Mentre il tiranno s’apparecchia a l’armi,
soletto Ismeno un dí gli s’appresenta,
Ismen che trar di sotto a i chiusi marmi
può corpo estinto, e far che spiri e senta,
Ismen che al suon de’ mormoranti carmi
sin ne la reggia sua Pluton spaventa,
e i suoi demon ne gli empi uffici impiega
pur come servi, e gli discioglie e lega.
Questi or Macone adora, e fu cristiano,
ma i primi riti anco lasciar non pote;
anzi sovente in uso empio e profano
confonde le due leggi a sé mal note,
ed or da le spelonche, ove lontano
dal vulgo essercitar suol l’arti ignote,
vien nel publico rischio al suo signore:
a re malvagio consiglier peggiore.
"Signor," dicea "senza tardar se ’n viene
il vincitor essercito temuto,
ma facciam noi ciò che a noi far conviene:
darà il Ciel, darà il mondo a i forti aiuto.
Ben tu di re, di duce hai tutte piene
le parti, e lunge hai visto e proveduto.
S’empie in tal guisa ogn’altro i propri uffici,
tomba fia questa terra a’ tuoi nemici.
Io, quanto a me, ne vegno, e del periglio
e de l’opre compagno, ad aiutarte:
ciò che può dar di vecchia età consiglio,
tutto prometto, e ciò che magica arte.
Gli angeli che dal Cielo ebbero essiglio
constringerò de le fatiche a parte.
Ma dond’io voglia incominciar gl’incanti
e con quai modi, or narrerotti avanti.
Nel tempio de’ cristiani occulto giace
un sotterraneo altare, e quivi è il volto
di Colei che sua diva e madre face
quel vulgo del suo Dio nato e sepolto.
Dinanzi al simulacro accesa face
continua splende; egli è in un velo avolto.
Pendono intorno in lungo ordine i voti
che vi portano i creduli devoti.
Or questa effigie lor, di là rapita,
voglio che tu di propria man trasporte
e la riponga entro la tua meschita:
io poscia incanto adoprerò sí forte
ch’ognor, mentre ella qui fia custodita,
sarà fatal custodia a queste porte;
tra mura inespugnabili il tuo impero
securo fia per novo alto mistero."
Sí disse, e ’l persuase; e impaziente
il re se ’n corse a la magion di Dio,
e sforzò i sacerdoti, e irreverente
il casto simulacro indi rapio;
e portollo a quel tempio ove sovente
s’irrita il Ciel co ’l folle culto e rio.
Nel profan loco e su la sacra imago
susurrò poi le sue bestemmie il mago.
Ma come apparse in ciel l’alba novella,
quel cui l’immondo tempio in guardia è dato
non rivide l’imagine dov’ella
fu posta, e invan cerconne in altro lato.
Tosto n’avisa il re, ch’a la novella
di lui si mostra feramente irato,
ed imagina ben ch’alcun fedele
abbia fatto quel furto, e che se ’l cele.
O fu di man fedele opra furtiva,
o pur il Ciel qui sua potenza adopra,
che di Colei ch’è sua regina e diva
sdegna che loco vil l’imagin copra:
ch’incerta fama è ancor se ciò s’ascriva
ad arte umana od a mirabil opra;
ben è pietà che, la pietade e ’l zelo
uman cedendo, autor se ’n creda il Cielo.
Il re ne fa con importuna inchiesta
ricercar ogni chiesa, ogni magione,
ed a chi gli nasconde o manifesta
il furto o il reo, gran pene e premi impone.
Il mago di spiarne anco non resta
con tutte l’arti il ver; ma non s’appone,
ché ’l Cielo, opra sua fosse o fosse altrui,
celolla ad onta de gl’incanti a lui.
Ma poi che ’l re crudel vide occultarse
quel che peccato de’ fedeli ei pensa,
tutto in lor d’odio infellonissi, ed arse
d’ira e di rabbia immoderata immensa.
Ogni rispetto oblia, vuol vendicarse,
segua che pote, e sfogar l’alma accensa.
"Morrà," dicea "non andrà l’ira a vòto,
ne la strage comune il ladro ignoto.
Pur che ’l reo non si salvi, il giusto pèra
e l’innocente; ma qual giusto io dico?
è colpevol ciascun, né in loro schiera
uom fu giamai del nostro nome amico.
S’anima v’è nel novo error sincera,
basti a novella pena un fallo antico.
Su su, fedeli miei, su via prendete
le fiamme e ’l ferro, ardete ed uccidete."
Cosí parla a le turbe, e se n’intese
la fama tra’ fedeli immantinente,
ch’attoniti restàr, sí gli sorprese
il timor de la morte omai presente;
e non è chi la fuga o le difese,
lo scusar o ’l pregare ardisca o tente.
Ma le timide genti e irrisolute
donde meno speraro ebber salute.
Vergine era fra lor di già matura
verginità, d’alti pensieri e regi,
d’alta beltà; ma sua beltà non cura,
o tanto sol quant’onestà se ’n fregi.
È il suo pregio maggior che tra le mura
d’angusta casa asconde i suoi gran pregi,
e de’ vagheggiatori ella s’invola
a le lodi, a gli sguardi, inculta e sola.
Pur guardia esser non può ch’in tutto celi
beltà degna ch’appaia e che s’ammiri;
né tu il consenti, Amor, ma la riveli
d’un giovenetto a i cupidi desiri.
Amor, ch’or cieco, or Argo, ora ne veli
di benda gli occhi, ora ce gli apri e giri,
tu per mille custodie entro a i piú casti
verginei alberghi il guardo altrui portasti.
Colei Sofronia, Olindo egli s’appella,
d’una cittade entrambi e d’una fede.
Ei che modesto è sí com’essa è bella,
brama assai, poco spera, e nulla chiede;
né sa scoprirsi, o non ardisce; ed ella
o lo sprezza, o no ’l vede, o non s’avede.
Cosí fin ora il misero ha servito
o non visto, o mal noto, o mal gradito.
S’ode l’annunzio intanto, e che s’appresta
miserabile strage al popol loro.
A lei, che generosa è quanto onesta,
viene in pensier come salvar costoro.
Move fortezza il gran pensier, l’arresta
poi la vergogna e ’l verginal decoro;
vince fortezza, anzi s’accorda e face
sé vergognosa e la vergogna audace.
La vergine tra ’l vulgo uscí soletta,
non coprí sue bellezze, e non l’espose,
raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta,
con ischive maniere e generose.
Non sai ben dir s’adorna o se negletta,
se caso od arte il bel volto compose.
Di natura, d’Amor, de’ cieli amici
le negligenze sue sono artifici.
Mirata da ciascun passa, e non mira
l’altera donna, e innanzi al re se ’n viene.
Né, perché irato il veggia, il piè ritira,
ma il fero aspetto intrepida sostiene.
"Vengo, signor," gli disse "e ’ntanto l’ira
prego sospenda e ’l tuo popolo affrene:
vengo a scoprirti, e vengo a darti preso
quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso."
A l’onesta baldanza, a l’improviso
folgorar di bellezze altere e sante,
quasi confuso il re, quasi conquiso,
frenò lo sdegno, e placò il fer sembiante.
S’egli era d’alma o se costei di viso
severa manco, ei diveniane amante;
ma ritrosa beltà ritroso core
non prende, e sono i vezzi esca d’Amore.
Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto,
s’amor non fu, che mosse il cor villano.
"Narra" ei le dice "il tutto; ecco, io commetto
che non s’offenda il popol tuo cristiano."
Ed ella: "Il reo si trova al tuo cospetto:
opra è il furto, signor, di questa mano;
io l’imagine tolsi, io son colei
che tu ricerchi, e me punir tu déi."
Cosí al publico fato il capo altero
offerse, e ’l volse in sé sola raccòrre.
Magnanima menzogna, or quand’è il vero
sí bello che si possa a te preporre?
Riman sospeso, e non sí tosto il fero
tiranno a l’ira, come suol, trascorre.
Poi la richiede: "I’ vuo’ che tu mi scopra
chi diè consiglio, e chi fu insieme a l’opra."
"Non volsi far de la mia gloria altrui
né pur minima parte"; ella gli dice
"sol di me stessa io consapevol fui,
sol consigliera, e sola essecutrice."
"Dunque in te sola" ripigliò colui
"caderà l’ira mia vendicatrice."
Diss’ella: "È giusto: esser a me conviene,
se fui sola a l’onor, sola a le pene."
Qui comincia il tiranno a risdegnarsi;
poi le dimanda: "Ov’hai l’imago ascosa?"
"Non la nascosi," a lui risponde "io l’arsi,
e l’arderla stimai laudabil cosa;
cosí almen non potrà piú violarsi
per man di miscredenti ingiuriosa.
Signore, o chiedi il furto, o ’l ladro chiedi:
quel no ’l vedrai in eterno, e questo il vedi.
Benché né furto è il mio, né ladra i’ sono:
giust’è ritòr ciò ch’a gran torto è tolto."
Or, quest’udendo, in minaccievol suono
freme il tiranno, e ’l fren de l’ira è sciolto.
Non speri piú di ritrovar perdono
cor pudico, alta mente e nobil volto;
e ’ndarno Amor contr’a lo sdegno crudo
di sua vaga bellezza a lei fa scudo.
Presa è la bella donna, e ’ncrudelito
il re la danna entr’un incendio a morte.
Già ’l velo e ’l casto manto a lei rapito,
stringon le molli braccia aspre ritorte.
Ella si tace, e in lei non sbigottito,
ma pur commosso alquanto è il petto forte;
e smarrisce il bel volto in un colore
che non è pallidezza, ma candore.
Divulgossi il gran caso, e quivi tratto
già ’l popol s’era: Olindo anco v’accorse.
Dubbia era la persona e certo il fatto;
venia, che fosse la sua donna in forse.
Come la bella prigionera in atto
non pur di rea, ma di dannata ei scorse,
come i ministri al duro ufficio intenti
vide, precipitoso urtò le genti.
Al re gridò: "Non è, non è già rea
costei del furto, e per follia se ’n vanta.
Non pensò, non ardí, né far potea
donna sola e inesperta opra cotanta.
Come ingannò i custodi? e de la Dea
con qual arti involò l’imagin santa?
Se ’l fece, il narri. Io l’ho, signor, furata."
Ahi! tanto amò la non amante amata.
Soggiunse poscia: "Io là, donde riceve
l’alta vostra meschita e l’aura e ’l die,
di notte ascesi, e trapassai per breve
fòro tentando inaccessibil vie.
A me l’onor, la morte a me si deve:
non usurpi costei le pene mie.
Mie son quelle catene, e per me questa
fiamma s’accende, e ’l rogo a me s’appresta."
Alza Sofronia il viso, e umanamente
con occhi di pietade in lui rimira.
"A che ne vieni, o misero innocente?
qual consiglio o furor ti guida o tira?
Non son io dunque senza te possente
a sostener ciò che d’un uom può l’ira?
Ho petto anch’io, ch’ad una morte crede
di bastar solo, e compagnia non chiede."
Cosí parla a l’amante; e no ’l dispone
sí ch’egli si disdica, e pensier mute.
Oh spettacolo grande, ove a tenzone
sono Amore e magnanima virtute!
ove la morte al vincitor si pone
in premio, e ’l mai del vinto è la salute!
Ma piú s’irrita il re quant’ella ed esso
è piú costante in incolpar se stesso.
Pargli che vilipeso egli ne resti,
e ch’in disprezzo suo sprezzin le pene.
"Credasi" dice "ad ambo; e quella e questi
vinca, e la palma sia qual si conviene."
Indi accenna a i sergenti, i quai son presti
a legar il garzon di lor catene.
Sono ambo stretti al palo stesso; e vòlto
è il tergo al tergo, e ’l volto ascoso al volto.
Composto è lor d’intorno il rogo omai,
e già le fiamme il mantice v’incita,
quand’il fanciullo in dolorosi lai
proruppe, e disse a lei ch’è seco unita:
"Quest’è dunque quel laccio ond’io sperai
teco accoppiarmi in compagnia di vita?
questo è quel foco ch’io credea ch’i cori
ne dovesse infiammar d’eguali ardori?
Altre fiamme, altri nodi Amor promise,
altri ce n’apparecchia iniqua sorte.
Troppo, ahi! ben troppo, ella già noi divise,
ma duramente or ne congiunge in morte.
Piacemi almen, poich’in sí strane guise
morir pur déi, del rogo esser consorte,
se del letto non fui; duolmi il tuo fato,
il mio non già, poich’io ti moro a lato.
Ed oh mia sorte aventurosa a pieno!
oh fortunati miei dolci martíri!
s’impetrarò che, giunto seno a seno,
l’anima mia ne la tua bocca io spiri;
e venendo tu meco a un tempo meno,
in me fuor mandi gli ultimi sospiri."
Cosí dice piangendo. Ella il ripiglia
soavemente, e ’n tai detti il consiglia:
"Amico, altri pensieri, altri lamenti,
per piú alta cagione il tempo chiede.
Ché non pensi a tue colpe? e non rammenti
qual Dio prometta a i buoni ampia mercede?
Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti,
e lieto aspira a la superna sede.
Mira ’l ciel com’è bello, e mira il sole
ch’a sé par che n’inviti e ne console."
Qui il vulgo de’ pagani il pianto estolle:
piange il fedel, ma in voci assai piú basse.
Un non so che d’inusitato e molle
par che nel duro petto al re trapasse.
Ei presentillo, e si sdegnò; né volle
piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse.
Tu sola il duol comun non accompagni,
Sofronia; e pianta da ciascun, non piagni.
Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
(ché tal parea) d’alta sembianza e degna;
e mostra, d’arme e d’abito straniero,
che di lontan peregrinando vegna.
La tigre, che su l’elmo ha per cimiero,
tutti gli occhi a sé trae, famosa insegna.
insegna usata da Clorinda in guerra;
onde la credon lei, né ’l creder erra.
Costei gl’ingegni feminili e gli usi
tutti sprezzò sin da l’età piú acerba:
a i lavori d’Aracne, a l’ago, a i fusi
inchinar non degnò la man superba.
Fuggí gli abiti molli e i lochi chiusi,
ché ne’ campi onestate anco si serba;
armò d’orgoglio il volto, e si compiacque
rigido farlo, e pur rigido piacque.
Tenera ancor con pargoletta destra
strinse e lentò d’un corridore il morso;
trattò l’asta e la spada, ed in palestra
indurò i membri ed allenogli al corso.
Poscia o per via montana o per silvestra
l’orme seguí di fer leone e d’orso;
seguí le guerre, e ’n esse e fra le selve
fèra a gli uomini parve, uomo a le belve.
Viene or costei da le contrade perse
perch’a i cristiani a suo poter resista,
bench’altre volte ha di lor membra asperse
le piaggie, e l’onda di lor sangue ha mista.
Or quivi in arrivando a lei s’offerse
l’apparato di morte a prima vista.
Di mirar vaga e di saper qual fallo
condanni i rei, sospinge oltre il cavallo.
Cedon le turbe, e i duo legati insieme
ella si ferma a riguardar da presso.
Mira che l’una tace e l’altro geme,
e piú vigor mostra il men forte sesso.
Pianger lui vede in guisa d’uom cui preme
pietà, non doglia, o duol non di se stesso;
e tacer lei con gli occhi ai ciel sí fisa
ch’anzi ’l morir par di qua giú divisa.
Clorinda intenerissi, e si condolse
d’ambeduo loro e lagrimonne alquanto.
Pur maggior sente il duol per chi non duolse,
piú la move il silenzio e meno il pianto.
Senza troppo indugiare ella si volse
ad un uom che canuto avea da canto:
"Deh! dimmi: chi son questi? ed al martoro
qual gli conduce o sorte o colpa loro?"
Cosí pregollo, e da colui risposto
breve ma pieno a le dimande fue.
Stupissi udendo, e imaginò ben tosto
ch’egualmente innocenti eran que’ due.
Già di vietar lor morte ha in sé proposto,
quanto potranno i preghi o l’armi sue.
Pronta accorre a la fiamma, e fa ritrarla,
che già s’appressa, ed a i ministri parla:
"Alcun non sia di voi che ’n questo duro
ufficio oltra seguire abbia baldanza,
sin ch’io non parli al re: ben v’assecuro
ch’ei non v’accuserà de la tardanza."
Ubidiro i sergenti, e mossi furo
da quella grande sua regal sembianza.
Poi verso il re si mosse, e lui tra via
ella trovò che ’ncontra lei venia.
"Io son Clorinda:" disse "hai forse intesa
talor nomarmi; e qui, signor, ne vegno
per ritrovarmi teco a la difesa
de la fede comune e del tuo regno.
Son pronta, imponi pure, ad ogni impresa:
l’alte non temo, e l’umili non sdegno;
voglimi in campo aperto, o pur tra ’l chiuso
de le mura impiegar, nulla ricuso."
Tacque; e rispose il re: "Qual sí disgiunta
terra è da l’Asia, o dal camin del sole,
vergine gloriosa, ove non giunta
sia la tua fama, e l’onor tuo non vòle?
Or che s’è la tua spada a me congiunta,
d’ogni timor m’affidi e mi console:
non, s’essercito grande unito insieme
fosse in mio scampo, avrei piú certa speme.
Già già mi par ch’a giunger qui Goffredo
oltra il dover indugi; or tu dimandi
ch’impieghi io te: sol di te degne credo
l’imprese malagevoli e le grandi.
Sovr’a i nostri guerrieri a te concedo
lo scettro, e legge sia quel che comandi."
Cosí parlava. Ella rendea cortese
grazie per lodi, indi il parlar riprese:
"Nova cosa parer dovrà per certo
che preceda a i servigi il guiderdone;
ma tua bontà m’affida: i’ vuo’ ch’in merto
del futuro servir que’ rei mi done.
In don gli chieggio: e pur, se ’l fallo è incerto
gli danna inclementissima ragione;
ma taccio questo, e taccio i segni espressi
onde argomento l’innocenza in essi.
E dirò sol ch’è qui comun sentenza
che i cristiani togliessero l’imago;
ma discordo io da voi, né però senza
alta ragion del mio parer m’appago.
Fu de le nostre leggi irriverenza
quell’opra far che persuase il mago:
ché non convien ne’ nostri tèmpi a nui
gl’idoli avere, e men gl’idoli altrui.
Dunque suso a Macon recar mi giova
il miracol de l’opra, ed ei la fece
per dimostrar ch’i tèmpi suoi con nova
religion contaminar non lece.
Faccia Ismeno incantando ogni sua prova,
egli a cui le malie son d’arme in vece;
trattiamo il ferro pur noi cavalieri:
quest’arte è nostra, e ’n questa sol si speri."
Tacque, ciò detto; e ’l re, bench’a pietade
l’irato cor difficilmente pieghi,
pur compiacer la volle; e ’l persuade
ragione, e ’l move autorità di preghi.
"Abbian vita" rispose "e libertade,
e nulla a tanto intercessor si neghi.
Siasi questa o giustizia over perdono,
innocenti gli assolvo, e rei gli dono."
Cosí furon disciolti. Aventuroso
ben veramente fu d’Olindo il fato,
ch’atto poté mostrar che ’n generoso
petto al fine ha d’amore amor destato.
Va dal rogo a le nozze; ed è già sposo
fatto di reo, non pur d’amante amato.
Volse con lei morire: ella non schiva,
poi che seco non muor, che seco viva.
Ma il sospettoso re stimò periglio
tanta virtú congiunta aver vicina;
onde, com’egli volse, ambo in essiglio
oltra i termini andàr di Palestina.
Ei, pur seguendo il suo crudel consiglio,
bandisce altri fedeli, altri confina.
Oh come lascian mesti i pargoletti
figli, e gli antichi padri e i dolci letti!
Dura division! scaccia sol quelli
di forte corpo e di feroce ingegno;
ma il mansueto sesso, e gli anni imbelli
seco ritien, sí come ostaggi, in pegno.
Molti n’andaro errando, altri rubelli
fèrsi, e piú che ’l timor poté lo sdegno.
Questi unírsi co’ Franchi, e gl’incontraro
a punto il dí che ’n Emaús entraro.
Emaús è città cui breve strada
da la regal Gierusalem disgiunge,
ed uom che lento a suo diporto vada,
se parte matutino, a nona giunge.
Oh quant’intender questo a i Franchi aggrada!
Oh quanto piú ’l desio gli affretta e punge!
Ma perch’oltra il meriggio il sol già scende,
qui fa spiegare il capitan le tende.
L’avean già tese, e poco era remota
l’alma luce del sol da l’oceano,
quando duo gran baroni in veste ignota
venir son visti, e ’n portamento estrano.
Ogni atto lor pacifico dinota
che vengon come amici al capitano.
Del gran re de l’Egitto eran messaggi,
e molti intorno avean scudieri e paggi.
Alete è l’un, che da principio indegno
tra le brutture de la plebe è sorto;
ma l’inalzaro a i primi onor del regno
parlar facondo e lusinghiero e scòrto,
pieghevoli costumi e vario ingegno
al finger pronto, a l’ingannare accorto:
gran fabro di calunnie, adorne in modi
novi, che sono accuse, e paion lodi.
L’altro è il circasso Argante, uom che straniero
se ’n venne a la regal corte d’Egitto;
ma de’ satrapi fatto è de l’impero,
e in sommi gradi a la milizia ascritto:
impaziente, inessorabil, fero,
ne l’arme infaticabile ed invitto,
d’ogni dio sprezzatore, e che ripone
ne la spada sua legge e sua ragione.
Chieser questi udienza ed al cospetto
del famoso Goffredo ammessi entraro,
e in umil seggio e in un vestire schietto
fra’ suoi duci sedendo il ritrovaro;
ma verace valor, benché negletto,
è di se stesso a sé fregio assai chiaro.
Picciol segno d’onor gli fece Argante,
in guisa pur d’uom grande e non curante.
Ma la destra si pose Alete al seno,
e chinò il capo, e piegò a terra i lumi,
e l’onorò con ogni modo a pieno
che di sua gente portino i costumi.
Cominciò poscia, e di sua bocca uscièno
piú che mèl dolci d’eloquenza i fiumi;
e perché i Franchi han già il sermone appreso
de la Soria, fu ciò ch’ei disse inteso.
"O degno sol cui d’ubidire or degni
questa adunanza di famosi eroi,
che per l’adietro ancor le palme e i regni
da te conobbe e da i consigli tuoi,
il nome tuo, che non riman tra i segni
d’Alcide, omai risuona anco fra noi,
e la fama d’Egitto in ogni parte
del tuo valor chiare novelle ha sparte.
Né v’è fra tanti alcun che non le ascolte
come egli suol le meraviglie estreme,
ma dal mio re con istupore accolte
sono non sol, ma con diletto insieme;
e s’appaga in narrarle anco e le volte,
amando in te ciò ch’altri invidia e teme:
ama il valore, e volontario elegge
teco unirsi d’amor, se non di legge.
Da sí bella cagion dunque sospinto,
l’amicizia e la pace a te richiede,
e l’ mezzo onde l’un resti a l’altro avinto
sia la virtú s’esser non può la fede.
Ma perché inteso avea che t’eri accinto
per iscacciar l’amico suo di sede,
volse, pria ch’altro male indi seguisse,
ch’a te la mente sua per noi s’aprisse.
E la sua mente è tal, che s’appagarti
vorrai di quanto hai fatto in guerra tuo,
né Giudea molestar, né l’altre parti
che ricopre il favor del regno suo,
ei promette a l’incontro assecurarti
il non ben fermo stato. E se voi duo
sarete uniti, or quando i Turchi e i Persi
potranno unqua sperar di riaversi?
Signor, gran cose in picciol tempo hai fatte
che lunga età porre in oblio non pote:
esserciti, città, vinti, disfatte,
superati disagi e strade ignote,
sí ch’al grido o smarrite o stupefatte
son le provincie intorno e le remote;
e se ben acquistar puoi novi imperi,
acquistar nova gloria indarno speri.
Giunta è tua gloria al sommo, e per l’inanzi
fuggir le dubbie guerre a te conviene,
ch’ove tu vinca, sol di stato avanzi,
né tua gloria maggior quinci diviene;
ma l’imperio acquistato e preso inanzi
e l’onor perdi, se ’l contrario aviene.
Ben gioco è di fortuna audace e stolto
por contra il poco e incerto il certo e ’l molto.
Ma il consiglio di tal cui forse pesa
ch’altri gli acquisti a lungo ancor conserve,
e l’aver sempre vinto in ogni impresa,
e quella voglia natural, che ferve
e sempre è piú ne’ cor piú grandi accesa,
d’aver le genti tributarie e serve,
faran per aventura a te la pace
fuggir, piú che la guerra altri non face.
T’essorteranno a seguitar la strada
che t’è dal fato largamente aperta,
a non depor questa famosa spada,
al cui valore ogni vittoria è certa,
sin che la legge di Macon non cada,
sin che l’Asia per te non sia deserta:
dolci cose ad udir e dolci inganni
ond’escon poi sovente estremi danni.
Ma s’animosità gli occhi non benda,
né il lume oscura in te de la ragione,
scorgerai, ch’ove tu la guerra prenda,
hai di temer, non di sperar cagione,
ché fortuna qua giú varia a vicenda
mandandoci venture or triste or buone,
ed ai voli troppo alti e repentini
sogliono i precipizi esser vicini.
Dimmi: s’a’ danni tuoi l’Egitto move,
d’oro e d’arme potente e di consiglio,
e s’avien che la guerra anco rinove
il Perso e ’l Turco e di Cassano il figlio,
quai forzi opporre a sí gran furia o dove
ritrovar potrai scampo al tuo periglio?
T’affida forse il re malvagio greco
il qual da i sacri patti unito è teco?
La fede greca a chi non è palese?
Tu da un sol tradimento ogni altro impara,
anzi da mille, perché mille ha tese
insidie a voi la gente infida, avara.
Dunque chi dianzi il passo a voi contese,
per voi la vita esporre or si prepara?
chi le vie che comuni a tutti sono
negò, del proprio sangue or farà dono?
Ma forse hai tu riposta ogni tua speme
in queste squadre ond’ora cinto siedi.
Quei che sparsi vincesti, uniti insieme
di vincer anco agevolmente credi,
se ben son le tue schiere or molto sceme
tra le guerre e i disagi, e tu te ’l vedi;
se ben novo nemico a te s’accresce
e co’ Persi e co’ Turchi Egizi mesce.
Or quando pure estimi esser fatale
che non ti possa il ferro vincer mai,
siati concesso, e siati a punto tale
il decreto del Ciel qual tu te l’ fai;
vinceratti la fame: a questo male
che rifugio, per Dio, che schermo avrai?
Vibra contra costei la lancia, e stringi
la spada, e la vittoria anco ti fingi.
Ogni campo d’intorno arso e distrutto
ha la provida man de gli abitanti,
e ’n chiuse mura e ’n alte torri il frutto
riposto, al tuo venir piú giorni inanti.
Tu ch’ardito sin qui ti sei condutto,
onde speri nutrir cavalli e fanti?
Dirai: `L’armata in mar cura ne prende.’
Da i venti dunque il viver tuo dipende?
Comanda forse tua fortuna a i venti,
e gli avince a sua voglia e gli dislega?
e ’l mar ch’a i preghi è sordo ed a i lamenti,
te sol udendo, al tuo voler si piega?
O non potranno pur le nostre genti,
e le perse e le turche unite in lega,
cosí potente armata in un raccòrre
ch’a questi legni tuoi si possa opporre?
Doppia vittoria a te, signor, bisogna,
s’hai de l’impresa a riportar l’onore.
Una perdita sola alta vergogna
può cagionarti e danno anco maggiore:
ch’ove la nostra armata in rotta pogna
la tua, qui poi di fame il campo more;
e se tu sei perdente, indarno poi
saran vittoriosi i legni tuoi.
Ora se in tale stato anco rifiuti
co ’l gran re de l’Egitto e pace e tregua,
(diasi licenza ai ver) l’altre virtuti
questo consiglio tuo non bene adegua.
Ma voglia il Ciel che ’l tuo pensier si muti,
s’a guerra è vòlto, e che ’l contrario segua,
sí che l’Asia respiri omai da i lutti,
e goda tu de la vittoria i frutti.
Né voi che del periglio e de gli affanni
e de la gloria a lui sète consorti,
il favor di fortuna or tanto inganni
che nove guerre a provocar v’essorti.
Ma qual nocchier che da i marini inganni
ridutti ha i legni a i desiati porti,
raccòr dovreste omai le sparse vele,
né fidarvi di novo al mar crudele."
Qui tacque Alete, e ’l suo parlar seguiro
con basso mormorar que’ forti eroi;
e ben ne gli atti disdegnosi apriro
quanto ciascun quella proposta annoi.
Il capitan rivolse gli occhi in giro
tre volte e quattro, e mirò in fronte i suoi,
e poi nel volto di colui gli affisse
ch’attendea la risposta, e cosí disse:
"Messaggier, dolcemente a noi sponesti
ora cortese, or minaccioso invito.
Se ’l tuo re m’ama e loda i nostri gesti,
è sua mercede, e m’è l’amor gradito.
A quella parte poi dove protesti
la guerra a noi del paganesmo unito,
risponderò, come da me si suole,
liberi sensi in semplici parole.
Sappi che tanto abbiam sin or sofferto
in mare, in terra, a l’aria chiara e scura,
solo acciò che ne fosse il calle aperto
a quelle sacre e venerabil mura,
per acquistarne appo Dio grazia e merto
togliendo lor di servitú sí dura,
né mai grave ne fia per fin sí degno
esporre onor mondano e vita e regno;
ché non ambiziosi avari affetti
ne spronaro a l’impresa, e ne fur guida
(sgombri il Padre del Ciel da i nostri petti
peste sí rea, s’in alcun pur s’annida;
né soffra che l’asperga, e che l’infetti
di venen dolce che piacendo ancida),
ma la sua man ch’i duri cor penètra
soavemente, e gli ammollisce e spetra.
Questa ha noi mossi e questa ha noi condutti,
tratti d’ogni periglio e d’ogni impaccio;
questa fa piani i monti e i fiumi asciutti,
l’ardor toglie a la state, al verno il ghiaccio;
placa del mare i tempestosi flutti,
stringe e rallenta questa a i venti il laccio;
quindi son l’alte mura aperte ed arse,
quindi l’armate schiere uccise e sparse;
quindi l’ardir, quindi la speme nasce,
non da le frali nostre forze e stanche,
non da l’armata, e non da quante pasce
genti la Grecia e non da l’arme franche.
Pur ch’ella mai non ci abbandoni e lasce,
poco dobbiam curar ch’altri ci manche.
Chi sa come difende e come fère,
soccorso a i suoi perigli altro non chere.
Ma quando di sua aita ella ne privi,
per gli error nostri o per giudizi occulti,
chi fia di noi ch’esser sepulto schivi
ove i membri di Dio fur già sepulti?
Noi morirem, né invidia avremo a i vivi;
noi morirem, ma non morremo inulti,
né l’Asia riderà di nostra sorte,
né pianta fia da noi la nostra morte.
Non creder già che noi fuggiam la pace
come guerra mortal si fugge e pave,
ché l’amicizia del tuo re ne piace,
né l’unirci con lui ne sarà grave;
ma s’al suo impero la Giudea soggiace,
tu ’l sai; perché tal cura ei dunque n’have?
De’ regni altrui l’acquisto ei non ci vieti,
e regga in pace i suoi tranquilli e lieti."
Cosí rispose, e di pungente rabbia
la risposta ad Argante il cor trafisse;
né ’l celò già, ma con enfiate labbia
si trasse avanti al capitano e disse:
"Chi la pace non vuol, la guerra s’abbia,
ché penuria giamai non fu di risse;
e ben la pace ricusar tu mostri,
se non t’acqueti a i primi detti nostri."
Indi il suo manto per lo lembo prese,
curvollo e fenne un seno; e ’l seno sporto,
cosí pur anco a ragionar riprese
via piú che prima dispettoso e torto:
"O sprezzator de le piú dubbie imprese,
e guerra e pace in questo sen t’apporto:
tua sia l’elezione; or ti consiglia
senz’altro indugio, e qual piú vuoi ti piglia."
L’atto fero e ’l parlar tutti commosse
a chiamar guerra in un concorde grido,
non attendendo che risposto fosse
dal magnanimo lor duce Goffrido.
Spiegò quel crudo il seno e ’l manto scosse,
ed: "A guerra mortal" disse "vi sfido";
e ’l disse in atto sí feroce ed empio
che parve aprir di Giano il chiuso tempio.
Parve ch’aprendo il seno indi traesse
il Furor pazzo e la Discordia fera,
e che ne gli occhi orribili gli ardesse
la gran face d’Aletto e di Megera.
Quel grande già che ’ncontra il cielo eresse
l’alta mole d’error, forse tal era;
e in cotal atto il rimirò Babelle
alzar la fronte e minacciar le stelle.
Soggiunse allor Goffredo: "Or riportate
al vostro re che venga, e che s’affretti,
che la guerra accettiam che minacciate;
e s’ei non vien, fra ’l Nilo suo n’aspetti."
Accommiatò lor poscia in dolci e grate
maniere, e gli onorò di doni eletti.
Ricchissimo ad Alete un elmo diede
ch’a Nicea conquistò fra l’altre prede.
Ebbe Argante una spada; e ’l fabro egregio
l’else e ’l pomo le fe’ gemmato e d’oro,
con magistero tal che perde il pregio
de la ricca materia appo il lavoro.
Poi che la tempra e la ricchezza e ’l fregio
sottilmente da lui mirati foro,
disse Argante al Buglion: "Vedrai ben tosto
come da me il tuo dono in uso è posto."
Indi tolto il congedo, è da lui ditto
al suo compagno: "Or ce n’andremo omai,
io a Gierusalem, tu verso Egitto,
tu co ’l sol novo, io co’ notturni rai,
ch’uopo o di mia presenza, o di mio scritto
essere non può colà dove tu vai.
Reca tu la risposta, io dilungarmi
quinci non vuo’, dove si trattan l’armi."
Cosí di messaggier fatto è nemico,
sia fretta intempestiva o sia matura:
la ragion de le genti e l’uso antico
s’offenda o no, né ’l pensa egli, né ’l cura.
Senza risposta aver, va per l’amico
silenzio de le stelle a l’alte mura,
d’indugio impaziente, ed a chi resta
già non men la dimora anco è molesta.
Era la notte allor ch’alto riposo
han l’onde e i venti, e parea muto il mondo.
Gli animai lassi, e quei che ’l mar ondoso
o de liquidi laghi alberga il fondo,
e chi si giace in tana o in mandra ascoso,
e i pinti augelli, ne l’oblio profondo
sotto il silenzio de’ secreti orrori
sopian gli affanni e raddolciano i cori.
Ma né ’l campo fedel, né ’l franco duca
si discioglie nel sonno, o almen s’accheta,
tanta in lor cupidigia è che riluca
omai nel ciel l’alba aspettata e lieta,
perché il camin lor mostri, e li conduca
a la città ch’al gran passaggio è mèta.
Mirano ad or ad or se raggio alcuno
spunti, o si schiari de la notte il bruno.