Già l’aura messaggiera erasi desta
a nunziar che se ne vien l’aurora;
ella intanto s’adorna, e l’aurea testa
di rose colte in paradiso infiora,
quando il campo, ch’a l’arme omai s’appresta,
in voce mormorava alta e sonora,
e prevenia le trombe; e queste poi
dièr piú lieti e canori i segni suoi.
Il saggio capitan con dolce morso
i desideri lor guida e seconda,
ché piú facil saria svolger il corso
presso Cariddi a la volubil onda,
o tardar Borea allor che scote il dorso,
de l’Apennino, e i legni in mare affonda.
Gli ordina, gl’incamina, e ’n suon gli regge
rapido sí, ma rapido con legge.
Ali ha ciascuno al core ed ali al piede,
né del suo ratto andar però s’accorge;
ma quando il sol gli aridi campi fiede
con raggi assai ferventi e in alto sorge,
ecco apparir Gierusalem si vede,
ecco additar Gierusalem si scorge,
ecco da mille voci unitamente
Gierusalemme salutar si sente.
Cosí di naviganti audace stuolo,
che mova a ricercar estranio lido,
e in mar dubbioso e sotto ignoto polo
provi l’onde fallaci e ’l vento infido,
s’al fin discopre il desiato suolo,
il saluta da lunge in lieto grido,
e l’uno a l’altro il mostra, e intanto oblia
la noia e ’l mal de la passata via.
Al gran piacer che quella prima vista
dolcemente spirò ne l’altrui petto,
alta contrizion successe, mista
di timoroso e riverente affetto.
Osano a pena d’inalzar la vista
vèr la città, di Cristo albergo eletto,
dove morí, dove sepolto fue,
dove poi rivestí le membra sue.
Semmessi accenti e tacite parole,
rotti singulti e flebili sospiri
de la gente ch’in un s’allegra e duole,
fan che per l’aria un mormorio s’aggiri
qual ne le folte selve udir si suole
s’avien che tra le frondi il vento spiri,
o quale infra gli scogli o presso a i lidi
sibila il mar percosso in rauchi stridi.
Nudo ciascuno il piè calca il sentiero,
ché l’essempio de’ duci ogn’altro move,
serico fregio o d’or, piuma o cimiero
superbo dal suo capo ognun rimove;
ed insieme del cor l’abito altero
depone, e calde e pie lagrime piove.
Pur quasi al pianto abbia la via rinchiusa,
cosí parlando ognun se stesso accusa:
"Dunque ove tu, Signor, di mille rivi
sanguinosi il terren lasciasti asperso,
d’amaro pianto almen duo fonti vivi
in sí acerba memoria oggi io non verso?
Agghiacciato mio cor, ché non derivi
per gli occhi e stilli in lagrime converso?
Duro mio cor, ché non ti spetri e frangi?
Pianger ben merti ognor, s’ora non piangi."
De la cittade intanto un ch’a la guarda
sta d’alta torre, e scopre i monti e i campi,
colà giuso la polve alzarsi guarda,
sí che par che gran nube in aria stampi:
par che baleni quella nube ed arda,
come di fiamme gravida e di lampi;
poi lo splendor de’ lucidi metalli,
distingue, e scerne gli uomini e i cavalli.
Allor gridava: "Oh qual per l’aria stesa
polvere i’ veggio! oh come par che splenda!
Su, suso, o cittadini, a la difesa
s’armi ciascun veloce, e i muri ascenda:
già presente è il nemico." E poi, ripresa
la voce: "Ognun s’affretti, e l’arme prenda;
ecco, il nemico è qui: mira la polve
che sotto orrida nebbia il ciel involve."
I semplici fanciulli, e i vecchi inermi,
e ’l vulgo de le donne sbigottite,
che non sanno ferir né fare schermi,
traean supplici e mesti a le meschite.
Gli altri di membra e d’animo piú fermi
già frettolosi l’arme avean rapite.
Accorre altri a le porte, altri a le mura;
il re va intorno, e ’l tutto vede e cura.
Gli ordini diede, e poscia ei si ritrasse
ove sorge una torre infra due porte,
sí ch’è presso al bisogno; e son piú basse
quindi le piaggie e le montagne scorte.
Volle che quivi seco Erminia andasse,
Erminia bella, ch’ei raccolse in corte
poi ch’a lei fu da le cristiane squadre
presa Antiochia, e morto il re suo padre.
Clorinda intanto incontra a i Franchi è gita:
molti van seco, ed ella a tutti è inante;
ma in altra parte, ond’è secreta uscita,
sta preparato a le riscosse Argante.
La generosa i suoi seguacl incita
co’ detti e con l’intrepido sembiante:
"Ben con alto principio a noi conviene"
dicea "fondar de l’Asia oggi la spene."
Mentre ragiona a i suoi, non lunge scorse
un franco stuol addur rustiche prede,
che, com’è l’uso, a depredar precorse;
or con greggie ed armenti al campo riede.
Ella vèr lor, e verso lei se ’n corse
il duce lor, ch’a sé venir la vede.
Gardo il duce è nomato, uom di gran possa,
ma non già tal ch’a lei resister possa.
Gardo a quel fero scontro è spinto a terra
in su gli occhi de’ Franchi e de’ pagani,
ch’allor tutti gridàr, di quella guerra
lieti augúri prendendo, i quai fur vani.
Spronando adosso a gli altri ella si serra,
e val la destra sua per cento mani.
Seguirla i suoi guerrier per quella strada
che spianàr gli urti, e che s’aprí la spada.
Tosto la preda al predator ritoglie;
cede lo stuol de’ Franchi a poco a poco,
tanto ch’in cima a un colle ei si raccoglie,
ove aiutate son l’arme dal loco.
Allor, sí come turbine si scioglie
e cade da le nubi aereo fuoco,
il buon Tancredi, a cui Goffredo accenna,
sua squadra mosse, ed arrestò l’antenna.
Porta sí salda la gran lancia, e in guisa
vien feroce e leggiadro il giovenetto,
che veggendolo d’alto il re s’avisa
che sia guerriero infra gli scelti eletto.
Onde dice a colei ch’è seco assisa,
e che già sente palpitarsi il petto:
"Ben conoscer déi tu per sí lungo uso
ogni cristian, benché ne l’arme chiuso.
Chi è dunque costui, che cosí bene
s’adatta in giostra, e fero in vista è tanto?"
A quella, in vece di risposta, viene
su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
ma non cosí che lor non mostri alquanto:
ché gli occhi pregni un bel purpureo giro
tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.
Poi gli dice infingevole, e nasconde
sotto il manto de l’odio altro desio:
"Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
fra mille riconoscerlo deggia io,
ché spesso il vidi i campi e le profonde
fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
ch’ei faccia, erba non giova od arte maga.
Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero
mio fosse un giorno! e no ’l vorrei già morto;
vivo il vorrei, perch’in me desse al fero
desio dolce vendetta alcun conforto."
Cosí parlava, e de’ suoi detti il vero
da chi l’udiva in altro senso è torto;
e fuor n’uscí con le sue voci estreme
misto un sospir che ’ndarno ella già preme.
Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferírsi a le visiere, e i tronchi in alto
volaro e parte nuda ella ne resta;
ché, rotti i lacci a l’elmo suo, d’un salto
(mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
e le chiome dorate al vento sparse,
giovane donna in mezzo ’l campo apparse.
Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
dolci ne l’ira; or che sarian nel riso?
Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
non riconosci tu l’altero viso?
Quest’è pur quel bel volto onde tutt’ardi;
tuo core il dica, ov’è il suo essempio inciso.
Questa è colei che rinfrescar la fronte
vedesti già nel solitario fonte.
Ei ch’al cimiero ed al dipinto scudo
non badò prima, or lei veggendo impètra;
ella quanto può meglio il capo ignudo
si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.
Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
ma però da lei pace non impetra,
che minacciosa il segue, e: "Volgi" grida;
e di due morti in un punto lo sfida.
Percosso, il cavalier non ripercote,
né sí dal ferro a riguardarsi attende,
come a guardar i begli occhi e le gote
ond’Amor l’arco inevitabil tende.
Fra sé dicea: "Van le percosse vote
talor, che la sua destra armata stende;
ma colpo mai del bello ignudo volto
non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto."
Risolve al fin, benché pietà non spere,
di non morir tacendo occulto amante.
Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fère
già inerme, e supplichevole e tremante;
onde le dice: "O tu, che mostri avere
per nemico me sol fra turbe tante,
usciam di questa mischia, ed in disparte
i’ potrò teco, e tu meco provarte.
Cosí me’ si vedrà s’al tuo s’agguaglia
il mio valore." Ella accettò l’invito:
e come esser senz’elmo a lei non caglia,
gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s’era in atto di battaglia
già la guerriera, e già l’avea ferito,
quand’egli: "Or ferma," disse "e siano fatti
anzi la pugna de la pugna i patti."
Fermossi, e lui di pauroso audace
rendé in quel punto il disperato amore.
"I patti sian," dicea "poi che tu pace
meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non piú mio, s’a te dispiace
ch’egli piú viva, volontario more:
è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
omai tu debbia, e non debb’io vietarlo.
Ecco io chino le braccia, e t’appresento
senza difesa il petto: or ché no ’l fiedi?
vuoi ch’agevoli l’opra? i’ son contento
trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi."
Distinguea forse in piú duro lamento
i suoi dolori il misero Tancredi,
ma calca l’impedisce intempestiva
de’ pagani e de’ suoi che soprarriva.
Cedean cacciati da lo stuol cristiano
i Palestini, o sia temenza od arte.
Un de’ persecutori, uomo inumano,
videle sventolar le chiome sparte,
e da tergo in passando alzò la mano
per ferir lei ne la sua ignuda parte;
ma Tancredi gridò, che se n’accorse,
e con la spada a quel gran colpo occorse.
Pur non gí tutto in vano, e ne’ confini
del bianco collo il bel capo ferille.
Fu levissima piaga, e i biondi crini
rosseggiaron cosí d’alquante stille,
come rosseggia l’or che di rubini
per man d’illustre artefice sfaville.
Ma il prence infuriato allor si strinse
adosso a quel villano, e ’l ferro spinse.
Quel si dilegua, e questi acceso d’ira
il segue, e van come per l’aria strale.
Ella riman sospesa, ed ambo mira
lontani molto, né seguir le cale,
ma co’ suoi fuggitivi si ritira:
talor mostra la fronte e i Franchi assale;
or si volge or rivolge, or fugge or fuga,
né si può dir la sua caccia né fuga.
Tal gran tauro talor ne l’ampio agone,
se volge il corno a i cani ond’è seguito,
s’arretran essi; e s’a fuggir si pone,
ciascun ritorna a seguitarlo ardito.
Clorinda nel fuggir da tergo oppone
alto lo scudo, e ’l capo è custodito.
Cosí coperti van ne’ giochi mori
da le palle lanciate i fuggitori.
Già questi seguitando e quei fuggendo
s’erano a l’alte mura avicinati,
quando alzaro i pagani un grido orrendo
e indietro si fur subito voltati;
e fecero un gran giro, e poi volgendo
ritornaro a ferir le spalle e i lati.
E intanto Argante giú movea dal monte
la schiera sua per assalirgli a fronte.
Il feroce circasso uscí di stuolo,
ch’esser vols’egli il feritor primiero,
e quegli in cui ferí fu steso al suolo,
e sossopra in un fascio il suo destriero;
e pria che l’asta in tronchi andasse a volo,
molti cadendo compagnia gli fèro.
Poi stringe il ferro, e quando giunge a pieno
sempre uccide od abbatte o piaga almeno.
Clorinda, emula sua, tolse di vita
il forte Ardelio, uom già d’età matura,
ma di vecchiezza indomita, e munita
di duo gran figli, e pur non fu secura,
ch’Alcandro, il maggior figlio, aspra ferita
rimosso avea da la paterna cura,
e Poliferno, che restogli appresso,
a gran pena salvar poté se stesso.
Ma Tancredi, dapoi ch’egli non giunge
quel villan che destriero ha piú corrente,
si mira a dietro, e vede ben che lunge
troppo è trascorsa la sua audace gente.
Vedela intorniata, e ’l corsier punge
volgendo il freno, e là s’invia repente;
ned egli solo i suoi guerrier soccorre,
ma quello stuol ch’a tutt’i rischi accorre:
quel di Dudon aventurier drapello,
fior de gli eroi, nerbo e vigor del campo.
Rinaldo, il piú magnanimo e il piú bello,
tutti precorre, ed è men ratto il lampo.
Ben tosto il portamento e ’l bianco augello
conosce Erminia nel celeste campo,
e dice al re, che ’n lui fisa lo sguardo:
"Eccoti il domator d’ogni gagliardo.
Questi ha nel pregio de la spada eguali
pochi, o nessuno; ed è fanciullo ancora.
Se fosser tra’ nemici altri sei tali,
già Soria tutta vinta e serva fòra;
e già dómi sarebbono i piú australi
regni, e i regni piú prossimi a l’aurora;
e forse il Nilo occultarebbe in vano
dal giogo il capo incognito e lontano.
Rinaldo ha nome; e la sua destra irata
teman piú d’ogni machina le mura.
Or volgi gli occhi ov’io ti mostro, e guata
colui che d’oro e verde ha l’armatura.
Quegli è Dudone, ed è da lui guidata
questa schiera, che schiera è di ventura:
è guerrier d’alto sangue e molto esperto,
che d’età vince e non cede di merto.
Mira quel grande, ch’è coperto a bruno:
è Gernando, il fratel del re norvegio;
non ha la terra uom piú superbo alcuno,
questo sol de’ suoi fatti oscura il pregio.
E son que’ duo che van sí giunti in uno,
e c’han bianco il vestir, bianco ogni fregio,
Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi,
in valor d’arme e in lealtà famosi."
Cosí parlava, e già vedean là sotto
come la strage piú e piú s’ingrosse,
ché Tancredi e Rinaldo il cerchio han rotto
benché d’uomini denso e d’armi fosse;
e poi lo stuol, ch’è da Dudon condotto,
vi giunse, ed aspramente anco il percosse.
Argante, Argante stesso, ad un grand’urto
di Rinaldo abbattuto, a pena è surto.
Né sorgea forse, ma in quel punto stesso
al figliuol di Bertoldo il destrier cade;
e restandogli sotto il piede oppresso,
convien ch’indi a ritrarlo alquanto bade.
Lo stuol pagan fra tanto, in rotta messo,
si ripara fuggendo a la cittade.
Soli Argante e Clorinda argine e sponda
sono al furor che lor da tergo inonda.
Ultimi vanno, e l’impeto seguente
in lor s’arresta alquanto, e si reprime,
sí che potean men perigliosamente
quelle genti fuggir che fuggean prime.
Segue Dudon ne la vittoria ardente
i fuggitivi, e ’l fer Tigrane opprime
con l’urto del cavallo, e con la spada
fa che scemo del capo a terra cada.
Né giova ad Algazarre il fino usbergo,
ned e Corban robusto il forte elmetto,
ché ’n guisa lor ferí la nuca e ’l tergo
che ne passò la piaga al viso, al petto.
E per sua mano ancor del dolce albergo
l’alma uscí d’Amurate e di Meemetto,
e del crudo Almansor; né ’l gran circasso
può securo da lui mover un passo.
Freme in se stesso Argante, e pur tal volta
si ferma e volge, e poi cede pur anco.
Al fin cosí improviso a lui si volta,
e di tanto rovescio il coglie al fianco,
che dentro il ferro vi s’immerge, e tolta
è dal colpo la vita al duce franco.
Cade; e gli occhi, ch’a pena aprir si ponno,
dura quiete preme e ferreo sonno.
Gli aprí tre volte, e i dolci rai del cielo
cercò fruire e sovra un braccio alzarsi,
e tre volte ricadde, e fosco velo
gli occhi adombrò, che stanchi al fin serràrsi.
Si dissolvono i membri, e ’l mortal gelo
inrigiditi e di sudor gli ha sparsi.
Sovra il corpo già morto il fero Argante
punto non bada, e via trascorre inante.
Con tutto ciò, se ben d’andar non cessa,
si volge a i Franchi, e grida: "O cavalieri,
questa sanguigna spada è quella stessa
che ’l signor vostro mi donò pur ieri;
ditegli come in uso oggi l’ho messa,
ch’udirà la novella ei volentieri.
E caro esser gli dée che ’l suo bel dono
sia conosciuto al paragon sí buono.
Ditegli che vederne ormai s’aspetti
ne le viscere sue piú certa prova;
e quando d’assalirne ei non s’affretti,
verrò non aspettato ove si trova."
Irritati i cristiani a i feri detti,
tutti vèr lui già si moveano a prova;
ma con gli altri esso è già corso in securo
sotto la guardia de l’amico muro.
I difensori a grandinar le pietre
da l’alte mura in guisa incominciaro,
e quasi innumerabili faretre
tante saette a gli archi ministraro,
che forza è pur che ’l franco stuol s’arretre;
e i saracin ne la cittade entraro.
Ma già Rinaldo, avendo il piè sottratto
al giacente destrier, s’era qui tratto.
Venia per far nel barbaro omicida
de l’estinto Dudone aspra vendetta,
e fra’ suoi giunto alteramente grida:
"Or qual indugio è questo? e che s’aspetta?
poi ch’è morto il signor che ne fu guida,
ché non corriamo a vendicarlo in fretta?
Dunque in sí grave occasion di sdegno
esser può fragil muro a noi ritegno?
Non, se di ferro doppio o d’adamante
questa muraglia impenetrabil fosse,
colà dentro securo il fero Argante
s’appiatteria da le vostr’alte posse:
andiam pure a l’assalto!" Ed egli inante
a tutti gli altri in questo dir si mosse,
ché nulla teme la secura testa
o di sasso o di strai nembo o tempesta.
Ei crollando il gran capo, alza la faccia
piena di sí terribile ardimento,
che sin dentro a le mura i cori agghiaccia
a i difensor d’insolito spavento.
Mentre egli altri rincora, altri minaccia,
sopravien chi reprime il suo talento;
ché Goffredo lor manda il buon Sigiero
de’ gravi imperii suoi nunzio severo.
Questi sgrida in suo nome il troppo ardire,
e incontinente il ritornar impone:
"Tornatene," dicea "ch’a le vostr’ire
non è il loco opportuno o la stagione;
Goffredo il vi comanda." A questo dire
Rinaldo si frenò, ch’altrui fu sprone,
benché dentro ne frema, e in piú d’un segno
dimostri fuore il mal celato sdegno.
Tornàr le schiere indietro, e da i nemici
non fu il ritorno lor punto turbato;
né in parte alcuna de gli estremi uffici
il corpo di Dudon restò fraudato.
Su le pietose braccia i fidi amici
portàrlo, caro peso ed onorato.
Mira intanto il Buglion d’eccelsa parte
de la forte cittade il sito e l’arte.
Gierusalem sovra duo colli è posta
d’impari attezza, e vòlti fronte a fronte.
Va per lo mezzo suo valle interposta,
che lei distingue, e l’un da l’altro monte.
Fuor da tre lati ha malagevol costa,
per l’altro vassi, e non par che si monte;
ma d’altissime mura è piú difesa
la parte piana, e ’ncontra Borea è stesa.
La città dentro ha lochi in cui si serba
l’acqua che piove, e laghi e fonti vivi;
ma fuor la terra intorno è nuda d’erba,
e di fontane sterile e di rivi.
Né si vede fiorir lieta e superba
d’alberi, e fare schermo a i raggi estivi,
se non se in quanto oltra sei miglia un bosco
sorge d’ombre nocenti orrido e fosco.
Ha da quel lato donde il giorno appare
del felice Giordan le nobil onde;
e da la parte occidental, del mare
Mediterraneo l’arenose sponde.
Verso Borea è Betèl, ch’alzò l’altare
al bue de l’oro, e la Samaria, e donde
Austro portar le suol piovoso nembo,
Betelèm che ’l gran parto ascose in grembo.
Or mentre guarda e l’alte mura e ’l sito
de la città Goffredo e del paese,
e pensa ove s’accampi, onde assalito
sia il muro ostil piú facile a l’offese,
Erminia il vide, e dimostrollo a dito
al re pagano, e cosí a dir riprese:
"Goffredo è quel, che nel purpureo ammanto
ha di regio e d’augusto in sé cotanto.
Veramente è costui nato a l’impero,
sí del regnar, del comandar sa l’arti,
e non minor che duce è cavaliero,
ma del doppio valor tutte ha le parti;
né fra turba sí grande uom piú guerriero
o piú saggio di lui potrei mostrarti.
Sol Raimondo in consiglio, ed in battaglia
sol Rinaldo e Tancredi a lui s’agguaglia."
Risponde il re pagan: "Ben ho di lui
contezza, e ’l vidi a la gran corte in Francia,
quand’io d’Egitto messaggier vi fui,
e ’l vidi in nobil giostra oprar la lancia;
e se ben gli anni giovenetti sui
non gli vestian di piume ancor la guancia,
pur dava a i detti, a l’opre, a le sembianze,
presagio omai d’altissime speranze;
presagio ahi troppo vero!" E qui le ciglia
turbate inchina, e poi l’inalza e chiede:
"Dimmi chi sia colui c’ha pur vermiglia
la sopravesta, e seco a par si vede.
Oh quanto di sembianti a lui somiglia!
se ben alquanto di statura cede."
"È Baldovin," risponde "e ben si scopre
nel volto a lui fratel, ma piú ne l’opre.
Or rimira colui che, quasi in modo
d’uomo che consigli, sta da l’altro fianco:
quegli è Raimondo, il qual tanto ti lodo
d’accorgimento, uom già canuto e bianco.
Non è chi tesser me’ bellico frodo
di lui sapesse o sia latino o franco;
ma quell’altro piú in là, ch’orato ha l’elmo,
del re britanno è il buon figliuol Guglielmo.
V’è Guelfo seco, e gli è d’opre leggiadre
emulo, e d’alto sangue e d’alto stato:
ben il conosco a le sue spalle quadre,
ed a quel petto colmo e rilevato.
Ma ’l gran nemico mio tra queste squadre
già riveder non posso, e pur vi guato;
io dico Boemondo il micidiale,
distruggitor del sangue mio reale."
Cosí parlavan questi; e ’l capitano,
poi ch’intorno ha mirato, a i suoi discende;
e perché crede che la terra in vano
s’oppugneria dov’il piú erto ascende,
contra lo porta Aquilonar, nel piano
che con lei si congiunge, alza le tende;
e quinci procedendo infra la torre
che chiamano Angolar gli altri fa porre.
Da quel giro del campo è contenuto
de la cittade il terzo, o poco meno,
che d’ogn’intorno non avria potuto,
(cotanto ella volgea) cingerla a pieno;
ma le vie tutte ond’aver pote aiuto
tenta Goffredo d’impedirle almeno,
ed occupar fa gli opportuni passi
onde da lei si viene ed a lei vassi.
Impon che sian le tende indi munite
e di fosse profonde e di trinciere,
che d’una parte a cittadine uscite,
da l’altra oppone a correrie straniere.
Ma poi che fur quest’opere fornite,
vols’egli il corpo di Dudon vedere,
e colà trasse ove il buon duce estinto
da mesta turba e lagrimosa è cinto.
Di nobil pompa i fidi amici ornaro
il gran ferètro ove sublime ei giace.
Quando Goffredo entrò, le turbe alzaro
la voce assai piú flebile e loquace;
ma con volto né torbido né chiaro
frena il suo affetto il pio Buglione, e tace.
E poi che ’n lui pensando alquanto fisse
le luci ebbe tenute, al fin sí disse:
"Già non si deve a te doglia né pianto,
che se mori nel mondo, in Ciel rinasci;
e qui dove ti spogli il mortal manto
di gloria impresse alte vestigia lasci.
Vivesti qual guerrier cristiano e santo,
e come tal sei morto; or godi, e pasci
in Dio gli occhi bramosi, o felice alma,
ed hai del bene oprar corona e palma.
Vivi beata pur, ché nostra sorte,
non tua sventura, a lagrimar n’invita,
poscia ch’al tuo partir sí degna e forte
parte di noi fa co ’l tuo piè partita.
Ma se questa, che ’l vulgo appella morte,
privati ha noi d’una terrena aita,
celeste aita ora impetrar ne puoi
che ’l Ciel t’accoglie infra gli eletti suoi.
E come a nostro pro veduto abbiamo
ch’usavi, uom già mortal, l’arme mortali,
cosí vederti oprare anco speriamo,
spirto divin, l’arme del Ciel fatali.
Impara i voti omai, ch’a te porgiamo,
raccòrre, e dar soccorso a i nostri mali:
indi vittoria annunzio; a te devoti
solverem trionfando al tempio i voti."
Cosí diss’egli; e già la notte oscura
avea tutti del giorno i raggi spenti,
e con l’oblio d’ogni noiosa cura
ponea tregua a le lagrime, a i lamenti.
Ma il capitan, ch’espugnar mai le mura
non crede senza i bellici tormenti,
pensa ond’abbia le travi, ed in quai forme
le machine componga; e poco dorme.
Sorse a pari co ’l sole, ed egli stesso
seguir la pompa funeral poi volle.
A Dudon d’odorifero cipresso
composto hanno un sepolcro a piè d’un colle,
non lunge a gli steccati; e sovra ad esso
un’altissima palma i rami estolle.
Or qui fu posto, e i sacerdoti intanto
quiete a l’alma gli pregàr co ’l canto.
Quinci e quindi fra i rami erano appese
insegne e prigioniere arme diverse,
già da lui tolte in piú felici imprese
a le genti di Siria ed a le perse.
De la corazza sua, de l’altro arnese,
in mezzo il grosso tronco si coperse.
"Qui" vi tu scritto poi "giace Dudone:
onorate l’altissimo campione."
Ma il pietoso Buglion, poi che da questa
opra si tolse dolorosa e pia,
tutti i fabri del campo a la foresta
con buona scorta di soldati invia.
Ella è tra valli ascosa, e manifesta
l’avea fatta a i Francesi uom di Soria.
Qui per troncar le machine n’andaro,
a cui non abbia la città riparo.
L’un l’altro essorta che le piante atterri,
e faccia al bosco inusitati oltraggi.
Caggion recise da i pungenti ferri
le sacre palme e i frassini selvaggi,
i funebri cipressi e i pini e i cerri,
l’elci frondose e gli alti abeti e i faggi,
gli olmi mariti, a cui talor s’appoggia
la vite, e con piè torto al ciel se ’n poggia.
Altri i tassi, e le quercie altri percote,
che mille volte rinovàr le chiome,
e mille volte ad ogni incontro immote
l’ire de’ venti han rintuzzate e dome;
ed altri impone a le stridenti rote
d’orni e di cedri l’odorate some.
Lascian al suon de l’arme, al vario grido,
e le fère e gli augei la tana e ’l nido.