendi per Dio
lui ch’è sua alta speme e suo desio.
Rendi il nipote a me, sí valoroso
e pronto essecutor rendi a te stesso;
né soffrir ch’egli torpa in vil riposo,
ma rendi insieme la sua gloria ad esso.
Segua il vessillo tuo vittorioso,
sia testimonio a sua virtú concesso,
faccia opre di sé degne in chiara luce
e rimirando te maestro e duce."
Cosí pregava, e ciascun altro i preghi
con favorevol fremito seguia.
Onde Goffredo allor, quasi egli pieghi
la mente a cosa non pensata in pria,
"Come esser può" dicea "che grazia i’ neghi
che da voi si dimanda e si desia?
Ceda il rigore, e sia ragione e legge
ciò che ’l consenso universale elegge.
Torni Rinaldo, e da qui inanzi affrene
piú moderato l’impeto de l’ire,
e risponda con l’opre a l’alta spene
di lui concetta ed al comun desire.
Ma il richiamarlo, o Guelfo, a te conviene:
frettoloso egli fia, credo, al venire;
tu scegli il messo, e tu l’indrizza dove
pensi che ’l fero giovene si trove."
Tacque, e disse sorgendo il guerrier dano:
"Esser io chieggio il messaggier che vada,
né ricuso camin dubbio o lontano
per far il don de l’onorata spada."
Questi è di cor fortissimo e di mano,
onde al buon Guelfo assai l’offerta aggrada:
vuol che sia l’un de’ messi e che sia l’altro
Ubaldo, uom cauto ed aveduto e scaltro.
Veduti Ubaldo in giovenezza e cerchi
vari costumi avea, vari paesi,
peregrinando da i piú freddi cerchi
del nostro mondo a gli Etiopi accesi,
e come uom che virtute e senno merchi,
le favelle, l’usanze e i riti appresi;
poscia in matura età da Guelfo accolto
fu tra’ compagni, e caro a lui fu molto.
A tai messaggi l’onorata cura
di richiamar l’alto campion si diede;
e gli indrizzava Guelfo a quelle mura
tra cui Boemondo ha la sua regia sede,
ché per publica fama, e per secura
opinion, ch’egli vi sia si crede.
Ma ’l buon romito, che lor mal diretti
conosce, entra fra loro e turba i detti,
e dice: "O cavalier, seguendo il grido
de la fallace opinion vulgare,
duce seguite temerario e infido
che vi fa gire indarno e traviare.
Or d’Ascalona nel propinquo lido
itene, dove un fiume entra nel mare.
Quivi fia che v’appaia uom nostro amico:
credete a lui; ciò che diravvi, io ’l dico.
Ei molto per sé vede, e molto intese
del preveduto vostro alto viaggio
(già gran tempo ha) da me: so che cortese
altrettanto vi fia quanto egli è saggio."
Cosí lor disse: e piú da lui non chiese
Carlo o l’altro che seco iva messaggio,
ma furo ubidienti a le parole
che spirito divin dettar gli suole.
Preser commiato, e sí il desio gli sprona
che, senza indugio alcun posti in camino,
drizzano il lor corso ad Ascalona
dove a i lidi si frange il mar vicino.
E non udian ancor come risuona
il roco ed alto fremito marino,
quando giunsero a un fiume il qual di nova
acqua accresciuto è per novella piova,
sí che non può capir dentro al suo letto,
e se ’n va piú che stral corrente e presto.
Mentre essi stan sospesi, a lor d’aspetto
venerabile appare un vecchio onesto,
coronato di faggio, in lungo e schietto
vestir che di lin candido è contesto.
Scote questi una verga, e ’l fiume calca
co’ piedi asciutti e contra il corso il valca.
Sí come soglion là vicino al polo,
s’avien che ’l verno i fiumi agghiacci e indure,
correr su ’l Ren le villanelle a stuolo
con lunghi strisci e sdrucciolar secure,
cosí ei ne vien sovra l’instabil suolo
di queste acque non gelide e non dure;
e tosto colà giunse onde in lui fisse
tenean le luci i due guerrieri, e disse:
"Amici, dura e faticosa inchiesta
seguite; e d’uopo è ben ch’altri vi guidi,
ché ’l cercato guerrier lunge è da questa
terra in paesi incogniti ed infidi.
Quanto, oh quanto de l’opra anco vi resta!
quanti mar correrete e quanti lidi!
E convien che si stenda il cercar vostro
oltre i confini ancor del mondo nostro.
Ma non vi spiaccia entrar ne le nascose
spelonche ov’ho la mia secreta sede,
ch’ivi udrete da me non lievi cose
e ciò ch’a voi saper piú si richiede."
Disse, e ch’a lor dia loco a l’acqua impose;
ed ella tosto si ritira e cede,
e quinci e quindi di montagna in guisa
curvata pende e ’n mezzo appar divisa.
Ei, presili per man, ne le piú interne
profondità sotto del rio lor mena.
Debile e incerta luce ivi si scerne,
qual tra boschi di Cinzia ancor non piena;
ma pur gravide d’acqua ampie caverne
veggiono, onde tra noi sorge ogni vena
la qual rampilli in fonte, o in fiume vago
discorra, o stagni o si dilati in lago.
E veder ponno onde il Po nasca ed onde
Idaspe, Gange, Eufrate, Istro derivi,
ond’esca pria la Tana, e non asconde
gli occulti suoi princípi il Nilo quivi.
Trovano un rio piú sotto, il qual diffonde
vivaci zolfi e vaghi argenti e vivi;
questi il sol poi raffina, e ’l licor molle
stringe in candide masse e in auree zolle.
E miran d’ogni intorno il ricco fiume
di care pietre il margine dipinto;
onde, come a piú fiaccole s’allume,
splende quel loco, e ’l fosco orror n’è vinto.
Quivi scintilla con ceruleo lume
il celeste zafiro ed il giacinto;
vi fiammeggia il carbonchio, e luce il saldo
diamante, e lieto ride il bel smeraldo.
Stupidi i guerrier vanno e ne le nove
cose sí tutto il lor pensier s’impiega
che non fanno alcun motto. Al fin pur move
la voce Ubaldo e la sua scorta prega:
"Deh, padre, dinne ove noi siamo ed ove
ci guidi, e tua condizion ne spiega,
ch’io non so se ’l ver miri o sogno od ombra,
cosí alto stupore il cor m’ingombra."
Risponde: "Sète voi nel grembo immenso
de la terra, che tutto in sé produce;
né già potreste penetrar nel denso
de le viscere sue senza me duce.
Vi scòrgo al mio palagio, il qual accenso
tosto vedrete di mirabil luce.
Nacqui io pagan, ma poi ne le sant’acque
rigenerarmi a Dio per grazia piacque.
Né in virtú fatte son d’angioli stigi
l’opere mie meravigliose e conte
(tolga Dio ch’usi note o suffumigi
per isforzar Cocito e Flegetonte),
ma spiando me ’n vo’ da’ lor vestigi
qual in sé virtú celi o l’erba o ’l fonte,
e gli altri arcani di natura ignoti
contemplo, e de le stelle i vari moti.
Però che non ognor lunge dal cielo
tra sotterranei chiostri è la mia stanza,
ma su ’l Libano spesso e su ’l Carmelo
in aerea magion fo dimoranza;
ivi spiegansi a me senza alcun velo
Venere e Marte in ogni lor sembianza,
e veggio come ogn’altra o presto o tardi
roti, o benigna o minaccievol guardi.
E sotto i piè mi veggio or folte or rade
le nubi, or negre ed or pinte da Iri;
e generar le pioggie e le rugiade
risguardo, e come il vento obliquo spiri,
come il folgor s’infiammi e per quai strade
tortuose in giú rispinto ei si raggiri;
scorgo comete e fochi altri sí presso
che soleva invaghir già di me stesso.
Di me medesmo fui pago cotanto
ch’io stimai già che ’l mio saper misura
certa fosse e infallibile di quanto
può far l’alto Fattor de la natura;
ma quando il vostro Piero al fiume santo
m’asperse il crine e lavò l’alma impura,
drizzò piú su il mio guardo, e ’l fece accorto
ch’ei per se stesso è tenebroso e corto.
Conobbi allor ch’augel notturno al sole
è nostra mente a i rai del primo Vero,
e di me stesso risi e de le fole
che già cotanto insuperbir mi fèro;
ma pur seguito ancor, come egli vòle,
le solite arti e l’uso mio primiero.
Ben son in parte altr’uom da quel ch’io fui,
ch’or da lui pendo e mi rivolgo a lui,
e in lui m’acqueto. Egli comanda e insegna,
mastro insieme e signor sommo e sovrano,
né già per nostro mezzo oprar disdegna
cose degne talor de la sua mano.
Or sarà cura mia ch’al campo vegna
l’invitto eroe dal suo carcer lontano,
ch’ei la m’impose; e già gran tempo aspetto
il venir vostro, a me per lui predetto."
Cosí con lor parlando, al loco viene
ov’egli ha il suo soggiorno e ’l suo riposo.
Questo è in forma di speco e in sé contiene
camare e sale, grande e spazioso.
E ciò che nudre entro le ricche vene
di piú chiaro la terra e prezioso,
splende ivi tutto; ed ei n’è in guisa ornato
ch’ogni suo fregio è non fatto, ma nato.
Non mancàr qui cento ministri e cento
che accorti e pronti a servir gli osti foro,
né poi in mensa magnifica d’argento
mancàr gran vasi e di cristallo e d’oro;
ma quando sazio il natural talento
fu de’ cibi e la sete estinta in loro:
"Tempo è ben" disse a i cavalieri il mago
"che ’l maggior desir vostro omai sia pago."
Quivi ricominciò: "L’opre e le frodi
note in parte a voi son de l’empia Armida:
come ella al campo venne, e con quai modi
molti guerrier ne trasse e lor fu guida.
Sapete ancor che di tenaci nodi
gli avinse poscia, albergatrice infida,
e ch’indi a Gaza gli inviò con molti
custodi, e che tra via furon disciolti.
Or vi narrerò quel ch’appresso occorse,
vera istoria da voi non anco intesa.
Poi che la maga rea vide ritòrse
la preda sua, già con tant’arte presa,
ambe le mani per dolor si morse
e fra sé disse di disdegno accesa:
"Ah! vero unqua non fia che d’aver tanti
miei prigion liberati egli si vanti.
Se gli altri sciolse, ei serva ed ei sostegna
le pene altrui serbate e ’l lungo affanno;
né questo anco mi basta: i’ vo’ che vegna
su gli altri tutti universale il danno."
Cosí tra sé dicendo, ordir disegna
questo ch’or udirete iniquo inganno.
Viensene al loco ove Rinaldo vinse
in pugna i suoi guerrieri, e parte estinse.
Quivi egli avendo l’arme sue deposto,
indosso quelle d’un pagan si pose;
forse perché bramava irsene ascosto
sotto insegne men note e men famose.
Prese l’armi la maga, e in esse tosto
un tronco busto avolse e poi l’espose;
l’espose in ripa a un fiume ove doveva
stuol de’ Franchi arrivar, e ’l prevedeva.
E questo antiveder potea ben ella
che mandar mille spie solea d’intorno,
onde spesso del campo avea novella
e s’altri indi partiva o fea ritorno;
oltre che con gli spirti anco favella
sovente, e fa con lor lungo soggiorno.
Collocò dunque il corpo morto in parte
molto opportuna a sua ingannevol arte.
Non lunge un sagacissimo valletto
pose, di panni pastorai vestito,
e impose lui ciò ch’esser fatto o detto
fintamente doveva; e fu essequito.
Questi parlò co’ vostri, e di sospetto
sparse quel seme in lor ch’indi nutrito
fruttò risse e discordie, e quasi al fine
sediziose guerre e cittadine.
Ché fu, com’ella disegnò, creduto
per opra del Buglion Rinaldo ucciso,
benché alfine il sospetto a torto avuto
del ver si dileguasse al primo aviso.
Cotal d’Armida l’artificio astuto
primieramente fu qual io diviso.
Or udirete ancor come seguisse
poscia Rinaldo, e quel ch’indi avenisse.
Qual cauta cacciatrice, Armida aspetta
Rinaldo al varco. Ei su l’Oronte giunge,
ove un rio si dirama e, un’isoletta
formando, tosto a lui si ricongiunge;
e ’n su la riva una colonna eretta
vede, e un picciol battello indi non lunge.
Fisa egli tosto gli occhi al bel lavoro
del bianco marmo e legge in lettre d’oro:
"O chiunque tu sia, che voglia o caso
peregrinando adduce a queste sponde,
meraviglie maggior l’orto o l’occaso
non ha di ciò che l’isoletta asconde.
Passa, se vuoi vederla." È persuaso
tosto l’incauto a girne oltra quell’onde;
e perché mal capace era la barca,
gli scudieri abbandona ed ei sol varca.
Come è là giunto, cupido e vagante
volge intorno lo sguardo, e nulla vede
fuor ch’antri ed acque e fiori ed erbe e piante,
onde quasi schernito esser si crede;
ma pur quel loco è cosí lieto e in tante
guise l’alletta ch’ei si ferma e siede,
e disarma la fronte e la ristaura
al soave spirar di placid’aura.
Il fiume gorgogliar fra tanto udio
con novo suono, e là con gli occhi corse,
e mover vide un’onda in mezzo al rio
che in se stessa si volse e si ritorse;
e quinci alquanto d’un crin biondo uscio,
e quinci di donzella un volto sorse,
e quinci il petto e le mammelle, e de la
sua forma infin dove vergogna cela.
Cosí dal palco di notturna scena
o ninfa o dea, tarda sorgendo, appare.
Questa, benché non sia vera sirena
ma sia magica larva, una ben pare
di quelle che già presso a la tirrena
piaggia abitàr l’insidioso mare;
né men ch’in viso bella, in suono è dolce,
e cosí canta, e ’l cielo e l’aure molce:
`O giovenetti, mentre aprile e maggio
v’ammantan di fiorite e verdi spoglie,
di gloria e di virtú fallace raggio
la tenerella mente ah non v’invoglie!
Solo chi segue ciò che piace è saggio,
e in sua stagion de gli anni il frutto coglie.
Questo grida natura. Or dunque voi
indurarete l’alma a i detti suoi?
Folli, perché gettate il caro dono,
che breve è sí, di vostra età novella?
Nome, e senza soggetto idoli sono
ciò che pregio e valore il mondo appella.
La fama che invaghisce a un dolce suono
voi superbi mortali, e par sí bella,
è un’ecco, un sogno, anzi del sogno un’ombra,
ch’ad ogni vento si dilegua e sgombra.
Goda il corpo sicuro, e in lieti oggetti
l’alma tranquilla appaghi i sensi frali;
oblii le noie andate, e non affretti
le sue miserie in aspettando i mali.
Nulla curi se ’l ciel tuoni o saetti,
minacci egli a sua voglia e infiammi strali.
Questo è saver, questa è felice vita:
sí l’insegna natura e sí l’addita.’
Sí canta l’empia, e ’l giovenetto al sonno
con note invoglia sí soavi e scórte.
Quel serpe a poco a poco, e si fa donno
sovra i sensi di lui possente e forte;
né i tuoni omai destar, non ch’altri, il ponno
da quella queta imagine di morte.
Esce d’aguato allor la falsa maga
e gli va sopra, di vendetta vaga.
Ma quando in lui fissò lo sguardo e vide
come placido in vista egli respira,
e ne’ begli occhi un dolce atto che ride,
benché sian chiusi (or che fia s’ei li gira?),
pria s’arresta sospesa, e gli s’asside
poscia vicina, e placar sente ogn’ira
mentre il risguarda; e ’n su la vaga fronte
pende omai sí che par Narciso al fonte.
E quei ch’ivi sorgean vivi sudori
accoglie lievemente in un suo velo,
e con un dolce ventillar gli ardori
gli va temprando de l’estivo cielo.
Cosí (chi ’l crederia?) sopiti ardori
d’occhi nascosi distempràr quel gelo
che s’indurava al cor piú che diamante,
e di nemica ella divenne amante.
Di ligustri, di gigli e de le rose
le quai fiorian per quelle piaggie amene,
con nov’arte congiunte, indi compose
lente ma tenacissime catene.
Queste al collo, a le braccia, a i piè gli pose:
cosí l’avinse e cosí preso il tiene;
quinci, mentre egli dorme, il fa riporre
sovra un suo carro, e ratta il ciel trascorre.
Né già ritorna di Damasco al regno,
né dove ha il suo castello in mezzo a l’onde;
ma ingelosita di sí caro pegno,
e vergognosa del suo amor, s’asconde
ne l’oceano immenso, ove alcun legno
rado, o non mai, va de le nostre sponde,
fuor tutti i nostri lidi; e quivi eletta
per solinga sua stanza è un’isoletta.
Un’isoletta la qual nome prende
con le vicine sue da la Fortuna.
Quinci ella in cima a una montagna ascende
disabitata e d’ombre oscura e bruna,
e per incanto a lei nevose rende
le spalle e i fianchi, e senza neve alcuna
gli lascia il capo verdeggiante e vago,
e vi fonda un palagio appresso un lago,
ove in perpetuo april molle amorosa
vita seco ne mena il suo diletto.
Or da cosí lontana e cosí ascosa
prigion trar voi dovete il giovenetto,
e vincer de la timida e gelosa
le guardie, ond’è difeso il monte e ’l tetto;
e già non mancherà chi là vi scòrga,
e chi per l’alta impresa arme vi porga.
Trovarete, del fiume a pena sorti,
donna giovin di viso, antica d’anni,
ch’a i lunghi crini in su la fronte attorti
fia nota ed al color vario de’ panni.
Questa per l’alto mar fia che vi porti
piú ratta che non spiega aquila i vanni,
piú che non vola il folgore; né guida
la trovarete al ritornar men fida.
A piè del monte ove la maga alberga,
sibilando strisciar novi pitoni
e cinghiali arrizzar l’aspre lor terga
ed aprir la gran bocca orsi e leoni
vedrete; ma scotendo una mia verga,
temeranno appressarsi ove ella suoni.
Poi via maggior (se dritto il ver s’estima)
si troverà il periglio in su la cima.
Un fonte sorge in lei che vaghe e monde
ha l’acque sí che i riguardanti asseta;
ma dentro a i freddi suoi cristalli asconde
di tòsco estran malvagità secreta,
ch’un picciol sorso di sue lucide onde
inebria l’alma tosto e la fa lieta,
indi a rider uom move, e tanto il riso
s’avanza alfin ch’ei ne rimane ucciso.
Lunge la bocca disdegnosa e schiva
torcete voi da l’acque empie omicide,
né le vivande poste in verde riva
v’allettin poi, né le donzelle infide
che voce avran piacevole e lasciva
e dolce aspetto che lusinga e ride;
ma voi, gli sguardi e le parole accorte
sprezzando, entrate pur ne l’alte porte.
Dentro è di muri inestricabil cinto
che mille torce in sé confusi giri,
ma in breve foglio io ve ’l darò distinto,
sí che nessun error fia che v’aggiri.
Siede in mezzo un giardin del labirinto
che par che da ogni fronde amore spiri;
quivi in grembo a la verde erba novella
giacerà il cavaliero e la donzella.
Ma come essa lasciando il caro amante
in altra parte il piede avrà rivolto,
vuo’ ch’a lui vi scopriate, e d’adamante
un scudo ch’io darò gli alziate al volto,
sí ch’egli vi si specchi, e ’l suo sembiante
veggia e l’abito molle onde fu involto,
ch’a tal vista potrà vergogna e sdegno
scacciar dal petto suo l’amor indegno.
Altro che dirvi omai nulla m’avanza
se non ch’assai securi ir ne potrete
e penetrar de l’intricata stanza
ne le piú interne parti e piú secrete,
perché non fia che magica possanza
a voi ritardi il corso o ’l passo viete;
né potrà pur, cotal virtú vi guida,
il giunger vostro antiveder Armida.
Né men secura da gli alberghi suoi
l’uscita vi sarà poscia e ’l ritorno.
Ma giunge omai l’ora del sonno, e voi
sorger diman dovete a par co ’l giorno."
Cosí lor disse, e li menò dopoi
ove essi avean la notte a far soggiorno.
Ivi lasciando lor lieti e pensosi,
si ritrasse il buon vecchio a i suoi riposi.