Ma ’l capitan de le cristiane genti,
vòlto avendo a l’assalto ogni pensiero,
giva apprestando i bellici instrumenti
quando a lui venne il solitario Piero;
e trattolo in disparte, in tali accenti
gli parlò venerabile e severo:
"Tu movi, o capitan, l’armi terrene,
ma di là non cominci onde conviene.
Sia dal Cielo il principio; invoca inanti
ne le preghiere pubbliche e devote
la milizia de gli angioli e de’ santi,
che ne impetri vittoria ella che puote.
Preceda il clero in sacre vesti, e canti
con pietosa armonia supplici note;
e da voi, duci gloriosi e magni,
pietate il vulgo apprenda e n’accompagni."
Cosí gli parla il rigido romito,
e ’l buon Goffredo il saggio aviso approva:
"Servo" risponde "di Giesú gradito,
il tuo consiglio di seguir mi giova.
Or mentre i duci a venir meco invito,
tu i Pastori de’ popoli ritrova,
Guglielmo ed Ademaro, e vostra sia
la cura de la pompa sacra e pia."
Nel seguente mattino il vecchio accoglie
co’ duo gran sacerdoti altri minori,
ov’entro al vallo tra sacrate soglie
soleansi celebrar divini onori.
Quivi gli altri vestír candide spoglie„
vestír dorato ammanto i duo Pastori
che bipartito sovra i bianchi lini
s’affibbia al petto, e incoronaro i crini.
Va Piero solo inanzi e spiega al vento
il segno riverito in Paradiso,
e segue il coro a passo grave e lento
in duo lunghissimi ordini diviso.
Alternando facean doppio concento
in supplichevol canto e in umil viso,
e chiudendo le schiere ivano a paro
i principi Guglielmo ed Ademaro.
Venia poscia il Buglion, pur come è l’uso
di capitan senza compagno a lato;
seguiano a coppia i duci, e non confuso
seguiva il campo in lor difesa armato.
Sí procedendo se n’uscia del chiuso
de le trinciere il popolo adunato,
né s’udian trombe o suoni altri feroci
ma di pietate e d’umiltà sol voci.
Te Genitor, te Figlio eguale al Padre,
e te che d’ambo uniti amando spiri,
e te d’Uomo e di Dio vergine Madre
invocano propizia a i lor desiri;
o Duci, e voi che le fulgenti squadre
del ciel movete in triplicati giri,
o Divo, e te che de la diva fronte
la monda umanità lavasti al fonte,
chiamano; e te che sei pietra e sostegno
de la magion di Dio fondato e forte,
ove ora il novo successor tuo degno
di grazia e di perdono apre le porte,
e gli altri messi del celeste regno
che divulgàr la vincitrice morte,
e quei che ’l vero a confermar seguiro,
testimoni di sangue e di martiro;
quegli ancor la cui penna o la favella
insegnata ha del Ciel la via smarrita,
e la cara di Cristo e fida ancella
ch’elesse il ben de la piú nobil vita;
e le vergini chiuse in casta cella
che Dio con alte nozze a sé marita;
e quell’altre magnanime a i tormenti,
sprezzatrici de’ regi e de le genti.
Cosí cantando, il popolo devoto
con larghi giri si dispiega e stende,
e drizza a l’Oliveto il lento moto,
monte che da l’olive il nome prende,
monte per sacra fama al mondo noto,
ch’oriental contra le mura ascende,
e sol da quelle il parte e ne ’l discosta
la cupa Giosafà ch’in mezzo è posta.
Colà s’invia l’essercito canoro,
e ne suonan le valli ime e profonde
e gli alti colli e le spelonche loro,
e da ben mille parti Ecco risponde,
e quasi par che boscareccio coro
fra quegli antri si celi e in quelle fronde,
sí chiaramente replicar s’udia
or di Cristo il gran nome, or di Maria,
D’in su le mura ad ammirar fra tanto
cheti si stanno e attoniti i pagani
que’ tardi avolgimenti e l’umil canto,
e l’insolite pompe e i riti estrani.
Poi che cessò de lo spettacol santo
la novitate, i miseri profani
alzàr le strida; e di bestemmie e d’onte
muggí il torrente e la gran valle e ’l monte.
Ma da la casta melodia soave
la gente di Giesú però non tace,
né si volge a que’ gridi o cura n’have
piú che di stormo avria d’augei loquace;
né perché strali aventino, ella pave
che giungano a turbar la santa pace
di sí lontano, onde a suo fin ben pote
condur le sacre incominciate note.
Poscia in cima del colle ornan l’altare
che di gran cena al sacerdote è mensa,
e d’ambo i lati luminosa appare
sublime lampa in lucid’oro accensa.
Quivi altre spoglie, e pur dorate e care,
prende Guglielmo, e pria tacito pensa,
indi con chiaro suon la voce spiega,
se stesso accusa e Dio ringrazia e prega.
Umili intorno ascoltano i primieri,
le viste i piú lontani almen v’han fisse.
Ma poi che celebrò gli alti misteri
del puro sacrificio: "Itene" ei disse;
e in fronte alzando a i popoli guerrieri
la man sacerdotal, li benedisse.
Allor se ’n ritornàr le squadre pie
per le dianzi da lor calcate vie.
Giunti nel vallo e l’ordine disciolto,
si rivolge Goffredo a sua magione,
e l’accompagna stuol calcato e folto
insino al limitar del padiglione.
Quivi gli altri accommiata indietro vòlto,
ma ritien seco i duci il pio Buglione,
e li raccoglie a mensa, e vuol ch’a fronte
di Tolosa gli sieda il vecchio conte.
Poi che de’ cibi il natural amore
fu in lor ripresso e l’importuna sete,
disse a i duci il gran duce: "Al novo albore
tutti a l’assalto voi pronti sarete:
quel fia giorno di guerra e di sudore,
questo sia d’apparecchio e di quiete.
Dunque ciascun vada al riposo, e poi
se medesmo prepari e i guerrier suoi."
Tolser essi congedo, e manifesto
quinci gli araldi a suon di trombe fèro
ch’essere a l’arme apparecchiato e presto
dée con la nova luce ogni guerriero.
Cosí in parte al ristoro e in parte questo
giorno si diede a l’opre ed al pensiero,
sin che fe’ nova tregua a la fatica
la cheta notte, del riposo amica.
Ancor dubbia l’aurora ed immaturo
ne l’oriente il parto era del giorno,
né i terreni fendea l’aratro duro,
né fea il pastore a i prati anco ritorno;
stava tra i rami ogni augellin securo,
e in selva non s’udia latrato o corno,
quando a cantar la mattutina tromba
comincia: "A l’arme!" " A l’arme!" il ciel rimbomba.
"A l’arme! a l’arme! " subito ripiglia
il grido universal di cento schiere.
Sorge il forte Goffredo e già non piglia
la gran corazza usata o le schiniere;
ne veste un’altra ed un pedon somiglia
in arme speditissime e leggiere;
e indosso avea già l’agevol pondo,
quando gli sovraggiunse il buon Raimondo.
Questi, veggendo armato in cotal modo
il capitano, il suo pensier comprese:
"Ov’è" gli disse "il grave usbergo e sodo?
ov’è, signor, l’altro ferrato arnese?
perché sei parte inerme? Io già non lodo
che vada con sí debili difese.
Or da tai segni in te ben argomento
che sei di gloria ad umil mèta intento.
Deh! che ricerchi tu? privata palma
di salitor di mura? Altri le saglia,
ed esponga men degna ed util alma
(rischio debito a lui) ne la battaglia;
tu riprendi, signor, l’usata salma
e di te stesso a nostro pro ti caglia.
L’anima tua, mente del campo e vita,
cautamente per Dio sia custodita."
Qui tace, ed ei risponde: "Or ti sia noto
che quando in Chiaramonte il grande Urbano
questa spada mi cinse, e me devoto
fe’ cavalier l’onnipotente mano,
tacitamente a Dio promisi in voto
non pur l’opera qui di capitano,
ma d’impiegarvi ancor, quando che fosse,
qual privato guerrier l’arme e le posse.
Dunque, poscia che fian contra i nemici
tutte le genti mie mosse e disposte,
e ch’a pieno adempito avrò gli uffici
che son dovuti al principe de l’oste,
ben è ragion (né tu, credo, il disdici)
ch’a le mura pugnando anch’io m’accoste,
e la fede promessa al Cielo osservi:
egli mi custodisca e mi conservi."
Cosí concluse, e i cavalier francesi
seguír l’essempio e i duo minor Buglioni;
gli altri principi ancor men gravi arnesi
parte vestiro e si mostràr pedoni.
Ma i pagani fra tanto erano ascesi
là dove a i sette gelidi Trioni
si volge e piega a l’occidente il muro,
che nel piú facil sito è men securo.
Però ch’altronde la città non teme
de l’assalto nemico offesa alcuna,
quivi non pur l’empio tiranno insieme
il forte vulgo e gli assoldati aduna,
ma chiama ancora a le fatiche estreme
fanciulli e vecchi l’ultima fortuna;
e van questi portando a i piú gagliardi
calce e zolfo e bitume e sassi e dardi.
E di macchine e d’arme han pieno inante
tutto quel muro a cui soggiace il piano,
e quinci in forma d’orrido gigante
da la cintola in su sorge il Soldano,
quindi tra’ merli il minaccioso Argante
torreggia, e discoperto è di lontano,
e in su la torre altissima Angolare
sovra tutti Clorinda eccelsa appare.
A costei la faretra e ’l grave incarco
de l’acute quadrella al tergo pende.
Ella già ne le mani ha preso l’arco,
e già lo stral v’ha su la corda e ’l tende;
e desiosa di ferire, al varco
la bella arciera i suoi nemici attende.
Tal già credean la vergine di Delo
tra l’alte nubi saettar dal cielo.
Scorre piú sotto il re canuto a piede
da l’una a l’altra porta, e ’n su le mura
ciò che prima ordinò cauto rivede
e i difensor conforta e rassecura;
e qui genti rinforza e là provede
di maggior copia d’arme, e ’l tutto cura.
Ma se ne van l’afflitte madri al tempio
a ripregar nume bugiardo ed empio.
"Deh! spezza tu del predator francese
l’asta, Signor, con la man giusta e forte;
e lui, che tanto il tuo gran nome offese,
abbatti e spargi sotto l’alte porte."
Cosí dicean, né fur le voci intese
là giú tra ’l pianto de l’eterna morte.
Or mentre la città s’appresta e prega,
le genti e l’arme il pio Buglion dispiega.
Tragge egli fuor l’essercito pedone
con molta providenza e con bell’arte,
e contra il muro ch’assalir dispone
obliquamente in duo lati il comparte.
Le baliste per dritto in mezzo pone
e gli altri ordigni orribili di Marte,
onde in guisa di fulmini si lancia
vèr le merlate cime or sasso, or lancia.
E mette in guardia i cavalier de’ fanti
da tergo, e manda intorno i corridori.
Dà il segno poi de la battaglia, e tanti
i sagittari sono e i frombatori
e l’arme da le machine volanti,
che scemano fra i merli i difensori.
Altri v’è morto e ’l loco altri abbandona;
già men folta del muro è la corona.
La gente franca impetuosa e ratta
allor quanto piú puote affretta i passi;
e parte scudo a scudo insieme adatta,
e di quegli un coperchio al capo fassi,
e parte sotto machine s’appiatta
che fan riparo al grandinar de’ sassi;
ed arrivando al fosso, il cupo e ’l vano
cercano empirne ed adeguarlo al piano.
Non era il fosso di palustre limo
(ché no ’l consente il loco) o d’acqua molle,
onde l’empieno, ancor che largo ed imo,
le pietre e i fasci e gli arbori e le zolle.
L’audacissimo Alcasto intanto il primo,
scopre la testa ed una scala estolle,
e no ’l ritien dura gragnuola o pioggia
di fervidi bitumi, e su vi poggia.
Vedeasi in alto il fier elvezio asceso
mezzo l’aereo calle aver fornito,
segno a mille saette, e non offeso
d’alcuna sí che fermi il corso ardito;
quando un sasso ritondo e di gran peso,
veloce come di bombarda uscito,
ne l’elmo il coglie e il risospinge a basso;
e ’l colpo vien dal lanciator circasso.
Non è mortal, ma grave il colpo e ’l salto
sí ch’ei stordisce, e giace immobil pondo.
Argante allor in suon feroce ed alto:
"Caduto è il primo, or chi verrà secondo?
Ché non uscite a manifesto assalto,
appiattati guerrier, s’io non m’ascondo?
Non gioveranvi le caverne estrane,
ma vi morrete come belve in tane."
Cosí dice egli, e per suo dir non cessa
la gente occulta, e tra i ripari cavi
e sotto gli alti scudi unita e spessa
le saette sostiene e i pesi gravi;
già gli arieti a la muraglia appressa,
machine grandi e smisurate travi,
c’han testa di monton ferrata e dura:
temon le porte il cozzo, e l’alte mura.
Gran mole intanto è di là su rivolta
per cento mani al gran bisogno pronte,
che sovra la testugine piú folta
ruina, e par che vi trabocchi un monte;
e de gli scudi l’union disciolta,
piú d’un elmo vi frange e d’una fronte,
e ne riman la terra sparsa e rossa
d’arme, di sangue, di cervella e d’ossa.
L’assalitore allor sotto al coperto
de le machine sue piú non ripara,
ma da i ciechi perigli al rischio aperto
fuori se n’esce e sua virtú dichiara.
Altri appoggia le scale e va per l’erto,
altri percote i fondamenti a gara.
Ne crolla il muro, e ruinoso i fianchi
già fesso mostra a l’impeto de’ Franchi.
E ben cadeva a le percosse orrende,
che doppia in lui l’espugnator montone,
ma sin da’ merli il popolo il difende
con usata di guerra arte e ragione,
ch’ovunque la gran trave in lui si stende
cala fasci di lana e li frapone;
prende in sé le percosse e fa piú lente
la materia arrendevole e cedente.
Mentre con tal valor s’erano strette
l’audaci schiere e la tenzon murale,
curvò Clorinda sette volte, e sette
rallentò l’arco e n’aventò lo strale;
e quante in giú se ne volàr saette,
tante s’insanguinaro il ferro e l’ale,
non di sangue plebeo ma del piú degno,
ché sprezza quell’altera ignobil segno.
Il primo cavalier ch’ella piagasse
fu l’erede minor del rege inglese.
Da’ suoi ripari a pena il capo ei trasse
che la mortal percossa in lui discese,
e che la destra man non gli trapasse
il guanto de l’acciar nulla contese;
sí che inabile a l’arme ei si ritira
fremendo, e meno di dolor che d’ira.
Il buon conte d’Ambuosa in ripa al fosso,
e su la scala poi Clotareo il franco:
quegli morí trafitto il petto e ’l dosso,
questi da l’un passato a l’altro fianco.
Sospingeva il monton, quando è percosso
al signor de’ Fiamminghi il braccio manco,
sí che tra via s’allenta, e vuol poi trarne
lo strale, e resta il ferro entro la carne.
A l’incauto Ademar, ch’era da lunge
la fera pugna a riguardar rivolto,
la fatal canna arriva e in fronte il punge.
Stende ei la destra al loco ove l’ha colto,
quando nova saetta ecco sorgiunge
sovra la mano e la confige al volto;
onde egli cade, e fa del sangue sacro
su l’arme feminili ampio lavacro.
Ma non lungi da’ merli a Palamede,
mentre ardito disprezza ogni periglio
e su per gli erti gradi indrizza il piede,
cala il settimo ferro al destro ciglio,
e trapassando per la cava sede
e tra i nervi de l’occhio esce vermiglio
diretro per la nuca; egli trabocca
e more a’ piè de l’assalita rocca.
Tal saetta costei. Goffredo intanto
con novo assalto i difensori opprime.
Avea condotto ad una porta a canto
de le machine sue la piú sublime.
Questa è torre di legno, e s’erge tanto
che può del muro pareggiar le cime;
torre che grave d’uomini ed armata,
mobile è su le rote e vien tirata.
Viene aventando la volubil mole
lancie e quadrella, e quanto può s’accosta,
e come nave in guerra nave suole,
tenta d’unirsi a la muraglia opposta;
ma chi lei guarda ed impedir ciò vuole,
l’urta la fronte e l’una e l’altra costa,
la respinge con l’aste e le percote
or con le pietre i merli ed or le rote.
Tanti di qua, tanti di là fur mossi
e sassi e dardi ch’oscuronne il cielo.
S’urtàr due nembi in aria, e là tornossi
talor respinto, onde partiva, il telo.
Come di fronde sono i rami scossi
da la pioggia indurata in freddo gelo
e ne caggiono i pomi anco immaturi,
cosí cadeano i saracin da i muri,
però che scende in lor piú greve il danno,
che di ferro assai meno eran guerniti.
Parte de’ vivi ancora in fuga vanno,
de la gran mole al fulminar smarriti.
Ma quel che già fu di Nicea tiranno
vi resta, e fa restarvi i pochi arditi;
e ’l fero Argante a contraporsi corre,
presa una trave, a la nemica torre,
e da sé la respinge e tien lontana
quanto l’abete è lungo e ’l braccio forte.
Vi scende ancor la vergine sovrana,
e de’ perigli altrui si fa consorte.
I Franchi intanto a la pendente lana
le funi recideano e le ritorte
con lunghe falci, onde cadendo a terra
lasciava il muro disarmato in guerra.
Cosí la torre sovra, e piú di sotto
l’impetuoso il batte aspro ariete,
onde comincia ormai forato e rotto
a discoprir le interne vie secrete.
Essi non lunge il capitan condotto,
al conquassato e tremulo parete,
nel suo scudo maggior tutto rinchiuso
che rade volte ha di portar in uso.
E quivi cauto rimirando spia,
e scender vede Solimano a basso
e porsi a la difesa ove s’apria
tra le ruine il periglioso passo,
e rimaner della sublime via
Clorinda in guardia e ’l cavalier circasso.
Cosí guardava, e già sentiasi il core
tutto avampar di generoso ardore.
Onde rivolto dice al buon Sigiero,
che gli portava un altro scudo e l’arco:
"Ora mi porgi, o fedel mio scudiero,
cotesto men gravoso e grande incarco,
ché tenterò di trapassar primiero
su i dirupati sassi il dubbio varco;
e tempo è ben che qualche nobil opra
de la nostra virtute omai si scopra."
Cosí mutato scudo a pena disse,
quando a lui venne una saetta a volo,
e ne la gamba il colse e la trafisse
nel piú nervoso, ove è piú acuto il duolo.
Che di tua man, Clorinda, il colpo uscisse,
la fama il canta, e tuo l’onor n’è solo;
se questo dí servaggio e morte schiva
la tua gente pagana, a te s’ascriva.
Ma il fortissimo eroe, quasi non senta
il mortifero duol de la ferita,
dal cominciato corso il piè non lenta,
e monta su i dirupi e gli altri invita.
Pur s’avede egli poi che no ’l sostenta
la gamba, offesa troppo ed impedita,
e ch’inaspra agitando ivi l’ambascia,
onde sforzato alfin l’assalto lascia.
E chiamando il buon Guelfo a sé con mano,
a lui parlava: "Io me ne vo constretto:
sostien persona tu di capitano
e di mia lontananza empi il diffetto.
Ma picciol’ora io vi starò lontano:
vado e ritorno." E si partia, ciò detto;
ed ascendendo in un leggier cavallo,
giunger non può che non sia visto al vallo.
Al dipartir del capitan, si parte
e cede il campo la fortuna franca.
Cresce il vigor ne la contraria parte,
sorge la speme e gli animi rinfranca;
e l’ardimento co ’l favor di Marte
ne’ cor fedeli e l’impeto già manca:
già corre lento ogni lor ferro al sangue,
e de le trombe istesse il suono langue.
E già tra’ merli a comparir non tarda
lo stuol fugace che ’l timor caccionne,
e mirando la vergine gagliarda,
vero amor de la patria arma le donne.
Correr le vedi e collocarsi in guarda
con chiome sparse e con succinte gonne,
e lanciar dardi e non mostrar paura
d’esporre il petto per l’amate mura.
E quel ch’a i Franchi piú spavento porge,
e ’l toglie a i difensor de la cittade,
è che ’l possente Guelfo (e se n’accorge
questo popol e quel) percosso cade.
Tra mille il trova sua fortuna e scòrge
d’un sasso il corso per lontane strade;
e da sembiante colpo al tempo stesso
colto è Raimondo, onde giú cade anch’esso.
Ed aspramente allora anco fu punto
ne la proda del fosso Eustazio ardito.
Né in questo a i Franchi fortunoso punto
contra lor da’ nemici è colpo uscito
(che n’uscír molti) onde non sia disgiunto
corpo da l’alma o non sia almen ferito.
E in tal prosperità via piú feroce
divenendo il circasso, alza la voce:
"Non è questa Antiochia, e non è questa
la notte amica a le cristiane frodi.
Vedete il chiaro sol, la gente desta,
altra forma di guerra ed altri modi.
Dunque favilla in voi nulla piú resta
de l’amor de la preda e de le lodi,
che sí tosto cessate e sète stanche
per breve assalto, o Franchi no, ma Franche?"
Cosí ragiona, e in guisa tal s’accende
ne le sue furie il cavaliero audace
che quell’ampia città ch’egli difende
non gli par campo del suo ardir capace,
e si lancia a gran salti ove si fende
il muro e la fessura adito face;
ed ingombra l’uscita, e grida intanto
a Soliman che si vedeva a canto:
"Soliman, ecco il loco ed ecco l’ora
che del nostro valor giudice fia.
Che cessi? o di che temi? or costà fora
cerchi il pregio sovran chi piú ’l desia."
Cosí gli disse, e l’uno e l’altro allora
precipitosamente a prova uscia;
l’un da furor, l’altro da onor rapito
e stimolato dal feroce invito.
Giunsero inaspettati ed improvisi
sovra i nemici, e in paragon mostràrsi;
e da lor tanti furo uomini uccisi,
e scudi ed elmi dissipati e sparsi,
e scale tronche ed arieti incisi,
che di lor parve quasi un monte farsi,
e mescolati a le ruine alzaro,
in vece del caduto, alto riparo.
La gente che pur dianzi ardí salire
al pregio eccelso di mural corona,
non ch’or d’entrar ne la cittate aspire,
ma sembra a le difese anco mal buona;
e cede al nuovo assalto, e in preda a l’ire
de’ duo guerrier le machine abbandona,
ch’ad altra guerra ormai saran mal atte
tanto è ’l furor che le percote e batte.
L’uno e l’altro pagan, come il trasporta
l’impeto suo, già piú e piú trascorre;
già ’l foco chiede a i cittadini, e porta
duo pini fiammeggianti invèr la torre.
Cotali uscir da la tartarea porta
sogliono, e sottosopra il mondo porre,
le ministre di Pluto empie sorelle,
lor ceraste scotendo e lor facelle.
Ma l’invitto Tancredi, il qual altrove
confortava a l’assalto i suoi latini,
tosto che vide l’incredibil prove,
e la gemina fiamma e i duo gran pini,
tronca in mezzo le voci, e presto move
a frenar il furor de’ saracini;
e tal del suo valor dà segno orrendo
che chi vinse e fugò fugge or perdendo.
Cosí de la battaglia or qui lo stato
co ’l variar de la fortuna è vòlto,
e in questo mezzo il capitan piagato
ne la gran tenda sua già s’è raccolto
co ’l buon Sigier, con Baldovino a lato,
de i mesti amici in gran concorso e folto;
ei che s’affretta e di tirar s’affanna
de la piaga lo stral, rompe la canna,
e la via piú vicina e piú spedita
a la cura di lui vuol che si prenda,
scoprasi ogni latebra a la ferita
e largamente si risechi e fenda.
"Rimandatemi in guerra, onde fornita
non sia co ’l dí prima ch’a lei mi renda."
Cosí dice; e premendo il lungo cerro
d’una gran lancia, offre la gamba al ferro.
E già l’antico Eròtimo, che nacque
in riva al Po, s’adopra in sua salute,
il qual de l’erbe e de le nobil acque
ben conosceva ogni uso, ogni virtute;
caro a le Muse ancor, ma si compiacque
ne la gloria minor de l’arti mute,
sol curò tòrre a morte i corpi frali,
e potea far i nomi anco immortali.
Stassi appoggiato, e con secura faccia
freme immobile al pianto il capitano.
Quegli in gonna succinto e da le braccia
ripiegato il vestir, leggiero e piano
or con l’erbe potenti in van procaccia
trarne lo strale, or con la dotta mano;
e con la destra il tenta e co ’l tenace
ferro il va riprendendo, e nulla face.
L’arte sue non seconda ed al disegno
par che per nulla via fortuna arrida;
e nel piagato eroe giunge a tal segno
l’aspro martír che n’è quasi omicida.
Or qui l’angiol custode, al duol indegno
mosso di lui, colse dittamo in Ida:
erba crinita di purpureo fiore
c’have in giovani foglie alto valore.
E ben mastra natura a le montane
capre n’insegna la virtú celata,
qualor vengon percosse e lor rimane
nel fianco affissa la saetta alata.
Ouesta, benché da parti assai lontane,
in un momento l’angelo ha recata,
e non veduto entro le mediche onde
de gli apprestati bagni il succo infonde,
e del fonte di Lidia i sacri umori
e l’odorata panacea vi mesce.
Ne sparge il vecchio la ferita, e fuori
volontario per sé lo stral se ’n esce
e si ristagna il sangue; e già i dolori
fuggono da la gamba e ’l vigor cresce.
Grida Eròtimo allor: "L’arte maestra
te non risana o la mortal mia destra,
maggior virtú ti salva: un angiol, credo,
medico per te fatto, è sceso in terra,
ché di celeste mano i segni vedo:
prendi l’arme; che tardi? e riedi in guerra."
Avido di battaglia il pio Goffredo
già ne l’ostro le gambe avolge e serra,
e l’asta crolla smisurata, e imbraccia
il già deposto scudo e l’elmo allaccia.
Uscí dal chiuso vallo, e si converse
con mille dietro a la città percossa:
sopra di polve il ciel gli si coperse,
tremò sotto la terra al moto scossa;
e lontano appressar le genti averse
d’alto il miraro, e corse lor per l’ossa
un tremor freddo e strinse il sangue in gelo.
Egli alzò tre fiate il grido al cielo.
Conosce il popol suo l’altera voce
e ’l grido eccitator de la battaglia,
e riprendendo l’impeto veloce
di novo ancora a la tenzon si scaglia.
Ma già la coppia de i pagan feroce
nel rotto accolta s’è de la muraglia,
difendendo ostinata il varco fesso
dal buon Tancredi e da chi vien con esso.
Qui disdegnoso giunge e minacciante
chiuso ne l’arme il capitan di Francia,
e ’n su la prima giunta al fero Argante
l’asta ferrata fulminando lancia.
Nessuna mural machina si vante
d’aventar con piú forza alcuna lancia.
Tuona per l’aria la nodosa trave,
v’oppon lo scudo Argante e nulla pave.
S’apre lo scudo al frassino pungente,
né la dura corazza anco il sostiene,
ché rompe tutte l’arme, e finalmente
il sangue saracino a sugger viene.
Ma si svelle il circasso (e il duol non sente)
da l’arme il ferro affisso e da le vene,
e ’n Goffredo il ritorce: "A te" dicendo
"rimando il tronco, e l’armi tue ti rendo."
L’asta, ch’offesa or porta ed or vendetta,
per lo noto sentier vola e rivola,
ma già colui non fère ove è diretta,
ch’egli si spiega e ’l capo al colpo invola;
coglie il fedel Sigiero, il qual ricetta
profondamente il ferro entro la gola,
né gli rincresce, del suo caro duce
morendo in vece, abbandonar la luce.
Quasi in quel punto Soliman percote
con una scelce il cavalier normando;
e questi al colpo si contorce e scote
e cade in giú come paleo rotando.
Or piú Goffredo sostener non pote
l’ira di tante offese, e impugna il brando,
e sovra la confusa alta ruina
ascende, e move omai guerra vicina.
E ben ei vi facea mirabil cose,
e contrasti seguiano aspri e mortali,
ma fuor uscí la notte e ’l mondo ascose
sotto il caliginoso orror de l’ali;
e l’ombre sue pacifiche interpose
fra tante ire de’ miseri mortali,
sí che cessò Goffredo e fe’ ritorno.
Cotal fine ebbe il sanguinoso giorno.
Ma pria che ’l pio Buglione il campo ceda,
fa indietro riportar gli egri e i languenti,
e già non lascia a’ suoi nemici in preda
l’avanzo de’ suoi bellici tormenti;
pur salva la gran torre avien che rieda,
primo terror de le nemiche genti,
come che sia da l’orrida tempesta
sdruscita anch’essa in alcun loco e pesta.
Da’ gran perigli uscita ella se ’n viene
giungendo a loco omai di sicurezza.
Ma qual nave talor ch’a vele piene
corre il mar procelloso e l’onde sprezza,
poscia in vista del porto o su l’arene
o su i fallaci scogli un fianco spezza;
o qual destrier passa le dubbie strade
e presso al dolce albergo incespa e cade;
tale inciampa la torre, e tal da quella
parte che volse a l’impeto de’ sassi
frange due rote debili, sí ch’ella
ruinosa pendendo arresta i passi.
Ma le suppone appoggi e la puntella
lo stuol che la conduce e seco stassi,
insin che i pronti fabri intorno vanno
saldando in lei d’ogni sua piaga il danno.
Cosí Goffredo impone, il qual desia
che si racconci inanzi al novo sole,
ed occupando questa e quella via
dispon le guardie intorno a l’alta mole;
ma ’l suon ne la città chiaro s’udia
di fabrili instrumenti e di parole,
e mille si vedean fiaccole accese,
onde seppesi il tutto o si comprese.